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“Andria nel Medioevo”

DA “LOCUS” ROMANO-LONGOBARDO A “CONTEA” NORMANNA

di Pasquale Barbangelo

Parte terza:   ANDRIA NORMANNA

III – POTERE SOCIETÀ E POPOLO
IN ANDRIA NORMANNA

Durante il primo periodo della dominazione normanna, e più propriamente nell’ottantennio e passa in cui gli Altavilla esercitarono il loro incontrastato potere sul Mezzogiorno continentale con il titolo di “Duca di Puglia e di Calabria” i Conti di Andria la governarono con pieni poteri, avocando a sé i diritti di amministrare la giustizia sia civile che penale, di levar tasse e tributi e di eleggere gli “ufficiali” dell’esecutivo. Essi furono fieri sostenitori della loro indipendenza e Pietro di Amico, da Gran Conte qual era, poté persino competere, sia pur senza successo, col cugino Umfredo per la successione nel Ducato.

Non meno di lui rivendicò la sua autonomia Pietro II, suo figlio, che non si fece scrupolo di chiedere la protezione dell’Imperatore d’Oriente, ottenendone il titolo di “imperialis vestis”, pur di insignorirsi di Trani contro il volere del Guiscardo. Sconfitto e privato dell’ “onore di Trani”, si rifiutò di dichiararsi suo vassallo e di concedergli il richiesto “adiutorium” e, quando i figli di Umfredo, con i riottosi Conti pugliesi, ancora una volta levarono le insegne della ribellione contro l’usurpatore zio-tutore, si associò loro e combatté con le sue milizie locali, finché, arresesi le sue città e fatto prigioniero, desisté dalla lotta.

Durante il debole governo del duca Guglielmo anche Goffredo resse da “dominator” la Contea di Andria e partecipò due volte alle ribellioni dei Baroni del continente contro Ruggero II, che ambiva all’unificazione dei domini normanni “di qua e di là dal Faro”. Intanto nei 1129, a Melfi, con gli altri conti di Puglia e di Calabria, egli dovette prestare il “giuramento di fedeltà” al duca Ruggero e ai suoi figli.

Anche se la sua irriducibile aspirazione all’indipendenza lo indusse ancora una volta alla ribellione, egli entrò in rapporti di vassallaggio col Sovrano e contrasse con lui gli obblighi feudali: come gli altri Baroni meridionali, non poté più intitolarsi “conte per grazia di Dio” e dovette rinunciare al “diritto di feudo” – che consentiva al feudatario di far guerra a suo piacimento – con grave scapito della sua autonomia. Abolita in tal modo la guerra privata, avrebbe risposto alla giustizia regia di ogni eventuale violazione (1).

Nel 1139 la monarchia di Ruggero II ottenne il riconoscimento di papa Innocenzo II e l’anno seguente il Re di Sicilia e Duca di Puglia e di Calabria con le “Assise” di Ariano riduceva i conti alla più completa obbedienza. Essi ormai non solo gli devono fedeltà e omaggio, ma, affiancati come sono dai “giustizieri” di nomina regia, subiscono anche una riduzione e un ridimensionamento delle loro competenze e, quantunque nel campo militare non siano sottoposti al controllo dei “connestabili”, tuttavia devono rispondere della prestazione del “servitium” dei loro vassalli.

Il conte opera attorniato dalla sua curia, cui partecipano i vescovi, i baroni, i cavalieri, gli ufficiali della contea. Con ognuna di queste categorie egli è in diverso rapporto: d’interazione con i vescovi che non gli sono soggetti, di autorità diretta nei confronti dei baroni cui egli abbia concesso un suffeudo, e di autorità altrettanto diretta, ma in funzione mediatrice, nei riguardi dei baroni regi. I cavalieri dipenderanno da lui mediatamente o immediatamente, mentre immediatamente nominati da lui sono gli ufficiali della contea(2).

Dopo l’ingloriosa fine del conte Goffredo, la Contea di Andria, confiscata da Ruggero II, divenne feudo del demanio regio e “in demanium” e “in capite” l’ottennero Riccardo – non sappiamo se da Ruggero II o da Gugliemo I – Berteraimo da Margherita di Navarra e Ruggero da Guglielmo II.

