Studenti Francesco DI TRIA
Michele Angelo TONDOLO
Scopo del nostro lavoro non è quello di raccogliere, facendo opera di mera giustapposizione, i precedenti studi fatti sulla cripta di Santa Croce, quanto il tentativo di offrire una lettura organica e complessiva dei vari aspetti che determinarono, a detta degli studiosi, la "cultura rupestre", che in Andria si materializzò in una serie di cripte e soprattutto in quella di S. Croce.
Abbiamo infatti notato che i precedenti approcci, per quanto validi e scientifici, hanno il limite di una presentazione unilaterale o, comunque, parziale dell’opera: alcuni indugiano sull’aspetto storico (Spagnoletti 1892, Vinaccia 1915), altri su quello artistico-descrittivo (Medea 1939, Molajoli 1939), altri, i più recenti, fondono i precedenti approcci (Nicolamarino-Lambo-Giorgio 1981 e la relazione a cura dell’Assessorato P.I. e Cultura e del Centro culturale distrettuale di Andria 1982) [1]. Nessuno però ha inserito la trattazione nell’alveo più ampio che comprenda, accanto alle componenti storiche e stilistiche, le varianti bibliche, teologiche, patristiche, agiografiche, il contesto religioso e culturale dell’epoca e quello socio-economico-politico.
Molti studiosi si sono interessati, soprattutto dalla fine del XIX sec., di ricostruire la civiltà rupestre in Puglia. Alcuni sottolineano lo stretto legame con la cultura e l’arte di Bisanzio tanto da ritenere la civiltà rupestre un’espressione dell’arte bizantina nell’Italia meridionale. Altri, in particolar modo il Solazaro [3], sostengono l’assoluta indipendenza dell’esperienza artistica dell’Italia meridionale e ritengono sia il frutto di scuole fiorite e sviluppatesi tra il VII e il XIII sec.
Invece lo studioso francese Diehl [4], pur accentuando l’influenza bizantina in Occidente (frutto dell’osmosi tra Oriente e Occidente, favorita inizialmente dai viaggiatori e mercati, ma soprattutto dalle comunità monastiche insediatesi all’interno dei territori soggetti alla dominazione dell’Impero d’Oriente), individua fra l’XI e il XII sec. il manifestarsi di un filone pittorico e architettonico indipendente da influssi orientali. Questo affrancamento si sarebbe prodotto gradualmente e, man mano che acquistava consapevolezza, sarebbe diventato più originale. La sua tesi, però, ha il limite di essere stata sostenuta e illustrata sulla scorta di comparazioni superficiali, sull’esame esterno e dei moduli stilistici.
A questo limite cerca di sottrarsi il Bertaux [5] il quale riafferma l’urgenza di non considerare i fatti artistici avulsi dalla vasta trama dei fatti umani, l’arte in dicotomia con la storia. Egli, però, sostiene la tesi dell’esclusiva prevalenza dell’influsso di Bisanzio nell’evoluzione dell’arte: la civiltà rupestre non sarebbe stata il frutto di scuole locali, ma di artisti che, pur mantenendo una certa autonomia, avrebbero subito da una parte l’influsso romano, dall’altro quello bizantino.
La tesi del Diehl e del Bertaux si impongono negli anni successivi (la Medea, ad esempio, accetta in pieno lo studio del Diehl) e si incomincia a distinguere le cripte o laure "basiliane" , opere dei monaci del primo periodo, dalle cripte "eremitiche", luoghi di rifugio di questi monaci in seguito alle migrazioni dalle province del sud durante le diverse fasi delle persecuzioni iconoclaste o delle invasioni arabe.
Il Prandi nelle sue ricerche del 1961, partendo dall’analisi di alcune cripte basiliane del Salento, evidenzia come queste, anziché essere vere e proprie grotte con la tipica forma di antri o caverne occasionali, ripetono nell’impianto planimetrico o in alcuni particolari architettonici la forma di edifici "sub divo", quasi che siano stati preceduti da monumenti architettonici che, in alcuni casi, non hanno nessun rapporto con i moduli bizantini. Questa constatazione lo induce a cambiare la denominazione delle cripte, che da "eremitiche" diventano "rupestri", perché sono "ambienti plasmati secondo schemi architettonici, sostitutivi delle chiese "sub divo", che la povertà forse non permise di costruire". Il santuario rupestre assume per Prandi una funzione di carattere cultuale all’interno di un nucleo abitato e di un insediamento rupestre [6].
Questa tesi è confermata dagli studi del Guillou sul monachesimo greco nell’Italia meridionale dove lo studioso sostiene che esso è stato un continuo altalenare tra un tipo di anacoretismo e di eremitismo esicasta e un tipo di comunità cenobitica: tutto ciò nella più assoluta libertà. Esso è di derivazione bizantina, però c’è stato uno stretto inserimento del monachesimo nella vita delle popolazioni [7].
Alla luce delle precedenti ipotesi possiamo tentare di ricostruire la presenza dei basiliani in Andria.
Ignoriamo in quale epoca si sia diffuso il monachesimo orientale (soprattutto quello nella forma cenobitica introdotta da Basilio) in Italia meridionale e quali siano stati i propagatori. Certo è che questi basiliani vivevano alcuni nei monasteri, altri nelle capanne come eremiti ed anacoreti. Essi stessi costruivano rozze grotte isolate, formanti le cosiddette laure: in ciascuna di queste cellette viveva ritirato un eremita o un anacoreta, senza avere comunicazione con gli altri. Solamente nella domenica o in feste religiose questi solitari eremiti, appartenenti ad una medesima laura, si riunivano nella cappella o cripta per partecipare all’Eucarestia; tali cripte erano ricche di decorazioni parietali e di affreschi.
In seguito alle persecuzioni iconoclaste a partire dall’VIII sec. e alle invasioni dei saraceni del IX sec., i cenobiti e anacoreti erano costretti ad abbandonare, gli uni, l‘Oriente e, gli altri, la Sicilia per rifugiarsi in spelonche e grotte tufacee della Calabria e della Puglia.
Si delineavano così due correnti principali che risalivano la penisola, muovendo l’una dal promontorio estremo della Calabria, l’altra da quello di Terra d’Otranto. La prima corrente giungeva in Basilicata fino al Vulture; la seconda dal Salento seguiva più vie: da Otranto una ridiscendeva fino a Leuca, l’altra risaliva ad ovest allontanandosi dal mare; da Taranto le cripte si aprivano fino a Matera e, dall’altra parte, raggiungevano Gravina; infine da Brindisi la costa fino a Monopoli si popolava di abitazioni monastiche, mentre oltre la terra di Bari alcuni monaci si spingevano in terra latina fino ad Andria, la punta più a nord interessata dalla civiltà rupestre [8].
Tutta questa zona, data la struttura geologica delle rocce calcaree, era ricca di antri e caverne: i monaci scavavano nel masso tufaceo per ottenere sedili o giacigli.
La presenza di un centro monastico costituiva sempre un elemento di insediamento per la popolazione sia come luogo di sfruttamento rurale, sia come centro di scambi; infatti i monaci, insediandosi in queste zone, applicavano il loro ideale di vita, cioè l’ascesi e il lavoro manuale. Lo stesso monaco calabrese S. Nilo, che aveva riformato la vita monastica meridionale secondo lo spirito di S. Basilio, diceva che "i monaci, per bastare a se stessi, dovevano fare il lavoro dei campi" [9].
Intorno alle comunità monastiche si raggruppavano masse di contadini che dipendevano dal monastero e avevano nell’igumeno il loro capo religioso e civile.
Dall’insediamento della popolazione contadina intorno ai monaci derivava la necessità di luoghi di culto che non potevano essere se non le grotte ; esse venivano abbellite da decorazioni e affreschi, in cui "il Cristo e i santi avevano le stesse sembianze di quei contadini" [10] che le frequentavano.
In relazione a quanto accennato, si possono evidenziare tutt’oggi nel territorio di Andria tracce significative di un ampio centro i cui luoghi sacri sono individuabili in alcune cripte, situate a ponente dell’abitato e collegate tra di loro da un sistema di grotte sparse sul percorso che un tempo le univa.
