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Storia della Città di Andria ...

di Riccardo D'Urso (1800 - 1845), Tipografia Varana, Napoli, 1842, pagg. 50-55

Libro TERZO

Capitolo III.

Castello del Monte.

Per quanto mi sia interessato per giungere a conoscenza della primordiale esistenza di questo Lione sbranato (lo chiamo così, perché ora ne rimane solo il simulacro), non ho potuto affatto venirne a capo. Mancando in esso iscrizioni, o millesimi, ad eccezione di alcuni geroglifici, n’è avvenuto che molti hanno scritto a loro genio. Che esso esisteva prima dell’arrivo de’ Svevi, e forse in altra forma, pare di non potersi mettere in dubbio. Difatto il Pratilli [1] lo vuole a tempi o de’ Greci, o de’ Saracèni, o de’ Longobardi; e sono sue parole «se pure non fusse ella servita (cioè questa Rocca) ne’ secoli della Gentilità per uso di monumento sepolcrale, ridotta poi o da’ Greci, o da’ Saraceni, o dai Longobardi in fortezza. La Fabbrica è tutta vestita al di fuori di marmo rustico a punta come di cono di diamante: e al di dentro tutta incrustata di scelti marmi ben lavorati, e commessi, oltre varie colonne … etc. »
Che la fabbrica sia anche vestita di marmo al di fuori, è falso. Solo è di marmo l’orlatura della porta d’ingresso e gli ornati delle finestre.
Troviamo nella cronaca di S. Sofia «Saraceni comprehenderunt Botuntum, et Castrum Naetii, Anno 1009» [2], o sia che i Seraceni occuparono, ad onta della più viva resistenza presentata loro dai due famosi Duci Baresi Melo, e Patto, occuparono, diceva, questo castello del Monte; e non già castrum Natii, como vogliono leggere alcuni: anzi ciò smentisce maggiormente il sentimento di quei pochi, i quali hanno opinato, essere stato il nostro Netium quel Natium tra Giovinazzo, e Bitonto. In fatti ad ammettersi per ipotesi questa strana opinione, quale sforzo poteva costare ai Greci, ed ai Saraceni per espugnare questo Nezio; e qual impegno doveva correre ai due Campioni Baresi per non perderlo, essendo questo, a sentimento comune de’ storici, una locanda con piccolo aggregato di casamenti rurali? Come la occupazione di un inerme villaggio poteva formare l’articolo di molte croniche? Né la voce castrum può rapportarsi ad esso; poiché questo villaggio o chiamavasi Castrum, o Natium; mentre non si è supposto mai da chicchessia che questo Natium tra Giovinazzo, e Bitonto sia stato un paese munito di castello, come si può dire di Andria. E né le indagini praticate sull’antico suo piede hanno mai dimostrati rottami di fortezza, o qualche dente di fabbrica marziale. Si sono quivi solo rinvenuti alcuni vestigi di rurali abitazioni, ma in breve perimetro; e né ci fu mai rocca alcuna nelle sue adiacenze.
Noi al contrario siamo obbligati ad intendere per questo = Castrum = una ben munita fortezza, distinta dal paese; dunque chi non vede, che si parla del castello del Monte, il quale in tutt’i tempi è stato sotto il potere di quei dominanti, che hanno governata la città di Andria, detta Netium? Che questo appartenesse al contado di Andria, ne parla anche Muratori ne’ suoi ann. D’Ital. an. 1255. Egli dice, che Manfredi nelle sue incominciate discordie col Papa Alessandro IV. corse col suo esercito a mettersi in possesso della Guardia dei Lombardi, come luogo spettante al suo contado di Andria. Ed al presente non chiamasi anche Castello di Andria?
Ma rimane maggiormente dilucidato questo punto dalla cronaca Cavese, dove leggesi che nell’anno 1029. Rachio Duca Barese, e di Puglia avesse rivendicato dal dominio de’ predetti Greci, e Saraceni il cennato castello del Monte con Bitonto [3]: e son queste le parole. «Raycus Dux Barensis post Dattum præliatus est cum Græcis, qui victi sunt prope Botuntum, et cepit eam cum Castrumonte (vulgo Castello del Monte) quod adhuc existit situm inter Canusium, et Andriam.»
Né deve poi recare maraviglia, o dubbio alcuno la moltiplicità de’ suoi indicativi; poichè sempre è andato compreso sotto varii nomi.