Dal “Catalogo dei Baroni”, che il Capasso sostiene essere stato compilato “tra la guerra del 1157 – ‘58 contro il Paleologo e la campagna del 1165 – ‘67 contro il Barbarossa(3), il “Comitatus Andrie” risulta dato in demanio al conte Berteraimo che “per l’aperta testimonianza di Ugo Falcando, scrittore contemporaneo, fu dichiarato conte di Andria nel 1166”, ma lo possedeva come feudo già dal 1155, dopo la tragica fine di Riccardo. Esso comprendeva Andria, in cui Berteraimo possedeva 13 “milites” e cavalieri (4). Questi, inoltre, teneva anche un feudo di 4 militi in Minervino, uno di 6 militi in Sant’Arcangelo, uno di 4 militi in Policoro, uno di 2 militi in Rocca e uno di 2 militi in Colobrara. Insomma possedeva un demanium di 31 militi ed era tenuto a prestare l’ “augmentum” e “supero” di 62 cavalieri e 200 “servienti” o fanti.

Dei suoi suffeudatari, Guglielmo Rapollese, Roberto Principe, Giacomo e suo fratello e Roberto Pane e Vino possedevano, ciascuno, un feudo di 1 milite in Andria; Guglielmo Cebrone ne aveva uno di 1 milite e mezzo. Avevano invece in Sant’Arcangelo, ciascuno un feudo di 1 milite, Guglielmo Marescalco, Grabellone e Raoul, figlio di Roberto; Ruggero, figlio di Gyroy, ne aveva uno di mezzo milite. In Colobrara avevano un feudo di 1 milite i due figli di Giovanni di Giuncato. In Castel Nuovo Goffredo di Partinico aveva un feudo di 8 militi. Anche l’Abate di Banzi era suffeudatario del Conte di Andria e possedeva Banzi, che era un feudo di 4 militi; mentre Guglielmo, figlio di Simone, era possessore di una terra di Guglielmo Rapollese, del valore di 1 milite (5).

In quel tempo pare che la contea di Conversano fosse vacante del feudatario e temporaneamente unita a quella di Andria per quanto riguardava gli obblighi militari.

Tra i suffeudatari di Conversano si annoverano Girino di Andria, che in Terlizzi teneva il feudo di 2 militi di Parisio Guarannone, e Danese di Andria, possessore in Terlizzi del feudo di 1 milite, una volta possesso di Guglielmo Morelliano e di Guglielmo di Spelunca.

Il conte Berteraimo con i suoi suffeudatari faceva parte della “Curia Andrie”. Egli amministrava la giustizia criminale, tranne in alcuni casi che venivano affidati alla sua curia, organo della giustizia regia. Nelle cause civili sentenziava col concorso del giustiziere regio. Da lui dipendevano sia il giudice sia il baiulo; quest’ultimo aveva anche le funzioni di “ufficiale esecutore”.

L’ultimo conte normanno di Andria, Ruggero, una volta elevato da Guglielmo II alle più alte cariche dello Stato e nominato Maestro Giustiziere e Gran Connestabile di Puglia e di Terra di Lavoro, ebbe nella sua contea tal somma di potere che – nel nome del Re – esercitò la sua autorità direttamente non solo sugli ufficiali locali e sui baroni suoi suffeudatari, ma anche sui baroni regi.

Il popolo andriese – assimilabile per composizione etnica agli abitanti degli altri centri della Terra di Bari – già in epoca pre-normanna presentava una mescolanza di elementi in cui prevalevano il latino-romano, il greco-bizantino e il germanico-longobardo. Utili indicazioni – da estrapolarsi con cautela – ci provengono dall’onomastica, che pur “spesso soggetta ai capricci della moda, che si orientano secondo l’uso dalle classi dominanti(6) – conferma sostanzialmente quanto già risulta dagli studi etnografici, toponomastici, filologico-romanzi, storico-politici e giuridico-consuetudinari della nostra regione. Dei nomi usati nel Barese, infatti, il 36% sono derivati dall’onomastica greco-bizantina, il 32% da quella latino-romanza e il 24% da quella germanico-longobarda. Il 5%, inoltre, sono di derivazione ebraico-biblica; ma ci sono anche nomi di provenienza araba, armena e slava – complessivamente il 3% – che testimoniano la presenza nei centri del nord-barese di elementi stranieri che militavano, anche in qualità di mercenari, nel composito esercito stanziale bizantino.