Le cripte sono: la Madonna dell’Altomare, la Madonna dei Miracoli, Gesù Misericordia, S. Vito, S. Angelo in Gurgo, nonché la cripta di S. Croce che, per le caratteristiche architettoniche e l’impianto decorativo, s’impone sulle altre in quanto a importanza storica e artistica.
L’attuale chiesa sorge sulla volta della cripta.
L’immagine della Vergine - che per lo storico Merra trattasi della riproduzione di una santa, forse S. Sofia [11] - è di stile greco e dipinta su un muro tufaceo: la Vergine regge nella mano destra un libro e una croce e nella sinistra una rosa. L’icona ha una policromia vivace in cui predomina il colore porpora e ocra bruno.
Per l’accrescersi della popolazione fu necessaria la costruzione del santuario ipogeico e, probabilmente, fu questa la causa che determinò lo spostamento dell’affresco, il quale subì restauri e rimaneggiamenti. Si trova attualmente non più al posto di origine, cioè sul muro tufaceo laterale, ma al centro, sull’altare maggiore.
Sulle pareti laterali ci sono tracce di altri dipinti: su quella laterale sinistra (per chi entra), nella terza nicchia, sono raffigurati un vescovo, una crocifissione - simile a quella presente all’ingresso della cripta di S. Croce - e un eremita.
Nella valle detta di S. Margherita, irrigata in tempi remoti da un torrentello denominato "Lama"(che significa letto di fiumi), nella balza che guarda a Occidente vi era una grotta scavata nel tufo, con due sedili intorno a un piccolo altare su cui si vedeva dipinta l’immagine della martire Margherita, con i miracoli della santa intorno. Altre pitture ornavano la grotta, ma sono state cancellate dal tempo; si distingue solamente l’affresco di S. Nicola [12].
A destra dell’altare un arco immetteva in un’altra grotta, che aveva a sua volta un altare scavato nel tufo e, dietro, una tribuna su cui era effigiata la Vergine Maria alla maniera greca. La Beata Vergine è rappresentata con un fare maestoso sopra un trono, con un velo che le discende dal capo sulle spalle, con vesta rossa a piccole pieghe e con vistosa ricchezza, così come si addice ad un sovrana orientale. Culla in grembo il bambino che tiene seduto sulle ginocchia; a destra è dipinto il sole, a sinistra la luna e le stelle che fanno corona al suo capo. [13]
Circa la data del dipinto non si può stabilire nulla di preciso.
Attualmente l’interno si riduce ad un unico vano rettangolare con l’abside e una nicchia a destra. Nell’abside si trova l’affresco raffigurante la crocifissione del Cristo, di tardo stile medievale; non si esclude che abbia subito ritocchi posteriori. La chiesa prende il nome dall’espressione del volto del Cristo che doveva ispirare la pietà dei cittadini.
Sull’arco della nicchia di destra ci sono tracce di una Madonna con bambino.
La cripta di S. Croce è ubicata nella zona detta dei "Lagnoni", la cui denominazione deriva dalla remota presenza di un " letto artificiale" per il deflusso delle acque piovane provenienti dalle prime propaggini della Murgia. [14]
L’area, in cui insiste la cripta, è caratterizzata dalla presenza di rilevanti banchi tufacei con cavità naturali; in origine doveva essere ricca di numerose grotte, così da favorire un insediamento basiliano, il cui fulcro doveva essere - per l’appunto - S. Croce, ricavata in un masso tufaceo di circa 100 m. di perimetro.
L’attività di escavazione realizzata nel tempo al contorno della cripta fa sì che, allo stato attuale, l’immagine d’insieme che se ne ricava risulti impropria: oggi la cripta è una struttura al centro di un fossato circondato, per due lati, da una strada e, per i rimanenti due, dalle pareti della collinetta tagliata, sulla quale si è edificato. L’esame della configurazione planimetrica del complesso monumentale evidenzia come il primitivo impianto abbia subito nel tempo diverse trasformazioni - non solo di natura artistica e architettonica, ma anche funzionale - che ne hanno sostanzialmente variato l’assetto.
L’assenza di precise e certe fonti documentarie non agevola una sicura individuazione temporale delle diverse fasi costruttive, determinando la necessità di intervenire per analisi comparative e, comunque, operando una distinzione sulla scorta della semplice osservazione delle caratteristiche dell’opera.
La pianta originaria ha una forma basilicale con un aspetto irregolarmente trapezoidale, ripartita in tre piccole navate separate da quattro pilastri naturali di forma non geometricamente perfetta e congiunti tra loro da archi irregolari e sui quali grava il peso della volta piana, scavata nel masso.
Inizialmente tutte le navate dovevano concludersi con piccole absidi semicircolari: restano allo stato attuale soltanto quelle laterali perché la centrale è stata distrutta nel corso dell’opera di ampliamento dell’ipogeo. E sempre a tal proposito, rispetto al primitivo assetto, si vedono le due colonne circolari in blocchi di tufo intonacati, con capitello a base quadrata e posizionate a ridosso di due pilastri per sopportare il peso del campanile, edificato sul tetto all’epoca dell’ultimo intervento snaturante sull’opera (1888).
Il nucleo originario non dovrebbe essere posteriore al X secolo, conclusione alla quale si giunge da deduzioni derivanti dallo studio del fenomeno del monachesimo basiliano in Puglia e nell’Alto Medioevo. Le attrezzature usate per lo scavo dovevano essere di piccole dimensioni e in legno o pietra: ciò è rilevabile "dalle pareti, la cui superficie è lievemente scabra, uniforme e non presenta direzioni preferenziali nel taglio" [15]. [Tavola I]
In seguito all’accresciuta frequentazione della cripta da parte dei fedeli si rese necessario un ampliamento e abbellimento dell’ambiente originario; si ricavarono nuovi spazi che adeguarono la cripta alle nuove esigenze di culto: la cripta di S. Croce così assunse i connotati di "santuario rupestre".
A questo periodo, intorno al XIII secolo, bisogna far risalire l’aggiunta dei due avancorpi e l’affrescatura delle pareti interne dell’edificio, dove è possibile riscontrare solo in parte gli influssi di matrice bizantina, dato che predominanti sono i caratteri della cultura locale (è possibile che anche all’epoca degli insediamenti monacali basiliani S. Croce fosse affrescata, ma ciò non è dato saperlo con certezza, sebbene in alcuni affreschi sia stato possibile rilevare una sovrapposizione di strati di intonaco pitturati).
Per quanto riguarda i due avancorpi va non solo notato che essi sono il risultato dell’ampliamento successivo dell’edificio, ma anche che quello di destra è posteriore a quello di sinistra [Tavole II-III]. Ciò è comprovabile dal taglio verticale della facciata d’ingresso, dalla realizzazione del blocco degli avancorpi in muratura con copertura a volta a botte - per l’avancorpo di sinistra la volta a botte è di conci in tufo, per quello di destra di conci in pietra ben disposti - e dal fatto che la finestra presente in facciata originariamente fosse un ingresso. L’avancorpo di sinistra, posto in corrispondenza e prolungamento della navata di sinistra, in origine doveva fungere da ingresso; poi, quando fu realizzato l’attuale vestibolo in asse con la navata centrale, fu adibito a sagrestia.
Un ulteriore stadio evolutivo della cripta è individuabile nell’ampliamento in larghezza e profondità dell’abside corrispondente alla navata centrale, che, dall’iniziale conformazione a pianta semicircolare, subisce un allungamento a pianta rettangolare e l’allargamento dell’arco di accesso alla zona absidale con parziale distruzione degli affreschi ivi realizzati.
I blocchi di tufo ricavati dall’escavazione dell’abside servirono per edificare il campanile - demolito in seguito, nel 1893 - sulla copertura del nucleo originario (sulla parete laterale sinistra sono evidenti i segni di un accesso, ora chiuso con blocchi di tufo, costruito per raggiungere dall’interno il campanile) per il cui peso fu necessario realizzare le colonne circolari di sostegno, di cui si è parlato in precedenza.
Nel nuovo abside, così ricavato, fu realizzato un altare e infine si aprirono, nella massa tufacea, finestre corredate da infissi e situate nelle pareti laterali della cripta [Tavola IV].
