racconto di Vincenzo D’Avanzo
Era una sera d’agosto, in Andria pioveva a dirotto. Superato via Mulini imboccai via Valletta con passo frettoloso per rientrare a casa. A un certo punto la mia attenzione si ferma su una figura umana che sporgendosi da una finestra cercava con un panno avvolto a una mazza di scopa di asciugare il volto di una Madonna nella edicola appoggiata a un muro cadente e non diversamente raggiungibile. Io mi fermai per chiederle cosa stesse facendo: allora mi accorsi che era una vecchietta, che peraltro stava correndo un brutto pericolo. La donna mi rispose che cercava di asciugare il volto della Madonna. La cosa mi incuriosì e le chiesi perché il volto e non il resto del corpo: “Combà - disse lei con la vocina tremula - la Madonna ci ha sempre protetto ma se non vede come fa ad aiutarci?” Io sorrisi e le chiesi se non si rendesse conto del pericolo di una caduta. “No - rispose lei - sotto la finestra c’è mia sorella che mi trattiene per i piedi.” Io mi stavo bagnando ma lo spettacolo d’amore in quel momento era più importante del resto.
[L'edicola del racconto sul muro diroccato - foto del 1993 (B.A.Cestari)]
“Dai a me la mazza - le dissi - faccio io da sotto.” “Va bene - disse lei - ma gira il panno dalla parte più asciutta.” E io l’accontentai. Intanto lei era rimasta solo affacciata alla finestra e accanto a lei era comparsa la sorella, non più giovane anche lei. Finita l’incombenza la prima vecchietta mi disse di attendere che scendeva a prendere la mazza. In effetti poco dopo si aprì una porticina tremolante e comparvero le due sorelle. Restituii la mazza e il panno e loro mi invitano ad entrare: “No - dico io - non voglio darvi fastidio.” In realtà avevo paura ad entrare essendo tutta la casa pericolante e lo dissi: “Come fate a stare in questa casa che può cadere da un momento all’altro.” “Non ti preoccupare - disse la seconda - la Madònn crrò stè a fè?”
Io ammirai la fede delle due donne, però non volli rinunciare a una battuta e dissi: “Ma la Madonna guarda la casa di fronte mica la vostra.” E lei prontamente: “Combà, la Madònn stè ngìll i da dè tramend abbasc, vait la fghiura saue ploit i p l fièur i nan la foic cadà i c nan coit u quadr siue nan coit mangh la cois.”
I broiv la vcchiarèdd, a suo modo mi aveva messo a tacere con una interpretazione religiosa che mi incuriosì non poco. Intanto l’altra sorella era andata a prendere nu salzarìdd con dei biscotti: “pìggh, pìggh, l’hamm fatt niue.”
Vista la piega presa dagli eventi io mi sedetti sui gradini della scaletta e lo stesso fecero loro.
- Scusate, posso chiedervi quanti anni avete?
- 94 io, sòrm è giòvn tein appein 85 ann.
- E alla vostra età fate ancora i biscotti?
- Né, sèrvn p cambè. A da vdà cuma piàcn i poue l vnnòim mrcoit.
E mi spiegarono che esse facevano i biscotti per molte famiglie della zona che a volte davano qualche spicciolo
e molto più spesso barattavano con qualche verdura, un po’ di latte, un pugno di fagioli o ceci.
Io intanto, superata l’iniziale diffidenza, sgranocchiavo il primo biscotto e quando presi il secondo ecco la più anziana:
- Si vist ca t piacn? Uagnè - disse rivolta alla sorella -
fè assaprè u rsòlio a u cmboir. Moue a da snduie quand’è bùnn.
- No, nonnina, non voglio ubriacarmi.
- Né, combà, pu rsòlie nust nan sa mbriacoit nsciun.
E io bevvi tutto d’un sorso, era veramente buono, sapeva di mirto. Vista la confidenza che si era stabilita tra noi
decisi di continuare a parlare e si vedeva che esse avevano voglia di raccontarsi.