La lingua parlata dal nostro popolo era un latino volgare alterato da un sostrato adriatico-illirico e da un adstrato osto-sannitico, che fin dall’alto medioevo andò soggetto non solo alla semplificazione sintattica, alla disgregazione morfologica e alle innovazioni lessicali, ma anche, e specialmente, a profonde alterazioni fonetiche (7). Essa, pur con un suo peculiare vocalismo, rientrava nell’area linguistica pugliese-adriatica non comprensiva della Salentia; né risentì delle varie dominazioni – fossero longobarde, bizantine, saracene o normanne – se non in quanto accolse un numero piuttosto limitato di voci nel suo lessico. Di essa non vi sono documenti paragonabili neppure al “placito” cassinese; ma leggendo quelli raccolti nel “Cartulario” di Conversano, nelle “Carte” di Troia, nel Codice Diplomatico Barese e nelle “Carte” del Prologo, si riscontrano intere frasi a specchio della lingua parlata e ci si imbatte in termini dialettali, rimpannucciati di latino dai tabellioni. Ad esempio nel doc. 67 del “Chartularium Cupersanense”, tra la “mobilia” da dare in dote ad una sposa sono elencati: “due imbestiture”, “una curtina ad giralecto nova”, “quinque camise” “de lino novo”, “uno cucclarile cum viginti quattuor cucclare”, “una caldara”, “una conca de rame”.

Dopo che Andria fu “incastellata” dai Normanni, essi vi si insediarono, ma il loro insediamento fu di portata modesta: oltre al conte Pietro, vi pose sede un gruppo di “milites”: “relativamente pochi e in rapporto percentuale di inferiorità rispetto alla popolazione del luogo” (8).

È questo il tipo di rapporto che il Delogu, partendo dal caso documentato di Conversano, esemplifica “per molte città sottomesse da conti “dominatores”, anche quando essi e la loro famiglia se ne assoggetteranno più di una, come i conti di Andria”.

Tale insediamento – in Andria e nelle altre città “fondate” in funzione strategico-ossidionale – dovette avvenire “senza espropri e nel rispetto del diritto privato dei cittadini”. Anzi, promettendo loro di liberarli dal dominio di Bisanzio, che li opprimeva con l’odioso e rapace fiscalismo, e facendosi garanti di un’efficace protezione della loro vita e dei loro beni dalle frequenti e calamitose scorrerie saracene, ne ottennero alleanza e collaborazione. Così Pietro di Amico e Pietro II prima, Goffredo poi, potettero reclutarvi uomini e procurarsi mezzi, onde perseguire la loro politica d’indipendenza, costituendo leghe con i più potenti Baroni del Mezzogiorno e alleandosi col Papa e, persino, con l’Imperatore d'Oriente.

I loro interventi urbanistici documentabili consistettero nella recinzione muraria dell’abitato che, per l’afflusso della popolazione rurale dei “loci” viciniori – anche se meno consistente di quel che vorrebbe la tradizione – si incrementò e si espanse. “Fino a tutto il secolo XII – fa rilevare il Tramontana (9)la campagna penetrava nella cerchia delle mura cittadine e contrassegnava largamente con giardini e soprattutto con orti annessi a case che si affacciavano sulle vie la fisionomia del centro urbano”. “L’indice di costruzione” era “scarsamente accentuato, ma l’addensamento demico per unità abitativa” era “assai elevato”. “Il tracciato viario era stretto e tortuoso e soggetto a indiscriminate usurpazioni di suolo pubblico”. “Quasi totale” era “la mancanza di acquedotti”; ragion per cui si usava attingere l’acqua dai pozzi comuni. Non c’erano fognature né servizi igienici e le cucine erano talora sostituite da focolari di pietra o di mattoni e persino da fornelli in terracotta, collocati davanti alla porta in strada, dove grugnivano maiali e razzolavano galline.