Quest’ultimo intervento, che ha stravolto le caratteristiche peculiari dell’opera, è avvenuto nel 1888 per l’iniziativa del tutto personale dell’allora cappellano, del quale il tempo ha generosamente nascosto il nome [16].
"Da quanto sin qui affermato, è scaturito, abbastanza evidentemente, come nel corso dei secoli, la cultura predominante dei vari periodi abbia cercato di sovrapporre la propria traccia a quella delle epoche precedenti. E se un’operazione di questo genere è possibile ammetterla quando l’impronta che si vuole lasciare armonizza con quello che già esiste, diventa improponibile quando tenta di sovrapporsi o peggio di snaturarle il patrimonio acquisito, così come è avvenuto per gli ultimi interventi in ordine cronologico" [17].
Accanto al valore sotto il profilo architettonico, la cripta di S. Croce assume notevole importanza per il programma iconografico che ivi si trova.
Gli affreschi hanno un carattere essenzialmente devozionale e quindi legati alla cultura religiosa e alla pietà popolare [18]; infatti i programmi decorativi e i modelli iconografici, dovendo soddisfare il bisogno religioso dell’uomo dell’epoca, si adeguano alle capacità di lettura dei fruitori.
Tuttavia, anche se eseguiti in uno stile "popolare", gli affreschi denotano committenti (clero locale, forse francescani e la famiglia dei Del Balzo, duchi di Andria) con un ricco bagaglio culturale e biblico, oltre che aggiornati sulle idee teologiche del tempo, ed esecutori informati della coeva produzione [19].
Inoltre - come ha notato il Fonseca [20] - S. Croce rappresenta un esempio di filone pittorico in cui i motivi puramente bizantini cedono il posto a forme propriamente occidentali che risentono della cultura nordica intervenuta con la presenza normanna e, ancor più, della cultura pittorica affermatasi nella vicina corte angioina di Napoli [21].
Anche se eseguiti in epoche e da mani diverse non è del tutto improbabile che gli affreschi facciano parte, nell’impostazione generale, di un unico programma decorativo (come è facilmente rilevabile dalla doppia incorniciatura, realizzata in rosso e ocra, che definisce gli spazi di ogni singola scena o immagine).
Notevoli sono invece le difficoltà che si incontrano nel tentativo di datare gli affreschi sia perché non abbiamo elementi precisi per risalire ai committenti o agli artisti locali che eseguirono le opere, sia perché i soggetti raffigurati sono riferibili con molta approssimazione ad una determinata età. La critica ha proposto una datazione che racchiude tutti gli affreschi, in superficie, in un arco di tempo che va dal XIV al XVI sec. (senza tenere in considerazione quelli presenti negli strati di intonaco soggiacenti che risalgono ad epoche precedenti; in alcune parti si notano fino a tre strati di intonaco sovrapposti, ciascuno affrescato).
La tecnica pittorica adoperata, detta "a calce", era di fattura rapida e dimessa: sopra ad un intonaco di rivestimento della parete, fatto generalmente di un solo strato di impasto grossolano di calce e pozzolana o di calce e sabbia, si davano con un pennello due o più passate di calce bianca, sopra la quale, ancora umida, il pittore tracciava rapidamente con una punta metallica il disegno, distendendo poi i colori macinati e diluiti nell’acqua, che compenetrati nelle sostanze calcaree, asciugando rimanevano da queste fissati senza nulla perdere della loro bellezza e intensità. Naturalmente il contatto dei colori con la calce ne restringeva il numero di quelli adottabili alla terra rossa e gialla, al nero e all’usta, che era un genere di rosso simile alla terra di Siena bruciata; queste terre naturali venivano completate da colori più ricchi, dati a colla.
Per una siffatta tecnica pittorica il maggior fattore di deterioramento è senza dubbio l’umidità dovuta sia per risalita dal terreno per imbibizione, sia a causa di infiltrazioni di acqua piovana penetrante dal tetto privo di adeguata copertura, sia per la natura stessa della roccia calcarea che, essendo porosa, trattiene una notevole quantità di acqua e di sali in essa disciolti. Dall’umidità deriva principalmente il rigonfiarsi e il cadere dell’intonaco, lo sfaldarsi e l’arricciarsi della lamella superficiale del dipinto e il crearsi e il propagarsi di infezioni batteriche e saltrinose con la conseguente polverizzazione dell’intonaco e del colore e la formazione di veli bianchi e di incrostazioni calcaree.
Al tempo della nostra ricerca la cripta è chiusa e sotto la tutela della Soprintendenza per i beni AA. AA. AA. SS. della Puglia che, dopo un primo intervento di impermeabilizzazione della copertura e di restauro conservativo consistente nel consolidamento della pellicola pittorica operato nel 1981, sta provvedendo al completamento del restauro con il recupero integrale degli affreschi.
Per il suddetto motivo non ci è stato possibile accedere alla cripta per sincerarci dello stato attuale dei dipinti; in compenso ci siamo avvalsi della preziosa testimonianza di fotografie e diapositive scattate da "uomini degni del loro passato" in due momenti diversi (1968 e 1979) [n.d.r.: si fa sotteso riferimento alle numerose foto e diapositive scattate nel 1968 dall'insegnante Sabino Di Tommaso con Don Sabino Matera ed il prof. Dino Di Leo, e nel 1979 con la sua scolaresca, in parte inserite nelle pagine di questo studio], dal cui confronto appare evidente quanto gli agenti atmosferici, da un lato, la lentezza e incompetenza delle amministrazioni e l’incuria e ignoranza di alcuni cittadini andriesi, dall’altro, abbiano causato su un bene di inestimabile valore.
Nel nostro studio ci interesseremo di sviluppare due tematiche che emergono chiaramente dal programma iconografico della cripta, analizzando solamente alcuni affreschi:
Infine fermeremo la nostra attenzione sull’affresco di Urbano V la cui presenza nella cripta ha una notevole importanza storica, artistica e religiosa [22].
[Atrio d’ingresso, nicchia a sinistra]
Su di uno sfondo verde scuro è affrescato un Cristo crocifisso tra la Vergine, sorretta da due pie donne, a sinistra, e S. Giovanni evangelista, a destra.
Ai piedi della croce attualmente restano tracce di una mano e di un abito; grazie all’ausilio di fotografie scattate nel 1968 si può affermare con certezza che ai piedi della croce vi era una donna che, secondo l’uso iconografico medievale, è identificabile con Maria Maddalena.
La Vergine, avvolta in una veste scura, si abbandona alle braccia che la sorreggono, china il capo su di una spalla ed ha gli occhi chiusi; le pie donne piegano verso di lei i volti, dal fisso sguardo intento. I nimbi si toccano, sovrapponendosi in alcuni punti.
Dall’altro lato S. Giovanni alza la mano in cenno di accorato stupore, si tiene il volto con l’altra e fissa il Cristo.
Al centro il Crocifisso, di dimensioni maggiori in confronto alle altre figure, domina la scena: ha il capo nimbato e reclinato, il volto scarno e gli occhi chiusi. Tutto il corpo è coperto da ferite e dal costato escono copiosi fiotti di sangue; inoltre un perizoma diafano cinge la sua vita.
Lo spazio si presenta affollato e la cornice è interrotta in più punti dalla figura di una delle pie donne, dalla croce e dalla veste della Maddalena.
L’affresco risale presumibilmente al primo trecento (lo testimonia il perizoma diafano, il cui uso inizia tra la fine del ‘200 ed i primi del ‘300, e, soprattutto, la raffigurazione del "Christus patiens", dovuta all’influenza francescana, che è tipica del 1300).
L’accentuazione del tema della croce nella nostra cripta, così come nell’arte di tutto il XIV e XV sec., è la risultante di una nuova sensibilità umana e religiosa: lo sviluppo di certa spiritualità e l’accentuazione di alcune verità teologiche ha sempre una matrice antropologica, una determinata visione della vita.