Chiesi allora se erano vissute sempre da sole. “No - mi dissero - la nostra era una famiglia numerosa:
nov figgh facèrn - disse arzilla la seconda -
tra na guèrr i l’olt. Tutti maschi, solo noi due femmine.
Solo che per far nascere l’ultimo la mamma morì per cui dovemmo fare le donne di casa.”
“L’hamm spusoit - disse con orgoglio la più anziana - i quann hamm spusoit l’ùltm,
niue hèmm grann i na n tramndòiv chiù nisciun.”
Un velo di tristezza coprì il volto di entrambe.
“C sapìv cumm èmm bell” aggiunse mentre da una cornice appesa con le foto dei genitori e un lumino devozionale andò a prendere la loro foto. Ed erano veramente due belle ragazze.
“Come avete fatto a sposare sette fratelli”, chiesi curioso.
“Fadgann i n’hamm fatt onour.” E mi raccontavano che da piccole la mamma aveva loro insegnato
a cucire e a ricamare e loro facevano il corredo per gli altri ricavando qualche soldo e con la stoffa
e il cotone che avanzava fecero il corredo anche per i fratelli.
“Crcamm semp u prmess, ci tenne a precisare, naun cumm facevn l’olt ca facevn
accattè d chiue i pou arrbbavn la robb. Pcchess nu mund mnevn a du niue.”
“Sè quand uagnid mnevn ad ambarè doue”, aggiunse l’altra vantandosi.
“Va bene - chiesi io - ma ce ne son voluti di soldi per sposare sette fratelli.”
“Allour la Madonn crrò ste a fè.” E mi raccontarono di quando il fratello più grande
andò a fare il militare e in caserma incontrò diversi abruzzesi e tutti gli chiedevano della tela di Andria,
che secondo loro era buona per fare le lenzuola. “Quando venne in licenza ce lo disse e noi,
che usavamo quella tela per i corredi, cominciammo a lavorarla e a fare le lenzuola, nostro fratello
le vendette agli amici suoi. Poi siccome vedemmo che la cosa conveniva pregammo un pastore che conoscevamo
e che d’estate andava in Abruzzo a pascolare (cumà iov chedda paraula difficl: tramanza, tramenza.
“Transumanza” - dissi io per aiutarle) ci prendeva le ordinazioni e poi mio fratello
prendeva il treno e portava un sacco di lenzuola chiusi nei fangott i facemm nu sacc d pizz.”
“Quando siete diventate grandi, i fratelli e i nipoti vi hanno lasciate sole?”
“Naun, p l’amour du Signour - dissero all’unisono e poi continuò la grande: - vlevn ca n scemm p lour, ma niue stoim comt doue”,
e mi raccontarono delle loro abitudini, dell’attenzione dei vicini, della chiesa dove andavano a fare il catechismo,
dei ragazzi che il pomeriggio andavano a trovarle per farsi raccontare le storielle.
“Qual è il lavoro più bello che avete fatto?“ Azzardai indiscreto.
E mi raccontarono di quella volta che andando in sacrestia videro il sacerdote che si toglieva la stola ricamata con fili dorati tutta lacera e lisa.
Le due sorelle dissero al sacerdote di comprare la stoffa e i fili d’oro che avrebbero provveduto loro a farne una nuova.
“N cecamm d’occhr”, disse la più giovane. Ma alla fine consegnarono la stola che era un capolavoro.
“In chiesa n facern addvntè ross, perché ci chiamarono sull’altare per ringraziarci.”
“Avanzè nu picc d robb i d foil - disse la più anziana - na r dcemm au prevt i facemm l’altoir a la Madonna nost,
ve la piggh uagnè”, disse alla sorella, mentre lei mi raccontava che quel pezzo di stoffa finemente ricamato lo usavano nel mese di maggio,
il 15 agosto “i quann s port la Madonn four.”
Durante tutto il mese di maggio la gente del quartiere si riuniva la sera per il rosario, ognuno portandosi la sedia da casa
e il 31 facevano la fiaccolata e alla fine biscotti per tutti.