Il tipo di abitazione, tranne il palazzo comitale – che nella nostra città non si è più in grado di stabilire con certezza dove fosse ubicato – e le dimore dei nobili, era di livello molto basso, anche per il materiale da costruzione che, per i lavoratori e i salariati, non era certo la pietra ma il legno. Anzi sappiano che ad Andria si viveva anche nelle grotte e non solo nelle “Grotte di Sant’Andrea”, dal momento che in un istrumento della Curia Ducale del 20 Gennaio 1417 figura come abitazione di proprietà della Chiesa di S. Nicola Trimodiense una “grypta” “intus in civitate, in vicinio dicte Ecclesie contigua et coniuncta parieti eiusdem Ecclesie” che vien “data ad pensionem” ad un tal “Pasquale de Coritu, seu de Robertello(10).

Del resto, quando Ruggero II si fu assicurata la signoria del Mezzogiorno, diede l’incarico di conoscere e descrivere la condizione dei suoi Stati al suo segretario Abu Idris, che nel “ Libro del Re Ruggero” o “Geografia Edrisi” così scrisse della nostra città: “Di fronte a Barletta, lontana nove miglia dal mare, giace entro terra una città grande e popolata che addimandasi Andarah(11).

I due aggettivi riservati da Abu Idris ad Andria, se non c’inducono ad accettare i 20.000 abitanti – che a dir del Merra e delle sue fantasiose fonti sarebbero censiti dal conte Pietro (sic!) – ci consentono tuttavia di supporre realisticamente che, all’incirca verso la metà del XII secolo, la nostra città contasse alcune migliaia di abitanti.

Sembra che la struttura delle classi nelle città del Mezzogiorno continentale sia rimasta sostanzialmente immutata durante la dominazione normanna, specialmente dopo la costituzione dello Stato unitario da parte di Ruggero II.

Ai vertici sociali troviamo ancora i grandi “possidentes” laici ed ecclessiastici o “maiores”, il cui potere economico s’era vieppiù consolidato, fondato com’era sul possesso della terra e sulle attività e prestazioni di uomini che si dedicavano al lavoro agricolo; anche perché solo l’agricoltura consentiva ad ampi strati sociali di risolvere i problemi della sopravvivenza. La terra, oltre tutto, rimaneva la fonte principale della ricchezza e all’acquisto di beni fondiari erano per lo più finalizzati i proventi di ogni attività.

L’esistenza nelle nostre città di medi e piccoli proprietari è testimoniata largamente dagli atti di compravendita, di donazione e di permuta e dai contratti di locazione-conduzione che costituiscono la maggior parte del fondo diplomatico della Puglia centrosettentrionale (12).

Ma la maggior parte della popolazione consisteva di “minores”. Di questo strato sociale facevano parte coloro che esercitavano la pastorizia o che si dedicavano al lavoro dei campi in qualità di enfiteuti, fittuari, coloni, braccianti, a cui erano concessi gli “usi civici” degli “spazi incolti” del demanio pubblico. Questi però, da quando Andria divenne feudo regio, si andarono man mano riducendo a vantaggio dei feudatari che l’ebbero in signoria. Fra i “minores” v’erano certamente gli artigiani: i documenti ci attestano l’esistenza di “pelliparii”, “catenazarii”, “ferrarii”, “buttarii”, “corduanerii”, “quarterarii”, “scarparii”, “fabricatores”. Ai “mediocres” appartenevano invece i “medici”, i “medici equorum”, gli “advocati”, i “grammatici” e i “magistri litterarum”.

Né mancavano i mercanti nelle nostre città, specialmente in quelle costiere; ma in epoca normanna i mercati interni erano assai fragili e il commercio a lunga distanza subiva il grave handicap delle condizioni di privilegio concesso dalle monarchie ai mercanti forestieri, come ai “Ravellesi” in Bari e in Trani, dove c’era una “ruga Ravellensium”.