Infatti le tremende prove che ha subito l’Italia e tutto l’Occidente con la crisi del papato, il conseguente trasferimento della sede papale ad Avignone e il cosiddetto scisma d’Occidente, la "peste nera" del 1348, oltre che le condizioni poco felici del regno di Napoli lacerato dalla ventennale guerra del Vespro, dalle guerre di successione tra i vari casati degli angioini e, successivamente, tra angioini e aragonesi, dalla riottosità dei baroni prepotenti che tentano di sottrarsi all’autorità del re, da plebi cittadine misere e turbolenti e, nelle campagne, da masse rurali lacere e affamate per la presenza di latifondi poco redditizi e per il gran peso delle imposte [23], tutti questi fattori incutono un carattere tragico alla vita, che è intesa essenzialmente come un cammino in preparazione alla morte.
L’angoscia del peccato e dell’azione costante del demonio nel mondo, l’ossessione della morte e l’idea che possa arrivare inaspettatamente, la paura del giudizio e dell’inferno porta il credente a cercare la salvezza solo nel Cristo redentore, a fissare lo sguardo sul Cristo crocifisso non più rappresentato sereno, nobile, glorioso ("triumphans"), ma come uomo sofferente ("patiens").
Si sottolinea il ruolo salvifico della croce come arma per la lotta contro il demonio e, al contempo, si rafforza la convinzione che la sofferenza umana è segno di amicizia divina, permette l’imitazione di Cristo e libera dall’inferno.
In questo ambito vi è l’influsso decisivo dei francescani, i quali accentuano gli aspetti dell’umanità di Cristo e, in particolar modo, i momenti della natività e della passione (quest’ultima riprodottasi in maniera esemplare in S. Francesco, il primo stimmatizzato della storia e considerato già dai suoi contemporanei "alter Christus").
In Andria vi sono testimonianze storiche della presenza dei minori conventuali i quali iniziano la costruzione del chiostro e della chiesa di S. Francesco nel 1230 per ultimarla nel 1346 e, successivamente, i minori osservanti iniziano la costruzione di S. Maria Vetere, come ci testimonia la bolla di Eugenio IV del 1438 [24].
Il bisogno del concreto, del visibile, insito nelle masse popolari, origina le devozioni alla "via crucis" e ai "dolori di Maria" e la valorizzazione delle reliquie della Vera Croce, del Sacro Sangue, dei Sudari e della Sacra Spina (Andria possiede una spina, dono nuziale di Carlo II a sua figlia Beatrice andata in moglie a Bertrando, signore della città).
Maria è strettamente associata alla passione del Figlio: i suoi sentimenti sono descritti nelle composizioni a carattere popolare, le laudi, nelle quali Gesù appare più come "figlio dell’uomo" che come "Figlio di Dio" e Maria cessa di essere la "Theotokos" per assumere i connotati della "donna del popolo" [25].
L’iconografia, inoltre, si arricchisce di nuove immagini e personaggi della passione: fa la sua apparizione la Veronica, della quale si racconta che abbia asciugato il volto di Gesù con il suo velo su cui si è così impressa la Sua santa faccia, ma anche Maria Maddalena ai piedi della croce che, da modello delle convertite, invita i peccatori a lavare le loro colpe nella vera fonte, cioè Cristo, dal cui costato sgorga grazia copiosissima [26].
[Navata destra, parte destra]
Quattro scene, delineate da riquadri, si dispongono su due registri.
Ogni scena ha un fondo verde scuro ed è incorniciata da fasce ocra, bianche e rosse; abbastanza bene si conservano i due riquadri superiori.
In quello di sinistra è illustrata una donna a cavallo, seguita da uomini d’arme, che incontra degli anziani usciti dalla città. La donna, nimbata, ha lunghi capelli biondi e sul capo una preziosa corona, indossa una veste e un mantello rosso e con la mano destra saluta gli anziani, con la sinistra tiene strette le redini del cavallo.
Nel riquadro di destra la stessa donna, seduta in trono, ha l’indice della mano destra in alto e lo sguardo rivolto verso la figura in basso che, aiutato da due uomini, emerge da una cisterna scavata nella roccia; tra i due uomini e all’estrema sinistra vi sono altre figure che assistono alla scena.
Assai più rovinati, sebbene ancora parzialmente visibili, sono le scene del registro inferiore.
La scena di sinistra è affollata: al centro vi è una grande croce fissata a terra, sullo sfondo si può distinguere un’altra croce spezzata; a destra la regina, seguita da altri uomini e soldati, alza lo sguardo e il braccio destro verso la croce; a sinistra vi è un ammalato seduto su di una lettiga, due giovani portatori e un seguito di uomini che battono le mani.
Nella scena di destra, molto rovinata, si scorge una parte della croce e, all’estrema sinistra, tre altre figure.
Le quattro scene narrano l’invenzione della croce da parte di S. Elena:
- nella prima scena S. Elena a cavallo, seguita da uomini d’arme, giunge alle porte di Gerusalemme ed incontra i sapienti usciti a consigliarla;
- nella seconda scena la Santa assiste alla confessione di Giuda;
- nella terza scena vi è il ritrovamento miracoloso delle tre croci e l’identificazione della croce di Cristo;
- nella quarta scena, secondo la Medea, l’imperatore e la santa adorano la croce (?).
Gli episodi, illustrati con mano vivacemente narrativa, hanno, per la Medea, un’esecuzione non dissimile per modellato dal volto di S. Dorotea, un affresco presente nel semipilastro di destra dell’arco d’ingresso della cripta e datato al XV sec. [27]
È sorprendente notare come qui l’artista abbia voluto rappresentare alcuni episodi della vita di S. Elena attingendoli direttamente dalla "Legenda Aurea" o "Legenda Sanctorum" di Jacopo da Varagine, composta tra il 1253 e il 1270.
Fu "il testo agiografico" del Medioevo e perciò ebbe subito una diffusione immensa: costituì il breviario dei laici di media cultura e la fonte della predicazione e dell’arte agiografica dal XIII al XV sec.
Presentiamo il testo che riguarda l’invenzione della croce:
"Quando Elena fu giunta a Gerusalemme fece radunare tutti i
rabbini ebrei che si trovavano nella regione. [...]
Gli ebrei convocati, tutti pieni di
timore, dicevano l’un con l’altro:
- Qual credi che sia stato il motivo per cui la regina ci ha convocati?
Uno di essi, di nome Giuda, disse:
- Io so che vuol sapere da noi dove si trova la croce cui fu appeso Gesù Cristo.
State attenti acciocché non riesca a saperlo.[...] Il mio nonno Zaccheo a mio
padre Simone, e questi morente riferì a me:
- Figlio mio, sta attento a non rivelar mai, per quanti tormenti ti vengano
inflitti, dove si trova la croce di Gesù Cristo, giacché dal quel momento in poi
terminerà il potere delle nazione giudaica e comincerà quello dei cristiani,
perché Gesù Cristo era Figlio di Dio.
Ed io risposi:
- Padre mio, perché se i nostri padri hanno conosciuto che Gesù era Figlio di
Dio lo hanno crocifisso
Ed egli mi rispose:
- Il Signore lo sa, giacché non fu mai da Dio il loro consiglio. I farisei
uccisero Gesù perché riprendeva i loro vizi. Il terzo giorno Egli risuscitò, poi
salì al cielo alla presenza dei suoi discepoli.[...]
Gli ebrei dunque risposero a Giuda:
- Noi non crediamo che la regina ci abbia convocati per tale affare, ma se ti
venisse fatta questa domanda sta attento a non dir quello che sai.
Quando furono in presenza della
regina, e questa ebbe fatta la domanda dove era stato crocifisso Gesù, essi non
vollero in alcun modo rispondere, e la regina comandò che fossero bruciati
tutti.
Spaventati allora essi indicarono
Giuda e dissero:
- Costui è un sapiente e figlio di profeta. Lui ti saprà dare notizia di quello
che chiedi.
Allora Elena congedò tutti e
trattenne solo Giuda, e gli disse:
- Ti lascio la scelta fra la morte e la vita; fammi conoscere il luogo dove il
Signore fu crocifisso, acciocché mi sia possibile ritrovarne la croce.
Giuda rispose:
- Come vuoi che io ne sappia qualche cosa se in quel tempo non ero ancora nato?
Elena replicò:
- Nel nome di Gesù Cristo ti assicuro che ti farò morire di fame se non mi dirai
la verità.
Lo fece perciò mettere in un pozzo
senza acqua e lo lasciò in preda alle angosce della fame.