“Ievn adacsì bunn ca accmnzarn ad accattall p l figgh. I niue scemm nand senza chiedere elemosina.”
E poi il 15 agosto facevano il falò che si ripeteva la notte prima dell’ultimo sabato d’agosto quando tutti si riunivano
intorno al fuoco per raccontare storie di vita, per ballare fino a quando suonavano le campane della cattedrale
e tutti scappavano per andare in processione al santuario.
[L'edicola del racconto sul muro diroccato - foto di un lettore]
Erano così contente che mi permisi una domanda indiscreta: “Ma quando pregate che cosa chiedete alla Madonna?”
Le due donne si guardarono negli occhi e poi la grande disse: “A u mment ca na ma scioie, sprioim d fè u viagg nzimm -
pausa, poi ridendo aggiunse - m dispioic p d’edd ca ià chiù giovn.”
E ridendo ci salutammo.
Quando ero sull’uscio la più giovane chiese: “Combà, nan si ditt cumà t chioim.”
“Vincenzo”, risposi, e la grande: “Vingè, ca la Madonn t’acchmpagne.”
E io le salutai con la mano mentre uscendo guardai quella Madonna sul muro con il volto asciutto.
Intanto non pioveva più e me ne tornai a casa lentamente, ripensando alle tante cose che ci eravamo detti.
Ogni volta che passavo di lì bussavo per salutarle e loro mi offrivano i biscotti e io lasciavo qualcosa che capitava di avere nella borsa della spesa.
Poi un giorno per un delicato intervento chirurgico fui costretto a stare fuori Andria per qualche mese. In ospedale mi ricordai di quel saluto: “Vingè, ca la Madonn t’acchmpagne” e mi posi il problema: era un augurio o una affermazione? Mi augurai che fosse vera la seconda e che loro si fossero ricordate di me davanti a quell’altarino.
Quando mi rimisi in salute decisi di andarle a trovare. Non c’erano più e alcuni muratori stavano demolendo quella casa cadente.
“Cosa è successo?” Chiesi. “Le bizzoche che abitavano qui sono morte a un giorno di distanza l’una dall’altra
tanto che fecero il funerale insieme e siccome la casa era pericolante i familiari hanno deciso di abbatterla.”
“E quella edicola che fine fa”, chiesi io preoccupato. “Non si preoccupi, signore, quella la salviamo
perché qui tutta la gente si è ribellata alla demolizione, dicono che le anime delle bizzoche stanno lì dentro”, aggiunse ridacchiando.
“Non so se ci sono le loro anime - risposi serio - sicuramente c’è il mio cuore.
Questo è il mio indirizzo, vi pago io tutto quello che serve per la sua sistemazione.”
“No - risposero i muratori - la gente vuole che deve restare così, anche il pezzo di muro e i fratelli sono d’accordo.” E così fu.
Io me ne tornai a casa, pensando a quelle due vecchiette[1], brave a fare i biscotti per addolcire la vita degli altri. La loro era già dolce di suo.
[1] Le due vecchiette si chiamavano Savinuccia e Lallina. Sembrano ingenue e ignoranti (cosa vuol dire questa parola?), ma con Dio si ragiona con il cuore, non con il cervello. A condurre l’intervista immaginaria Vincenzo, che sembra colto e intelligente ma da quelle vecchiette ha imparato molto.
[Pubblicato dall'autore, Vincenzo D’Avanzo, nel suo diario su facebook nonché sul giornale telematico “Andrialive.it” il 27 agosto 2017]
L'autore, Vincenzo D'Avanzo, qualche giorno dopo la pubblicazione del meraviglioso su riportato racconto, il 2 settembre, pubblicò nel suo diario su facebook, il seguente ringraziamento ai lettori, nel quale accenna a come nascono i suoi racconti e motiva perché sente l'impulso di scriverli e pubblicarli.
Per dire grazie
per lo straordinario successo ottenuto da Savinuccia e Lallina.
