La nostra Venerabile Arciconfraternita volendo porre ad effetto un suo pio desiderio di restaurare, al miglior modo che le convenisse, l’altare maggiore della sua Chiesa di Santa Maria di Porta Santa, il quale era bruttato da rustici e sconvenevoli colori, per errore grandissimo de’ nostri maggiori, mentre scorgevasi costruito di bianca pietra, lavorata a fattura di marmo, sebbene di poca importanza artistica, determinò nel 1854 di demolirlo, non potendo più altrimenti farlo più adatto al culto divino. E però non tollerando i più i Confratelli alcun indugio a porre mano a sì santa opera, finché si fosse fatta la proposta dell’occorrente spesa al Consiglio Generale degli Ospizi della Provincia, e se ne fosse ottenuta l’approvazione, mossi da santo zelo volentierosi offerirono la propria moneta. Questo la fine di Febbraro, del testé detto anno fu eseguito il nobile proponimento.
Era l’altare collocato in mezzo alle due colonne di pietra, che quivi tutt’ora si veggono; e con il suo dorso poggiava al muro del Sacro Tempio. Fattane la demolizione si scorse che il muro dietro posto non era di pietra siccome tutto il sacro edificio, ma di tufi neppure ben connessi tra loro, d’onde si rinnovellò nella mente degli astanti Confratelli la vetusta tradizione, che di sotto si nascondessero davvero memorie antiche. Fu consiglio di ciascuno che si rimuovesse quella parete, e si esplorasse là fin dove ne giungesse. E dopo un doppio ordine di tufi, si discovrì l’arco di pietra che or vedesi sull’altare maggiore, somigliante all’arco dei due altarini.
Il fondo dell’arco, o sia la parete che lo chiude, offriva vari dipinti ad acquerella, di spregevole pennello, rappresentanti varie sacre effigie, siccome qui appresso è detto.
Alla sommità eravi l’Eterno Padre cinto di aureola triangolare, dorata a secco, ed in atteggiamento stranamente concepito, da dare l’idea della fecondazione di una chioccia, come se con ciò si volesse indicare l’atto solenne della creazione. Seguiva di sotto una schiera di serafini, la quale pareva che sovrastasse a foggia di corona ad altro sacro dipinto; ma quivi invece la parete era scontinuata, e per sorregerla eravi a puntello un muro di tufi a secco; e rimossi alquanti di questi, si vide uno sfondato scavato a forza nella pienezza della parete del Tempio, il quale aveva l’altezza di palmi sei, la larghezza di quattro, e la profondità di circa tre palmi.
Ai lati del sovradetto sfondato eranvi due altre sacre immagini, una rappresentante San Pietro, post’a destra, e l’altra San Riccardo a sinistra; le quali perché di forme colossali ed intere giungevano con i loro piedi sino al pavimento della Chiesa. Quello era vestito di abiti da Apostolo; questo di piviale con mitra e pastorale, tenente le prime tre dita della mano destra in estensione, e le altre due flesse, e sulla mano sinistra la Città, e per il resto offrivasi nella stessa guisa come tutt’ora si rappresenta quella santa immagine nei dipinti e nelle litografie.
Su i muri dell’arco, una per ciascun lato, a livello delle due immagini testé menzionate, eranvi altre due effigie, che rappresentavano due Sante Vergini.
Alla vista degli esposti dipinti e dello sfondato di mezzo allo schiuso arco, per tutta la Città corse forte il grido che nella Chiesa di Porta Santa i Confratelli con maturo disegno avessero diseppelliti antichi monumenti; che i dipinti fossero a fresco e di egregio pennello, che avessero trovato antiche lapidi ed oggetti di gran pregio e valore. La gente vi accorreva in folla spinta da santa curiosità di ammirare quanto si fosse discoperto, e soprattutto dal cristiano zelo di riverire le antiche immagini del Principe degli Apostoli e del Glorioso Protettore, cui in quell’avventurato Tempio si ligavano tante felici memorie della primitiva fede dei nostri progenitori, con che ribadivano il gentilesimo.