Passarono così sei giorni senza che
gli fosse dato il benché minimo cibo; al settimo chiese di essere liberato
promettendo che avrebbe detto tutto; fu perciò cavato fuori e condotto sul luogo
che egli stesso indicò.
Dopo che ebbe alquanto pregato, la
terra tremò ed un silenzioso profumo si sparse per l’aria tanto che Giuda,
meravigliato, incominciò a battere le mani ed a gridare
- In verità, Gesù Cristo, tu sei il Salvatore del mondo.
C’era in quei pressi un tempio di
Venere che Adriano vi aveva fatto edificare acciocché se qualche cristiano
venisse a pregare sembrasse adorar Venere; per questo il luogo non era stato più
frequentato e dopo parecchio tempo era stato completamente dimenticato.
L’imperatrice fece distruggere quel tempio fino dalle fondamenta.
Dopo ciò Giuda si mise a scavare e
dopo aver scavato per una profondità di circa venti piedi, trovò tre croci che
estrasse e portò subito dalla regina. Ma non era possibile distinguere la croce
di Gesù da quella dei due ladri, perciò le tre croci furono poste in mezzo alla
città, ed ecco che verso l’ora di nona passa un corteo funebre che portava alla
sepoltura un morto. Giuda allora fece fermare il corteo e deporre il feretro, ed
avvicinò al cadavere prima una poi un’altra delle tre croci senza per altro che
il cadavere facesse una mossa, ma quando gli fu avvicinata la terza croce il
cadavere improvvisamente risuscitò.[...]
Il demonio frattanto gridava:
- Giuda che hai fatto? Giuda, quanto male mi hai fatto! Un altro Giuda, seguendo
il mio consiglio aveva compiuto l’opera di perdizione, e tu, tu mi rinneghi ed
hai fatto ritrovare la croce di Gesù Cristo! L’altro ad un tratto mi aveva fatto
guadagnare tante anime e tu ad un tratto mi hai fatto perdere tutto! Grazie a
lui io regnavo sul popolo, e tu hai distrutto il mio regno
[28].
Ma io prenderò su di
te acerba vendetta e susciterò contro di te un re che rinnegando la fede la farà
rinnegare anche a te in mezzo ai tormenti.[...]
Giuda al sentire il demonio così
urlare non si scompose ma lo maledisse dicendo:
- Che Gesù Cristo ti condanni al fuoco eterno.
Poi Giuda fu battezzato e ricevette
il nome di Ciriaco; più tardi, morto il vescovo di Gerusalemme gli fu dato per
successore"
[29].
[Arco absidale]
Su di una fascia orizzontale, entro quattro cornici romboidali, sono dipinti i quattro evangelisti, rappresentati da mezze figure umane con la testa bestiale o angelica, secondo la consueta simbologia giovannea (Cf. Ap. 4,6-7). Al centro, in una cornice mistilinea, è la figura a mezzo busto del Cristo.
Gli spazi tra le cornici sono occupati da una decorazione realizzata a tralcio vegetale, quelli ai lati dell’arco presentano un decoro a finto marmo.
Per il Salmi l’immagine del Cristo è dal punto di vista iconografico in stretta connessione con il Redentore dell’icona processionale presente nella chiesa di S. Giacomo di Barletta [30] e datata dalla critica alla seconda metà del XIV sec.
Il confronto, riproposto dal D’Elia [31], è stato esteso dalla Lorusso-Romito a comprendere anche la figura di Cristo in trono tra i Ss. Pietro e Paolo (nell’abside di sinistra) e il ritratto di Urbano V (secondo pilastro a destra, parte superiore) della cripta andriese. Ma sicuramente più stringenti si fanno le analogie di segno e modellato fra la tavola barlettana del Redentore e quello del Cristo fra gli evangelisti [32].
[Intradosso dell’archivolto absidale]
Su di uno sfondo azzurro chiaro, cosparso di stelle rosse, entro un clipeo è la raffigurazione dell’Agnello con nimbo crucifero e avente in mano la croce.
Nel Medioevo l’iconografia dell’Agnello si ispira principalmente alle visioni dell’Apocalisse:
"Vidi l’Agnello, che stava in piedi, come ucciso" (Ap. 5,6). L’Agnello in piedi è, secondo un simbolismo che ricorre altrove nell’Apocalisse, il Cristo risorto; ma è un agnello che porta i segni evidenti del suo sacrificio redentore.
E’ l’Agnello che troneggia nel cielo (Cf. Ap. 7,17; 21,1.3), è il luminare della Gerusalemme celeste (Cf. Ap.21,23) e i santi, salvati dal suo sangue (Cf. Ap.7,14; 21,9), partecipano al banchetto delle nozze (Cf. Ap.19,7-9; 21,9) [ai lati della nicchia dell’abside destro sono rappresentati due santi, uno dei quali, quello di destra, pare essere un vescovo].
[Parete di fondo dell’abside]
Su di uno sfondo campito da partiture orizzontali - quella superiore celeste pallido, l’inferiore ocra - è decorata un’altra scena di crocifissione.
Come nella precedente, a sinistra della croce vi è la Vergine, sostenuta dalle pie donne che inclinano il capo verso di lei. Al centro il Cristo, molto simile per atteggiamento e tipo iconografico a quello già descritto. Invece al lato destro della croce S. Giovanni, frontalmente, si lacera, aprendole sul petto, le vesti in un’attitudine violenta e concitata. Quest’ultima figura, per rapporto proporzionale e per ampiezza e teatralità del gesto, viene ad assumere una posizione privilegiata nell’intera rappresentazione.
Rispetto alla precedente, questa scena della crocifissione ha un carattere di maggiore drammaticità, espressa però in forme più volgari e di fattura apparentemente più tarda.
Gli affreschi della zona absidale, datati al XV-XVI sec. dal Molajoli [33], presentano nel loro insieme, come già sottolineato dalla Medea [34], caratteri di omogeneità tali da far pensare ad un’ identità di mano.
Infatti, osservando la successione degli affreschi (crocifissione, Agnello mistico, quattro evangelisti con Cristo nel mezzo), si può individuare il significato che l’artista ha voluto trasmettere: essere discepoli di Cristo, professare la fede in Lui, implica sofferenze, persecuzioni, partecipazione al suo dolore [35].
Ma partecipare al destino di Cristo significa anche partecipare alla sua resurrezione perché in Cristo, Agnello immolato per la salvezza degli uomini, la morte è stata vinta definitivamente. Egli è il "Vivente" (Ap.1,18), "l’Alfa e l’Omega" (Ap.1,8), colui che solo può "prendere il libro e aprirne i sigilli" (Ap. 5, 9), cioè rivelare il progetto di Dio che raggiunge ogni uomo grazie ai suoi testimoni [nell’affresco vi sono gli evangelisti].
[Affreschi dell’intradosso dell’arco tra la navata centrale e la navata di sinistra]
Qui troviamo gli affreschi più importanti: le scene della creazione e del peccato sono di fronte seguendo la curva dell’arco; alle loro basi, la creazione è limitata attraverso una fascia bianca da un affresco frammentario raffigurante un santo, il peccato originale è diviso da un altro dipinto - di cui è ora visibile solo un volto nimbato e un vessillo - mediante una fascia riccamente decorata a figurazioni geometriche, composta da esagoni e mezzi esagoni di tono scuro su uno sfondo bianco.
Su un ricco trono cuspidato e tutto coperto di decorazione gialle a losanghe, siede una figura umana sul cui collo sono presenti tre teste: al centro quella canuta a barba fluente - guasta in più punti - di Dio Padre; a sinistra quella bruna a barba breve del Cristo; a destra quella del Paraclito sotto forma di colomba, di cui in origine doveva essere visibile qualcosa più della sola testa.
Mentre i capi dell’Eterno e del Cristo sono compresi da un unico ampio nimbo dal bordo scuro, decorato a punti bianchi, il Paraclito ha un nimbo piccolo dello stesso tipo per sé. Il capo della colomba è di profilo mentre gli altri due sono raffigurati frontalmente e appena volti verso sinistra.
La sacra immagine veste un manto bianco decorato da un bordo giallo scuro a disegni geometrici e lievemente ombreggiato; la stessa decorazione è riproposta nelle maniche.