La società nasce quando è resa possibile la circolazione delle idee. Un racconto non cambia la vita ma può suscitare una emozione, persino un sorriso, come è capitato alla signora che passando davanti alla edicola si è messa a ridere pensando alla vecchietta che teneva per i piedi la sorella perché non cadesse. La mamma che stampa il racconto per leggerlo ai figli, il giovane che ripercorre in esso il racconto dei nonni o la signora che chiede che se ne faccia un libro per studiarlo nelle scuole: sono reazioni che non mi hanno sorpreso perché le ho sperimentato a scuola. Io non ho mai insegnato storia, sempre l’ho raccontata, che non significa inventarsela, ma mettere insieme i tasselli di verità rendendoli commestibili da parte di tutti.
Uno mi ha chiesto: eri parente delle due vecchiette? Sembra che le conosci bene. Beato lei che ha conosciuto due sante donne. Non lo deludo: a parte che di sante donne (e uomini) ce ne sono tante in giro (come ce n’erano) solo che non se ne parla; io non le ho mai conosciute: una signora mi ha detto i nomi, mi ha parlato della cura che avevano per quella edicola, mi ha raccontato dei dolci che facevano (io ho tradotto in biscotti), della vita al servizio dei vicini. Io ho conosciuto tante altre situazioni similari all’Unitalsi, in parrocchia (saup a r Criuc), a sant’Angelo dove operava una zia “bizzoca” ecc. La donna fu creata perché sulla terra ci fosse amore e le “bizzoche” (all’inizio non era un termine dispregiativo) erano capaci di amore più delle altre. Ne ho tirato fuori un racconto che interpretava lo spirito di quelle donne, tanto che qualcuno ha scritto che è tutto vero perché lo raccontava anche il nonno. Ecco voglio sottolineare che nei miei racconti è tutto vero, un pizzico di fantasia fa solo da collante.
“Manco da Andria da una vita e questo racconto mi ha commosso”: sono contento. Ho imparato da piccolo che nella vita l’importante è essere utili. L’ho fatto in molti modi. Oggi utilizzo anche i racconti. Camminavo su via "milite ignoto” solo soletto leggendo il giornale. Sul marciapiede alcuni ragazzi stavano giocando seduti a terra. Io li avevo intravisti, ma essi temettero che io fossi intento solo a leggere il giornale. Un ragazzino disse ad alta voce: “u no, ascinn". Tre parole di uno sconosciuto bambino (bocca della verità) furono sufficienti a infrangere il mio mito di eterna giovinezza. E come per tutti i nonni oggi mi tocca raccontare. Non c’è più il braciere, mi accontento del computer. Ho regalato i miei libri alla parrocchia e a una iniziativa di ex carcerati: perché continuino ad essere utili. La vita mi ha consentito tante esperienze. Mi tormenta quella domanda del Padrone: ti ho dato dei talenti, che uso ne hai fatto? Almeno una risposta quel giorno l’avrò pronta: ho raccontato storie (mai frottole). E se mi chiederà qualche spiegazione anche questa è pronta: per avere il primo parauall a sand Rccard m facern sczzlè ramell p na smmoin: mi è servita più quella lezione che tanti anni di scuola. È sbagliato comprare il telefonino di ultima generazione senza manco farsi dire grazie. Consentitemi di concludere con il commento di Angelica Sansonne: sembrava di essere lì con te, con voi. Se ci sono riuscito il merito è di un altro vecchietto, don Mario Melacarne, lo scomparso direttore spirituale del seminario, che in terza media per tutta l’estate mi chiuse in biblioteca costringendomi a leggere decine di romanzi.
Hanno scritto: facciamo qualche cosa per quelle vecchiette: no, offenderemmo la memoria delle migliaia di vecchiette che hanno sacrificato la vita per far “dolce quella degli altri, perché la loro era già dolce di suo”. Una lapide, un monumento non si nega a nessuno. Amiamo invece i vecchietti che abbiamo in casa e, soprattutto, teniamoceli in casa. Hanno tante cose da raccontare.
Appuntamento a domani.