Si affrettò pure il Municipio a visitare il Sacro Tempio, più con il pensiero di esercitarvi giurisdizione, per l’idea di un preteso diritto di patronato che opinava vantare sulla nostra Chiesa, e per prendere contezza de’ monumenti che dicevansi rinvenuti, ed assicurarli, o invigilarvene come autorità pubblica, che per altro migliore e pio intendimento; perocché il secondo Eletto D. Vincenzo D’Urso si ebbe dai Confratelli risposte convenienti e dignitose. Ma questi fermo nel proposito di volere far valere in fatto ciò che era un desiderio del Municipio, o meglio di alquanti suoi uffiziali per rivalità piuttosto di altra corporazione laicale, richiese le pretese lapidi; e siccome sospettavasi che esse riguardassero diritti comunali, e segnatamente il vagheggiato patronato sulla nostra Chiesa, capì dicevasi, che a bello studio si fossero esse nascoste dai confratelli. Si rispondeva precisamente che nulla si fosse ritrovato. E ritenendo ciò quell’Uffiziale comunale per formale ripulsa alla sua autorità delegò a deputati due Decurioni, che furono Don Giuseppe Ceci, nostro confratello, e Don Nicola Fasoli, affinché vegliassero su gli ulteriori lavori che si eseguissero nella Chiesa. Ciò dispiacque ai Confratelli, i quali vedendo che con la demolizione di tutto il muro che serviva di chiusura all’arco sopra esposto, sotto l’enunciato sfondato, davasi adito dall’esterno nell’interno della Chiesa, per un vuoto giacente sotto la così detta scarpa degli antichi muraglioni della Città, che rivestiva inferiormente il muro esterno del Tempio, guardante mezzogiorno, d’onde potevasi dare agio a furti, reputarono savio consiglio di sospendere i lavori; e per impedire ancora che più vi affollasse popolo chiusero la Chiesa.
I Deputati municipali si dolsero di questo provvedimento, e tennero per certo che fosse stato preso per disconoscere sempreppiù l’autorità del Municipio, ch’essi rappresentavano, e quasi a disprezzo dei millantati dritti di patronato di lui. Perocché nell’esordire di un tal quale corruccio il Sindaco, ancor dolente soprammodo di non essergli riuscito di formolare in Chiesa un verbale capzioso con l’intervento de’ nostri amministratori, credé vendicarsi col promuovere dal Sottintendente di Barletta il divieto al proseguimento dei lavori per la ricomposizione dell’altare demolito, a pretesto di avere la Confraternita, in offesa dei pubblici regolamenti di archeologia, fatto uno scavo con l’intendimento di scoprire monumenti antichi in una Chiesa non sua, ma di proprietà del Comune.
La Confraternita unanimamente se ne contristò, ma pure sperava che si fossero ricomposti gli animi di entrambe le parti a dignitosa riconciliazione, e che si fosse ricondotto al culto divino il suo altare maggiore.
In questo l’Illustrissimo Monsignor Vescovo seguitando il giro della santa visita alle Chiese della Città, fece segretamente conoscere ai Confratelli, per evitare competenze dispiacevoli con il Municipio, che il giorno 13 Marzo avrebbe visitato la nostra Chiesa di Porta Santa. Quivi nel menzionato dì si unirono i Confratelli in gran numero, e vestiti di sacco stavansi preparati, insieme al Reverendo Rettore Spirituale, Canonico Don Alessandro Parlati, al ricevimento del loro Pastore. Ma ben presto essi furono sorpresi dell’entrare in Chiesa del Canonico Don Vincenzo Latilla, Priore della Cappella di San Riccardo nella Chiesa Cattedrale; il quale, essendo vestito di abiti corali, e tenendo in mano un aspersorio, fece intendere, rispondendo loro, che ne venisse per esercitare suoi dritti nella sua Chiesa beneficiata, essendo di essa padrone il Comune.
Non valsero tutte le maniere di persuasione dei Confratelli e del Reverendo Rettore, contemperate di dignità come si conveniva alla santità del luogo, al sacro rispetto dell’abito che vestivano, ed al contegno di uomini per fama di mente e di cuore ben segnalati nella civile società, a rimuovere il Signor Latilla dal suo fermo proponimento, e come suole intervenire tra persone ancorché forti dei loro castigati costumi, allorché lo zelo e l’amore per diritti ingiustamente lesi le trasporta quasi a passione, si passò ai risentimenti, e la questione prese ben tosto proporzioni pericolose. Frattanto quasi che tutt’i Confratelli accorsero a mano a mano come si andava divulgando per la Città il grido del tentativo che facevasi per ispogliarli dell’amatissima loro Chiesa; alla quale si ligavano tante piacevoli rimembranze dei padri loro, e di se stessi per opere di culto, ed altre molte di ogni natura fatte nel sacro Tempio a loro cura, e anco a proprie spese.