La figura sorregge con la sinistra il simbolico globo, mentre tende la destra alla bionda Eva che sorge ignuda dal fianco di Adamo addormentato, steso al suolo in una tormentata posa, poiché si sostiene, come puntellato, su un braccio curvo ad angolo ed appoggiato al gradino del trono e alza l’altro a posarlo sul capo reclino dagli occhi chiusi [36].
Il presente dipinto e l’affresco successivo del peccato originale hanno una caratteristica comune: la duplice campitura, di cui quella inferiore di colore ocra e quella superiore di celeste molto pallido. Quest’ultimo particolare, accanto alle affinità dei lineamenti dei soggetti raffigurati, ci fa ipotizzare un’identità di mano.
La raffigurazione della Trinità con un unico corpo e tre teste si va diffondendo dal XII al XVI sec., man mano che l’accostamento delle tre Sacre Persone si va facendo maggiore, così che nel XII sec., secondo il Didrou, non vi sono più tre corpi, ma uno solo porta tre teste .Questa raffigurazione fu proibita inizialmente da Urbano VIII (11 agosto 1628) e successivamente da Benedetto XIV nel (1745).
Le tre teste, più o meno differenziate e a volte addirittura saldate fra loro, sono generalmente tutte e tre umane per sottolineare l’idea di unità ( un solo corpo) e salvaguardare il concetto di differenziazione ( le tre teste); invece la raffigurazione di Andria, presentando una colomba al posto della terza testa, appare come un tipo particolare dello schema comune [37].
Lo schema iconografico qui presene richiama le rappresentazioni che si diffusero in Occidente tra il XII sec. e il XVI sec. e, in particolar modo, le miniature dei codici napoletani del XIV sec., delle quali l’affresco della nostra cripta rappresenterebbe, per il Bologna, un "transfert" [38].
L’affresco presenta Adamo ed Eva ritti e nudi ai lati dell’albero; entrambi con una mano si coprono i genitali, con l’altra sembrano portare il frutto - non visibile - alla bocca.
La figura di Adamo, mal equilibrato sui grossi piedi, è ancora chiaramente distinguibile, mentre quella di Eva è in più punti danneggiata per la caduta dell’intonaco.
L’albero - di cui non ci è dato distinguere la qualità perché la parte alta della rappresentazione è assai danneggiata - ha un serpente avviticchiato al tronco e presenta sullo sfondo lievi ondulazioni del terreno, coperto da un vegetazione schematica a foglie trilobate.
Nell’insieme si nota una simmetria dei corpi di Adamo ed Eva, quasi sbilanciati all’esterno come per fare spazio all’albero, che occupa una posizione centrale.
Dell’affresco, posto alla base del peccato originale, sono ancora visibili un volto e parte di un vessillo.
Il soggetto è identificabile con il Cristo risorto per la presenza del vessillo bianco con una croce rossa, simbolo della resurrezione, per i tratti della passione dati dall’espressione dolorante del volto e per il nimbo perlinato crucifero.
I tre affreschi sembrano essere della stessa mano per la comunanza dei colori e, soprattutto, per il modellato dei soggetti raffigurati.
A riguardo della datazione diverse sono le posizioni: il Van Marle propone il XII sec. [39], il Molajoli il XV sec. [40]; invece per noi gli affreschi si collocano intorno al XIV sec., conclusione alla quale giungiamo a partire dallo studio del Bologna che vedrebbe un "transfert" tra alcuni codici napoletani dell’epoca angioina e gli affreschi della nostra cripta, circa l’iconografia della Trinità.
Il legame di congiunzione tra Napoli e Andria e, quindi, il possibile anello di trasmissione di questo "transfert" è rappresentato dagli stretti rapporti di collaborazione tra i casati d’Angiò e Del Balzo nella battaglia contro Federico II (Benevento 1266), in seguito sanzionati dai matrimoni di Bertrando con Beatrice d’Angiò e di Francesco Del Balzo con Margherita d’Angiò.
I tre dipinti disposti sull’arco sono un’esposizione figurativa dell’artista sul tema della storia della salvezza.
La creazione è la prima fase del dialogo tra Dio e l’uomo, è il momento in cui Dio con tutto se stesso crea l’umanità e l’accoglie nella propria vita trinitaria (cf. Gen. 1,26).
L’umanità, creata "a immagine e somiglianza di Dio" (Gen. 1,27), è indotta dal tentatore a sostituirsi al suo Creatore (cf Gen. 3,5); tale desiderio genera la rottura, la lontananza e la morte.
Dio, però, non abbandona l’uomo a se stesso, ma lo ristabilisce nella relazione trinitaria attraverso Cristo - nuovo Adamo - che con la sua obbedienza ha vinto la disobbedienza del primo Adamo e, abbracciando la croce - nuovo albero della vita -, ha sconfitto definitivamente la morte e ci ha ridonato la vita (cf. Rom. 5,18-19; 1Cor. 15,21-22) [41].
Facciata del secondo pilastro della navata destra.
Troviamo un pontefice nimbato, seduto frontalmente su uno scanno [42], porta in capo il triregno e veste un ampio abito. Benedice con la destra e tiene nell’altra una coppa o calice a forma allungata che contiene due teste mozze.
La raffigurazione iconografica permette di riconoscere il beato Urbano V, a noi presentato con gli attributi della dignità papale e con le preziose reliquie dei Ss. Pietro e Paolo, da lui rinvenute il 3 marzo 1368 in S. Giovanni in Laterano.
Notevoli sono i punti di contatto con l’affresco di Urbano V presente nella chiesa di S. Francesco di Irsina; a tal riguardo lo studioso Nugent fa notare come la cappella semisotteranea di Irsina, le cui date per gli affreschi sono state fissate tra il 1370 (anno della morte del papa) e il 1373, era stata prescelta e decorata come oratorio di Margherita di Taranto, duchessa di Andria e moglie di Francesco Del Balzo, e della loro figlia Antonia [43].
Vista la ripresentazione dello stesso soggetto possiamo supporre che la famiglia Del Balzo fosse particolarmente devota al papa. Infatti, quando gli angioini furono chiamati dall’autorità papale a sottrarre il mezzogiorno d’Italia a Federico II, molte famiglie provenzali vi parteciparono, tra cui i Del Balzo con Barral e il figlio Bertrando e con Bertrando di Berre e i figli Ugo e Bertrando.
Dopo la vittoriosa battaglia del 1266 a Benevento, Bertrando, figlio di Bertrando di Berre, sposò Beatrice d’Angiò, figlia di Carlo II e vedova di Azzo VIII d’Este. Bertrando con questo matrimonio ebbe in dote dalla moglie il ducato di Andria [44] e la S. Spina [45].
Intanto a Napoli Giovanna I d’Angiò nel 1348 successe a suo marito Andrea di Ungheria e, dopo la morte dei primi due mariti (Andrea e Luigi di Taranto), sposò Giacomo III di Maiorca.
Non riuscì a reggere bene le redini politiche tanto che il monaco Guglielmo Grimoard, essendo capo della congregazione vittorina marsigliese fu chiamato dall’allora papa, Innocenzo VI, a portar consigli alla regina [46]. Guglielmo vi giunse il 12 giugno 1362 e il 28 settembre dello stesso anno ricevette l’annuncio della sua elezione papale.
Fu di gran lunga il più santo dei papi di Avignone. Durante il suo pontificato rafforzò la propria posizione in Italia grazie all’energia, al genio militare e alla politica del cardinale spagnolo Egidio Albornoz e, viste le favorevoli condizioni, prese nel 1367 la coraggiosa decisione di tornare a Roma dove vi restò per tre anni.
Durante la permanenza a Roma furono intrapresi lavori di restauro in Vaticano e nelle basiliche maggiori (in questa occasione rinvenne le Sacre Teste) [47] e si incontrò con l’imperatore bizantino, Giovanni V Paleologo, giungendo a un’unione formale della chiesa latina con quella greca nel 1369.
Per il suo operato si guadagnò la stima del Petrarca [48] e, dopo la sua morte fu subito considerato santo a tal punto che la sua immagine " si dipingeva e si venerava per santo in molte chiese e anco in Roma" [49].