Difatto presso i latini scrittori ora lo troviamo indicato con questo nome Castrum Netii: ora Castrum—monte: ora Alti Montis oppidum: ora Ausum (volendosi indicare l’arditezza della sua impresa): spesso Castromonte, Bellomonte, Castello di Andria. Non nego, che taluni scrittori per la varietà de’ nomi avessero forse credute tante rocche distinte; ma chi conosce la Topografia di questi luoghi, non può non convenire essere stato questo Castello, e non altro, compreso sotto quelle indicazioni. Si avvera maggiormente ciò che ho detto, passando a parlare della sua esistenza ne’ tempi dei Normanni. Nella cronaca di Alessandro Celesino [4], parlandosi delle ribellioni fatte in Puglia da taluni Baroni Normanni contro il Duca Ruggieri figlio di Ruggieri Re di Sicilia «Ex quibus adversus Rugerium fuerunt Grimoaldus Barensium princeps, Gofridus Comes Andrensis, Tancredus de Conversano, aliique complures» quivi si fa spesso menzione di questo Castello. In effetti alla pagina 263. si legge «deinde cum alti Montis oppidum ab eo obsideretur, cioè da Ruggieri, etc. Capto itaque alto monte, Rubeum praefati Tancredi Urbem invasurus properat: qua devicta Alexander Comes, Tancredus, Grimoaldus Barensis Princeps, nec non Gofridus Comes Andrensis tantam ipsius potentiam experti» etc.
Parlando poi di Ruggieri Re di Sicilia venuto in soccorso del figlio Duca di Puglia, usa queste parole «Cum ergo Rex terras Gofridi Andrensis comitis, atque præfati Alexandri suorum perjurorum passim occupasset, videlicet Aquam bellam, Coretum, Barulum, Milerbinum, Gruttulam, aliasque non nullas , etc. Post hæc vero Rex castra movens super arduum, et munitissimum castrum nomine Ausum, quo Gofridus Comes aderat, acceleravit: illudque tamdiu obsidione sævissima circumsedit, quousque comprehensus Gofridus in Siciliam perjurii culpam luiturus destinatur». L’istessa sorte toccò anche al Conte di Conversano; poiché l’intesso conferma l’anonimo Casinese [5] «Rogerius Rex ingressus est Apuliam, et comites Conversanensem, et Andriensem exhæredavit. 1132.»
Ho voluto dire tutto questo per dimostrare esser falso che questo castello ripetesse la sua primordiale esistenza dalla casa Sveva. Forse Federico II. potè profondere i suoi tesori nel corredarlo di marmi. Quello però ch’è certo, l’opera comparisce di una mano e di un disegno; ma di una mano, che teneva tributarie le provincie, e di un disegno gigantesco.
Non so poi quanto potesse valutarsi quel sentimento da me ricavato da un antico manoscritto [6]; cioè che a tempo di Roberto Guiscardo su questo monte esistesse semplicemente una torre Lombarda: che questa dal Duca Roberto sia stata rovesciata; e di quella in vece avesse gittate le fondamenta di questa vasta mole, completata poi da Ruggiero suo figlio. Aggiunge ancora che quel ricco tesoro, scoperto in queste nostre vicinanze, sia stato occupato al detto edifizio. Rapporta egli il fatto così, citando la cronaca del Malaterra; ed il Padre Cavalieri [7], che tra la città di Andria, e di Trani eravi un antico Tempio, del quale sulla vetta poggiava una statua di marmo con ghirlanda di bronzo nella testa. In essa tra alcuni geroglifici si leggevano in greco queste parole: Kalendis maij, oriente sole, caput aureum habebo. Di là passando a caso un Saraceno nell’ 1073. prigioniero del Duca Roberto, e curiosando questa statua sia venuto a capo del segreto, interpretando l’enimma. Quindi segnandosi il luogo, quando sfolgorò il primo giorno di Maggio, presentandosi sotto questo antico tempio, ed osservando dove stendeva l’ombra la testa della statua quivi avesse praticato lo scavo ed avesse trovato un deposito immenso di monete, e di verghe di oro. Ma che la notizia di questa invenzione fosse pervenuta sollecita all’orecchio di Roberto, il quale appropriandosene, siasi disobbligato col Saraceno, dichiarandolo libero. Sulla veracità, e quantità di questo tesoro non intendo dar sentimento: dico solo, che anche senza di esso poteva bellamente Guiscardo intraprendere una impresa così grandiosa. Che poi Ruggiero suo figlio vi avesse data l’ultima mano, si rileva dall’istesso manoscritto testè citato; dove anche si sostiene ch’egli vi avesse applicata una molto pregevole porta di bronzo la quale avesse suo padre condotto seco da Palermo: e che poi questa sia stata trasportata in Napoli, e adattata all'ingresso del Castello nuovo del Re Carlo I. di Angiò.