In mezzo al ricambio di calde parole corse alla mente de’ Confratelli il felice pensiero, che solo ed unico mezzo a troncare di fatto le minaccevoli vertenze fosse quello di riferire l’avvenimento a Monsignore Illustrissimo, e pregarlo a posporre la santa visita, e così si sarebbero risparmiati vari scandali alla Città, e pericoli gravissimi a circa sessanta famiglie di galantuomini confratelli. Ad eseguire ciò si mossero sollecitamente per diverse strade il Reverendo Rettore, ed alquanti Confratelli, divisi in due deputazioni, per avere maggiore opportunità ad incontrare il Vescovo. Il quale dolorosamente meravigliandosene diresse loro parole confortevoli, affinché la Confraternita avesse in grazia del Signore tollerate le violenti molestie; ed esortava ciascun Confratello ad usare moderazione nella Casa di Dio verso l’autore dell’ingiusta turbativa; ed assicurò che non sarebbe venuto in Chiesa, ma che era suo consiglio che si fossero rimasti a guardia del Signor Latilla pochi Confratelli, fino a che questi per istanchezza e tedio non si fosse ritirato abbandonando il malavvisato tentativo.
Frattanto i Confratelli presi da nobile sdegno per la pertinacia sempre nuova del Signor Latilla, il quale si pose sulla soglia della Chiesa impedendo loro che si chiudesse il portone, avevano già mandato per il Notar D. Luigi Intonti, non potendo adoperare i Notari Confratelli, per istipulare un atto pubblico, con lo scopo di munirsi di un documento legale a discolpa di qualsiasi loro compromissione. Questo provvedimento si ebbe l’efficace effetto della sollecita partenza del Signor Latilla alla sola vista del menzionato Notaro, donde egli poté comprendere con quale intendimento questi fosse dalla Confraternita invitato.
Rimasti soli i Confratelli e congregati in sacrestia votarono la deliberazione che leggesi nella conclusione sotto la data del giorno 13 Marzo 1854, che fu l’atto solenne che iniziò la causa sul patronato della Chiesa tra il Pio luogo ed il Priore di San Riccardo, e poscia il Comune di Andria.
In effetto fu dai nostri amministratori presentata nello stesso dì una istanza nella Curia Vescovile, istituendosi un giudizio in possessorio.
La parte avversa ne istituiva, con sua istanza del giorno 18, un altro del tutto opposto, ossia in petitorio, chiedendo che essa fosse immessa nel possesso della Chiesa. Il ricambio delle seguenti istanze presentate in Curia, ed i provvedimenti da Lei emessi, insieme al Decreto pronunziato a pro della Confraternita, valgono a provare la falsa via che tracciavasi il Priore di San Riccardo per conseguire il suo fine.
Mentre che la causa pendeva il Sindaco concepì il disegno di esercitare violento atto di possesso nella Chiesa, ed all’uopo munendosi di una lettera ufficiale del Sottintendente di Barletta preparavasi ad entrare nel Tempio, ed elevare un progetto di urgenza dei restauri e della ricostruzione dell’altare maggiore, mercé verbale della deputazione delle opere pubbliche comunali. Di che avvertiti i nostri amministratori e deputati si corse a chiudere la Chiesa, per evitare le vie di fatto, e la chiave fu data nelle mani di Monsignor Vescovo. Il quale molto di contristò perché si rinnovellassero di autorità costituite basse violenze sul possesso di una Chiesa che era inviolabile, perché sub judice; ed alle ripetute inchieste del Sindaco, che faceva sembianza di eseguire comandi de’ superiori, rispose sempre in tuono di contegno che l’autorità laica non avesse potere sulle Chiese. Fallito quest’altro tentativo, il Sindaco che poggiava sullo sdegno del Soprintendente invocò l’autorità dell’Intendente per umiliare (non potendo ciò fare ad altro) fra i Confratelli, quelli che avessero mostrato più diligenza e zelo nella difesa dei loro diritti, ma quegli, che aveva avuto contezza degli avvenimenti da rapporti ufficiali dei nostri amministratori, rispose con dignità tenendo le parti della giustizia a pro della Confraternita.
Di quest’altro contrario successo, seguito dalla inaspettata sentenza canonica dolendosi il Priore di San Riccardo, ed anche perché neppure le studiate incolpazioni di parte ingiuriosamente date alla Curia avessero sortito il vagheggiato effetto d’investirlo dei dritti altrui, e non rimanendogli altro mezzo di difesa, se ne tacque, aspettandone la rivendicazione dal Municipio. Il quale usando linguaggio più liberamente ingiurioso del suo Priore beneficiato, bandiva la decisione canonica per abusiva ed illegale, tenendo fermo, che fosse competente a diffinire l’insorta controversia la sola autorità laica. Per la qual cosa formolava in un modo segreto e misterioso una sua bugiarda e calunniosa conclusione, volendo così cogliere alla sprovvista la parte contraria nel dar vita ad un secondo giudizio tutto petitoriale ed amministrativo, anzi avendo egli fidanza che questo valesse ad annullare il primo, senza che la Confraternita il sapesse; il cui decreto era già passato, dopo la conveniente intimidazione, in cosa giudicata per difetto di gravame.