Quindi da tutte queste considerazioni concludiamo che la presenza di questo affresco in Andria non ha solo una motivazione di carattere moraleggiante (proporre come "exempla" un grande testimone di Cristo), né esclusivamente religiosa (sottomettersi all’autorità papale), ma soprattutto storica (per i rapporti ravvicinati tra i d’Angiò e i Del Balzo, tra Urbano V e Giovanna I e quindi, indirettamente, tra il pontefice e i Del Balzo, che regnarono in Andria tra il 1308 e il 1487).
Per una possibile datazione dell’affresco proponiamo una lettura comparata con quello sito a Casaranello nella chiesa di S. Caterina [50].
Dal confronto emergono due elementi distintivi: il trono e la tiara.
Il trono di Casaranello è costituito da un baldacchino cuspidato, aperto da un arco decisamente acuto, a lobi intrecciati, di carattere tardo gotico [51], mentre quello di Andria è di una tipologia stilistica sicuramente successiva per la mancanza di elementi gotici.
La tiara, introdotta come nuovo simbolo pontificio da Bonifacio VIII (1300), inizialmente è a forma conica semplice; con Bonifacio IX (1389-1404) diviene "triregno".
Per i suddetti elementi, l’affresco di Andria è posteriore a quello di Casaranello e, se quest’ultimo è databile tra il 1370 e il 1389 [52], il dipinto di Andria si collocherebbe tra la fine del 1300 e gli inizi del 1400.
NOTE
[1] Cf. la bibliografia completa (in calce alla tesi).
[2] Tutte le ipotesi di spiegazione della civiltà rupestre in Puglia sono riportate in maniera dettagliata da C. D. Fonseca, La civiltà rupestre in Puglia, in AA.VV., La Puglia tra Bisanzio e l’Occidente, Milano 1980, pp. 37-116.
[3] Cf. D. Solazaro, Studi sui monumenti dell’Italia meridionale dal IV al XIII secolo, vol. II, Napoli 1971-’75.
[4] Cf. C. Diehl, L’art dans l’Italie Meridionale, Paris 1894.
[5] Cr. E. Bertaux, L’art dans l’Italie Meridionale, Paris 1904.
[6] Cr. A.Prandi, S. Giovanni di Patù e altre chiese di terra d’Otranto, in "Palladio", XI (1961) pp. 103-36.
[7] Cr. A. Guillou, Aspetti della civiltà bizantina in Italia, Bari 1976, p. 292.
[8] Cf. A. Medea, Una Tebaide italiana, in "Le vie d’Italia", IX (1950) pp. 1059-60; A.Vinaccia, I monumenti medievali di Terra di Bari, vol. I, Bari 1915, p. 43.
[9] B. Capelli, Il monachesimo basilino ai confini Calabro-Lucani, Napoli 1963, p. 24.
[10] A. Chionna, S. Vito dei Normanni e la civiltà rupestre, in AA.VV., Chiese, cripte e insediamenti rupestri del territorio di S. Vito dei Normanni, Fasano 1968, p.13.
[11] Cr. E. Merra, Monografie andriesi, vol. II, Bologna 1906, p. 232.
[12] Un affresco molto affine, datato intorno al XIII sec., è presente nella Basilica di S. Sabino a Canosa in fondo all’intercapedine che corre lungo il fianco destro della chiesa e a cui è possibile accedere da un varco aperto nell’atrio del mausoleo di Boemondo (Cf. L. Iacobone, Scoperta di un affresco raffigurante S. Nicola nella Cattedrale di Canosa, in "Vetera Chistianorum", XIX (1982) pp. 395-97 ). E’ probabile che sia stata la stessa mano a riprodurre il santo nei due diversi luoghi.
[13] Cf. E. Merra, Monografie andriesi, op. cit., 294-95.
[14] Cf. R. O. Spagnoletti, I Lagnoni e S. Croce in Andria, Bari 1892, pp. 5-12.
[15] A. Vinaccia, I monumenti..., op. cit., vol. I, p. 46.
[16] Cf. R. O. Spagnoletti, I Lagnoni..., op. cit., pp. 18-20.
[17] F. Nicolamarino - A. Lambo - A. Giorgio, Santa Croce in Andria. Notizie storiche e ipotesi di restauro, Andria 1981, p. 41.
[18] Questo aspetto è sottolineato maggiormente dagli affreschi ciclici quali l’invenzione della croce nella navata destra, gli episodi della vita di Gesù rappresentati sull’arco trionfale, così come dall’insistenza del tema della croce. Inoltre il carattere devozionale emerge anche dalle raffigurazioni dei santi, pontefici e vescovi appartenenti sia alla tradizione occidentale che orientale a testimonianza, da un lato, della posizione strategica che occupava la Puglia negli scambi e come terra di passaggio per i crociati, dall’altro, dell’influenza esercitata dai monaci basiliani nella cultura popolare nei secoli successivi.
[19] Lo dimostrano gli affreschi dell’abside destro che si rifanno direttamente al testo dell’Apocalisse, quelli dell’intradosso dell’arco tra la navata centrale e quella di sinistra che raffigurano la creazione di Eva, il peccato originale e il Cristo risorto.
[20] Cf. C. D. Fonseca, La civiltà rupestre in Puglia, op. cit., p. 115.
[21] Basti notare il tipo di rappresentazione iconografica della Trinità, la raffigurazione di Urbano V, oltre che gli elementi stilistici e iconografici quali le chiome, le corone regali, i gioielli e le vesti, che si possono riscontrare soprattutto nelle scene dell’invenzione della croce, in particolar modo nel primo riquadro dove sono anche rappresentate, sullo sfondo, tipiche costruzioni dell’epoca.
[22] Per una descrizione dettagliata di tutti gli affreschi rimandiamo a: A. Medea, Gli affreschi delle cripte eremitiche pugliesi, vol. I, Roma 1939, pp. 52-58; B. Molajoli, La cripta di S. Croce in Andria, in "Atti e memorie della Società Magna Grecia Bizantina-Medievale", I (1939).
[23] Per una presentazione più dettagliata rimandiamo a: R. Licinio, I periodi angioino ed aragonese, in AA.VV., Storia della Puglia. Antichità e Medioevo, vol. I, Bari 1979, pp. 277-95.
[24] Cf. E. Merra, Monografie andriesi, op. cit, vol. I, pp. 337-39.
[25] Tra le laudi più importanti ricordiamo "Pianto de la Madonna de la passione del figliuolo Jesù Cristo" di Jacopone da Todi, autore anche del testo latino dello "Stabat Mater". Ma vi sono altre laudi anonime nelle quali emerge la sincerità della fede popolare. Abbiamo scelto un testo che, per i numerosi richiami con i due affreschi della crocifissione presenti in S. Croce, può offrirne un commento:
Levate gli occhi e resguardate:
morto è Cristo oggi per noie;
le mani e i piè en croce chiavate,
aperto el lato, oh triste noie!
Piangiamo e famo lamento
e narriamo del suo tormento.
[Maria ad sorores:]
O sorelle della scura,
or me daite un manto nero,
a quella che giammai non cura,
de bel drappo né del velo,
poie ch’io so’ sì abbandonata
e del mio figlio vedovata.
[Sorores ad Mariam:]
Doloroso manto è questo
che t’avemo apparecchiato;
vedova reman de Cristo
che t’avea cotanto amato.
Cor che non piange e molto fiero
veder Maria vestita a nero.
[Maria mater Domini:]
Donne che vedove andate
traite a veder Maria scurata
prendave de me pietate
vederme star si abbandonata.
Alcuna de voi m’accompagne
a pianger, me e ‘l tristo Ioagne.Or qual è l’omo ch’è tanto crudo
Oggi dì de vedovanza,
pien de pena e de dolore,
morta è la nostra speranza,
Cristo nostro salvatore.
Ciascun faccia nuovo pianto,
e a Maria daite esto manto.
che te non piange, o figliol mio
vederte stare en croce nudo
tutto scoperto, oh trista io!
Morir credette, e ciò non celo
quando el copersi col mio veloMercè ve grido per suo amore
ch’aitiate a pianger la dolente,
le gran pene e ‘l suo dolore
sien manifeste a tutta gente;
e io, odendol dire a vuie,
forsa mo accompagno luie.