L’Abate poi D. Placido Troyli [8], il quale ne dà un lunghissimo, ed esatto dettaglio delle parti, che lo compongono, si arresta a semplicemente considerarlo come consueto soggiorno dell’Imperatore Federico II. in occasione della caccia ch’esercitava in quel dintorno. Dopo aver egli narrate le bellezze del casino di Lago-pesile soggiugne «pure fa d’uopo, che egli ceda alla bellezza, alla struttura, ed alla signoria del Casino, ch’è nel Territorio di Andria in Puglia, e che Castello del Monte comunemente si chiama, comechè collocato sopra di un monte, da cui tutta la Puglia viene scoverta: solita Stanza dell’imperadore Federico II. in tempo d’inverno quando colà a cagione della caccia dimenavasi; essendo buono soltanto in tempo di state, quello di Lagopesile. etc. Il Casino predetto, o sia Castello del Monte (quale io vidi nel mese di aprile del 1743.) è designato in modo di fortezza. ed in forma ottangolare, con otto torri grandissime negli otto suoi angoli, ogni torre di sei angoli: colle mura larghe dodici palmi vantaggiati, ma tirati con una maestria nobile, ed uguale, con pietre tutte quadrate, che pajono di getto, non di fabbrica. Nelle Torri vi sono varie balestriere, con ugual simetria disposte. La porta, che riguarda all’oriente, e per cui soltanto si puote alla Rocca avvicinarsi, è di superbissimi marmi mischi lavorata, con due bellissimi Lioni dello stesso marmo, solita impresa della Casa Sveva. Sta il suo Corpo di Guardia al di fuori, e la sua ritirata al di dentro. Il cortile è anche ottangolato, come al di fuori. Al di sotto ritrovansi otto grandissime stanze, giusta l’idea ottangolare, etc.»
Fa poi la descrizione di queste stanze, avente ogn’una quattro grandissime colonne di marmo mischio ai suoi quattro lati, con bellissimi capitelli intagliati, e sodissime basi inquadrate. Parla dei quattro cordoni che si elevano dalle quattro colonne i quali a guisa di archi maestosi s’incrocicchiano poi sotto la volta, e servono di maggiore sostegno.
Passando inoltre a parlare del piano superiore, mostra come si sale dal di dentro di due torri con le scale a chiocciola mirabilmente fabbricate; come s’incontrano del pari otto altre stanze, corrispondenti alle inferiori con la differenza che in ogn’una di queste si contano dodici colonne di marmo bianchissimo a guisa di perfetto alabastro accozzate insieme tre per ciascun lato con un solo piede ed un solo capitello: da cui si eleva l’istesso finimento di cordoni inarcati per rafforzare le volte. Sul lavorio di questi capitelli, in osservandolo un genio esperto di tali opere, si espresse così «sono ammirandi misti di gotico i capitelli delle triplici colonne di marmo egizio, col lavorio di vaghi cartocci in cipollino orientale». Continuando il nostro Troyli la sua descrizione, non omette parlare della bellezza delle finestre, delle porte, le quali sono tutte orlate di finissimi marmi, nonchè delle colonnette di marmo che sostenevano la visiera di esse finestre.
Parla della ringhiera di ferro attaccata ai balconi nella parte del cortile per cui giravasi intorno di esso: come del pari de’ cammini colle basi di porfido essendo ancora di porfido i credenzoni, ossia stipi incavati nel muro a canto ad ogni focolare. Il pavimento era di marmo bianco con alcuni lavori di porfido: le pareti sino all’altezza delle colonne erano vestite di marmo bianco: il dippiù era costrutto alla mosaica. Passando finalmente sullo spianato di esso castello, quivi sono mirabili le quattro cisterne pensili, formate sulla vetta di quattro torri delle otto laterali. Queste raccolgono una metà dell’acqua piovana; poichè l’altra si riversa per alcuni canali nelle cisterne di sotto nel cortile. Al presente due ancora si mantengono intatte, conservandone l’acqua; dalle altre due questa percola, e filtrandosi, ed insinuandosi per le pareti tenta l’ultimo suo deterioramento.