Ma contro la sua aspettazione, pervenuto immantinente, per cortesia di amico, a conoscenza del nostro Primo Consigliere quell’atto deliberativo, prima ch’esso giungesse nel Consiglio d’Intendenza di Bari, su cui riposavasi per il buon successo, mentreché da lui erasi già scritta la prima parte della memoria in difesa dei diritti della Confraternita, e adombrata la seconda per quello che si trovasse esposto dal Priore di San Riccardo nelle sue istanze, contenute nel processo canonico, si ebbe da lui medesimo l’agio di stenderle ampiamente, confutando tutti gli argomenti dell’avversario apposti. Al che dovette aggiungersi la terza parte che è il trattatello della prescrizione, il quale fu opera dell’Avvocato Don Alfonso Margiotta Gramsci, nostro Confratello, e deputato della causa in parola. A compiere l’intero lavoro mancavagli la legalità, o meglio la veste canonica, che la poté fornire il Canonista ed Avvocato Don Lorenzo Festa Campanile di Trani, mercé le svariate citazioni ed osservazioni di dritto ecclesiastico.
Fu in fine la detta memoria presentata in Congregazione, e fornita delle firme di tutti i Confratelli nel giorno otto Gennaio del 1855, dai teste menzionati due Confratelli deputati fu essa deposta nella segreteria del Consiglio Generale degli Ospizi della Provincia, dopo fatte le convenienti informazioni a ciascun consigliere, ed al Consiglio Generale sul vero concetto della controversia.
I due Consigli uniformemente alla conclusione municipale, ed alla memoria della Confraternita, emisero i loro opposti avvisi, ciascuno sostenendo le ragioni del corpo morale a se subordinato. Ed in fine tutti gli atti della contestazione furono dall’Intendente inviati al Reale Ministero, e da questo per Reale comandamento furono rimessi alla Consulta del Regno, affinché se ne fosse pronunziata la diffinitiva decisione.
Il nostro difensore Signor Durelli compendiò tutte le ragioni esposte nella lunga nostra memoria in un suo lavoro che pose a stampa, da servire per la Consulta del Regno. La quale con suo avviso del dì 19 Giugno 1857 ritenne per legittimi i diritti del Pio Luogo della Chiesa, il quale sarebbe stato favorevolmente accolto dal Consiglio di Stato, e munito poscia del Reale Assenso, se il Decreto del giorno 18 Maggio 1857 non si fosse in quel mezzo pubblicato, con il quale tutte le controversie di patronato sulle Chiese furono rimesse per la loro diffinizione agli Ordinarii Diocesani. Perciò la causa fu rinviata alla Curia Vescovile, dopo moltissime spese fatte in Bari ed in Napoli, e molestie non poche sofferte da coloro che le maneggiarono, come si può leggere in questo primo volume e seguente che la riguardano, nonché nel libro delle lettere del procuratore e sollecitatore di Bari il Signor Monetti, e del nostro difensore di Napoli, il Signor Durelli (1).
La nostra deputazione volendo non assopire la controversia, ma condurla una volta al suo termine, per non farla riprendere in altro tempo forse disadatto a farne la conveniente difesa, opinava presentare istanza alla Curia Vescovile, affinché il giudizio petitorio per parte del Municipio avesse avuto il suo procedimento. Ma siccome di poi si considerò che il tempo, giusta il diritto canonico, fosse pure efficace ad ottenere il successo che desideravasi, mercé il decadimento dell’azione petitoria, senz’altre inquietudini e spese, così se ne lasciò il proponimento; e quella istanza è messa in fine del secondo volume, a compimento di tutti gli atti che riguardano la causa del patronato della nostra Chiesa di Santa Maria di Porta Santa.
Andria, Gennaro 1858.
Francesco Senisi Priore
NOTE
(1) Parere della Consulta a favore della Congrega sulla causa del Patronato emesso a 19 Giugno 1857 – Volume delle Lettere di Durelli pag.ª 96 –.
[dal manoscritto originale “Processo Canonico ed Amministrativo sul diritto di Patronato di Porta Santa”, vol. I, ff. 4r-10v]