N. Sapegno, Poeti minori del Trecento, p. 1033. Di tutt’altro livello teologico e spirituale, ma non meno immediato e comunicativo, è il discorso di S. Bernardo pronunciato nella domenica fra l’ottava dell’Assunzione della B. V. Maria, 14-15 (Opera Omnia, vol. II, Milano 1851, pp. 437-38).
[26] Per un approfondimento sulla spiritualità tardo-medievale: A. Fliche - V. Martin, Storia della Chiesa, vol. XIV/2, Torino 1971, pp. 773-1043; F. Vandehbroucke, La spiritualità del Medioevo, Bologna 1991, pp. 431-50.
[27] "Piuttosto insolita appare, nella serie delle cripte pugliesi, questa ripartizione degli affreschi che svolge la narrazione entro piccoli riquadri successivi. Per lo più, infatti, là dove - come nella cripta di S. Biagio a S. Vito dei Normanni, per non citarne che una - si ha un susseguirsi di scene, esse occupano spazi maggiori, variamente disposti, non limitati come qui da piccole riquadrature regolari. Un sistema decorativo assai simile a questo si ritrova in una cripta di S. Antonio a Laterza, ove in tal modo sono rappresentate scene relative alla vita di S. Margherita, ma si tratta solo di un avvicinamento riferentesi unicamente alla disposizione, poiché basta un’occhiata ai cavalieri di Laterza dalle grosse teste, dai rigidi cavallucci, alle pecorine infantili per notare la profonda differenza fra quelle povere figure di rozza e incerta fattura e gli affreschi di S. Croce, dove già si rivela un certo sforzo nel rendere raggruppamenti di più figure in movimento" (A. Medea, Affreschi delle cripte eremitiche pugliesi, op. cit., p. 54).
[28] "E’ da notare che un Giuda aveva causato la morte di Gesù, quindi una legge del contrappasso di gusto tipicamente medievale imponeva che fosse un altro Giuda a riparare, magari involontariamente" (E. Croce, Iconografia di S. Elena, in "Bibliotheca Sanctorum", vol. IV, p. 995).
[29] Jacopo da Varagine, La leggenda aurea, Alba 1938, pp. 366-68.
[30] Cf. M. Salmi, Appunti per la storia della pittura in Puglia, in "L’Arte", XXII (1919) pp. 161-62.
[31] M. D’Elia - P. Belli, Icone di Puglia (catalogo provvisorio), Pinacoteca Provinciale - Bari 1969, scheda n. 20.
[32] R. Lorusso Romito, Madonna col Bambino e Redentore, in AA.VV., Icone di Puglia e Basilicata dal Medioevo al Settecento, Bari 1988, pp. 131-32.
[33] Cf. B. Molajoli, La cripta di S. Croce in Andria, op. cit., p. 33.
[34] A. Medea, Gli affreschi delle cripte eremitiche pugliesi, op. cit., p. 54.
[35] L’evangelista Giovanni, che secondo la tradizione è l’autore dell’Apocalisse, è stato esiliato per la fede in Cristo nell’isola di Patmos (Cf. Ap. 1,9) e la Chiesa nascente, a cui lo scritto è destinato, è stata decimata da una persecuzione sanguinosa (Cf. Ap. 6,10-11; 13; 16,6; 17,6).
[36]
La maggior parte dei padri ha letto il plurale di Gen. 1,26 come evidente
manifestazione della Trinità.
Già Origene vedeva nella creazione dell’uomo una conversazione tra il
Padre e il Figlio, tanto da considerare quest’ultimo come "pittore di questa
[dell’uomo] immagine" (In Genesim Homiliae XIII, 4: PG 12, 234d).
Il tema è ampliamente sviluppato in Agostino che afferma: "Tu gli
insegni, poiché ormai è capace, a vedere la Trinità nell’unità e l’unità della
Trinità. Quindi è detto al plurale "Facciamo l’uomo" e poi aggiunto al singolare
"e fece Dio l’uomo"; è detto al plurale "a nostra immagine", e aggiunto al
singolare "a immagine di Dio"" (Confessiones XIII, 22: PL 32, 858. Il
medesimo concetto è ripreso da Agostino anche nell’opera De Genesi ad
litteram III, 29: PL, 34, 291). L’idea dell’unico principio
creatore è riscontrabile nel Concilio Lateranense IV del 1215 dove è detto: "Uno
solo è il vero Dio, eterno e immenso, onnipotente, immutabile, incomprensibile e
ineffabile, Padre e Figlio e Spirito Santo: tre persone, ma una sola essenza,
sostanza, cioè natura assolutamente semplice. Sono consustanziali e tra loro
eguali, parimenti onnipotenti e eterni. Unico principio dell’universo, creatore
di tutte le cose visibili e invisibili, spirituali e materiali che con la sua
forza onnipotente fin dal principio del tempo creò dal nulla l’uomo e l’altro
ordine di creature: quello spirituale e quello materiale, cioè gli angeli e il
mondo terrestre, e poi l’uomo composto di anima e corpo" (DS 800).
[37] Di secondaria importanza è lo spostamento della testa del Cristo dalla destra alla sinistra rispetto a quella dell’Eterno; secondo il Didrou è un errore che si verifica spesso.
[38] Cf. F. Bologna, I pittori alla corte angioina 1266-1414 e un riesame dell’arte nell’età federiciana, Roma 1969, p. 285, nota 235.
[39] Cf. R. Van Marle, The development of the Italian Schools of Painting, vol. I, Parisa 1924, p. 452.
[40] Cf. B. Molajoli, La cripta di S. Croce in Andria, op. cit., 25.
[41] Come esempio del parallelo tra l’albero della conoscenza del bene e del male e la croce, nuovo albero della vita, abbiamo P. Crisologo che dice:" Fu crocifisso per comprendere dalla grandezza della morte, la grandezza della carità; per sapere che la morte, venuta dal legno, dal legno fu mortificata; per credere che, con l’albero della croce, ti sono stati resi beni maggiori di quelli che rimpiangevi di aver perduto con l’albero del peccato" (cf. Sermo LX in Simbolorum apostolorum: PL 52,367).Altra testimonianza le troviamo in L. Magno, Epistola ad clerum et plebem costontinopolitane urbis LIX,4: PL 54, 870-71.
[42] La presenza dello scanno di un coro sembra alludere alla prima vocazione del pontefice, cioè quella monastica.
[43] Cf. M. Nugent, Affreschi del Trecento della Cripta di S. Francesco a Irsina, Bergamo 1933, p. 69.
[44] Cf. F. Cognasso, Angiò, in "Enciclopedia Italiana", vol. III, Milano 1929, p.312.
[45] Il dono della S. Spina è testimoniato da una visita pastorale effettuata dal vescovo Cassiano di Bisceglie nel 1656 che sul vecchio ostensorio della S. Spina (perso nel 1799) leggeva: "Ad nos Trinachiae Carolus Rex ille secundus transtulit ex Paridis quae Urbs regia Galliae habetur" (Cf. E. Merra, Una delle maggiori Spine della corona di N. S. nel duomo di Andria, S. Severo 1910, pp. 34-35.
[46] Cf. P. Amargier, Urbano V, in "Storie dei santi", vol. VII, Bergamo 1991, pp. 246-52.
[47] Cf. Ivi, p.252.
[48] "Benedetto sia il giorno in cui avete aperto gli occhi alla luce. Adesso mi apparite come il sovrano pontefice, il pontefice romano, il successore di Pietro, il vicario di Gesù Cristo. In pochi giorni avete riparato ai torti di cinque dei vostri predecessori, torti di più di sessant’anni" (citato in P. Amargier, Urbano V, op. cit., p. 249).
[49] L. Pastor, Storia dei papi, vol. I, Roma 1911, p. 81.
[50] Troviamo nella zona altri affreschi di Urbano V: nelle chiese di S. Antonio Abate di Massafra e S. Vito Vecchio di Gravina.
[51] AA.VV., Casarano (estratto da "Paesi e figure del Vecchio Salento"), vol. I, Napoli 1980, p. 286.
[52] Cf. Ivi, p. 287.
AA.VV., La Puglia fra Bisanzio e Occidente, Milano 1980.
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