Ho voluto ricapitolare la descrizione del Troyli perchè troppo lunga. Conchiude questo scrittore con tali parole: «Questo adunque è il modello del nobil Castel del Monte, nella di cui idea tutta l’architettura si distrusse: nella di cui fabbrica tesori immensi si profusero, e per renderlo comodo ad un Monarca ogni industria vi fu impiegata».
Al testè riferito vi aggiungo solo, che la pietra di cui è formato è ricavata dai visceri dell’istesso monte; e per essere questa molto docile, e trattabile, n’è avvenuto che le pareti esteriori mal reggendo all’ingiuria del tempo, si veggono in molti punti rose e screpolate: ingiuria che del pari si avverte in quelli cadenti macigni, che formano le rocce del monte. Il punto, dov’esso poggia, è veramente delizioso: basta osservarlo per rimanerne convinto. Dal settentrione principalmente, d’onde s’incontra l’azzurrino aspetto dell’erbose spalle di tanti colli trincierati da selve incantatrici, e da boschi folti, e continuati, l’orizzonte è pittoresco. Dal mezzogiorno poi il monte a gradi si avvalla in una vasta pianura sempre trapunta da rinascenti fiori. Potrò dunque dire francamente essere questo edilizio, e segnatamente nella stagione aprica, il vero soggiorno dell’amenità salutato da ogni parte dal vergine respiro della natura, che quivi largamente riversa le sue innocenti delizie.
Ho detto dalle prime di non trovarsi in esso arme, o iscrizioni alcune; ad eccezione di un basso rilievo sito [9] nell’alto delle pareti del cortile, dove si osserva effigiata una donna in atto sommessivo alla presenza di un Duce seguito da gente bellicosa. Questo geroglifico sfugge la mia interpretazione; come del pari non ho saputo indovinare la significazione di quelle lettere, le quali sono scolpite al di sotto dell’istessa lapida, e sono queste:
D.s I. D. C.a D. B.lo C. L. P. S. HA.
Da Giustiniani si vuole esservi una testa di marmo sull’alto della porta d’ingresso, ammantata da raggi, alludendo a Pietro delle Vigne consigliere di Federico II. Io per altro non l’ho saputo discernere.
Queste sono quelle poche osservazioni, che ho potuto fare su questo sbranato Lione, il quale sebbene estinto, mostra nondimeno la sua antica fortezza, avendo resistito altresì agl’infocati colpi de’ bronzi marziali; poiché si contano sino al numero di dieci superficiali fratture di palle da cannone nel lato che guarda il mezzogiorno, e l’occaso. Ne ho preso qualche pensiero, affinché si conservi almeno in carta l’antica sua pompa: dico in carta; mentre oggi non esistono più quei marmi preziosi, essendo stati involati da mano avida, e villana: ad eccezione delle sole colonne, le quali se anche si strappassero allora se ne vedrebbe l’ultima rovina. Già queste istesse colonne hanno perduto il loro pregio maggiore, consistente in quei cartocci, o cipollini orientali; trovandosi smussati da colpi di sassi lanciati da mano stupida, e contumeliosa: come del pari venne rusticamente ridotta in brani una vasca di marmo, ch’io ricordo aver veduta nel cortile, la quale aveva de’ sedili incavati nell’istesso masso; vasca mirabilmente intagliata per uso de’ bagni.
NOTE    (Nell'originale la numerazione è di pagina e non progressiva dell'intero argomento)
[1] Prat. Lib. 4. Cap. XIII.
[2] Chronic. S. Sophiæ ap. Prat. pag. 368.
[3] Chronic. Cavens. apud Pratilli pag. 432.
Mons. Tortora pag. 144.
[N.d.R.: Tanto scrive il Pratilli in "Chronicon cavense", un falso storico da lui confezionato in latino e pubblicato nel 1753, inserita nel Vol. IV della "Historia principum Langobardorum". Tale notizia è quindi falsa.]
[4] Lib. 2. pag. 275.
[5] Anonymi mon. Casinensis pag. 508.
[6] Di Riccardo Bellapianta.
[7] Cavalieri pag. 288.
[9] Questo basso rilievo sembra non averci che fare col presente edifizio; mentre avrebbe preso altro sito come sul portone interno d’ingresso, e non già in un punto che sfugge la chiara vista di ognuno. Piuttosto apparteneva all’antica rocca, e posteriormente nell’edificarsi questa nuova per non perderla, lo locarono senza impegno in quel punto, dove oggi trovasi.