Artigiani e specialmente mercanti – e mercanti di denaro – furono gli Ebrei, dei quali in Andria si stabilì una modesta colonia in un “pictagium” o zona, a ridosso delle grotte di “Sant’Andrea” e dell’insediamento trimodiense, dove ancora oggi si snoda la “Via Giudea”, tra Via Calderisi e l’ultimo tratto di Via C. Colombo: quello che sbocca all’incrocio di Via Manthonè con Via Porta Nuova. Essi “prendevano parte molto attiva al commercio e commerciavano molto in denaro, in quanto non erano legati dalle disposizioni del diritto canonico relative al mutuo(13), ma non perciò trascuravano altri rami del commercio. “Con i cristiani avevano rapporti secondo il diritto consuetudinario dei vari luoghi e secondo le norme del diritto longobardo. Non erano soggetti alla giurisdizione comune che volontariamente; le loro liti erano decise da giudici ebrei; nei contratti si servivano di notai e testimoni correligionari(13). La dominazione normanna fu più liberale di quella bizantina verso gli Ebrei. “L'avvenimento più notevole per gli Ebrei in Puglia sotto i Normanni fu il passaggio delle comunità giudaiche dal dominio diretto del Principe (nei diplomi gli Ebrei sono accomunati con gli “affidati”) a quello dei Vescovi”. Nella vicina Trani “i Giudei abitarono la parte più antica della città, in vicinanza del porto, dove la fiorente “Giudecca” contava ben quattro sinagoghe(14). In Andria non v’è traccia alcuna di sinagoghe né nei documenti né nella toponomastica: probabilmente la colonia giudaica andriese faceva capo ad una delle sinagoghe tranesi.

Nel 1155 il re Guglielmo I pose le giudecche di Trani – fors’anche la colonia andriese – sotto la speciale sorveglianza dell’Arcivescovo (15).

Le consuetudini di Andria non furono sostanzialmente diverse da quelle di Bari – il centro più rilevante della nostra regione – che ebbero forma ordinata per opera di due giudici del XIII secolo: Andrea e Sparano da Bari.

In un istrumento del 1137, rogato in Andria, si fa riferimento al “mos nostre civitatis(16); ma per una sua conoscenza, parziale eppur fondamentale, ci rimane un “brebe recordationis” del 1073 (17): una scritta nunziale con la quale s’erano stabilite “le basi economiche e morali del futuro consorzio” fra il tranese Giaquinto e l’andriese Dumnanda, l’uno figlio di Risando del “loco di Casamassima”, l’altra figlia di Dumnando di Gizzone.

Le clausole o “capitoli” prevedevano:
  1. il dono del “meffio” o prezzo del mundio, nella misura di 12 soldi d’oro, di quelli buoni, “costantiniani”, non consunti e senza tracce di limature, e di un’ancella, di razza schiavone, giovane, di sana e robusta costituzione e abile nei servizi domestici;
  2. la costituzione del patrimonio dello sposo, determinato dalla rendita della “sors”, o acconto sull’asse ereditario, toccatagli “per sorteggio(18);
  3. la parità di trattamento fra i “sortifices” nella ripartizione di un eventuale “miglioramento” del patrimonio paterno;
  4. l’obbligo per il suocero e per il marito di vivere “secundum eorum potenciam” in pace e tranquillità rispettivamente con la nuora e con la moglie, “sicut ceteri longobardi vivunt quieti et pacifici cum suis nuris et uxoribus”, di non recarle alcun torto e, nella dannata eventualità di una “depredatio”, di non frapporre indugi e di ricorrere ad ogni mezzo per riscattarla dalla schiavitù;
  5. l’impegno per il marito a rispettare la libera volontà della moglie nel disporre per testamento la ripartizione e l’assegnazione di quanto le è rimasto della dote e del meffio, purché abbia prole.

In una clausola particolare si determinano i comportamenti “compensativi” del marito infedele, a secondo che abbia commesso adulterio con la sua ancella o con una “donna libera”. Nel primo caso egli si obbliga a consegnare l’ancella nelle mani del suocero – in quanto mundualdo della figlia oltraggiata – perché ne faccia quel che gli piace; nel secondo s’impegna a cacciar di casa l’amante, a troncar ogni rapporto con lei e a risarcire il danno morale arrecato alla moglie e ai suoi “familiari”, pagando al suocero-mundualdo la somma di 20 soldi di costantiniani d’oro.

Le dette clausole obbediscono per lo più alle formalità longobarde, quali la “wadia” con fideiussione (19); il giuramento con l’intervento dei “sacramentales(20); il “launegilt” – che nel nostro “breve” consiste in un paio di “manizzi nuscinei”, cioè di guanti con la fibbia –; l’estensione agli “eredi” sia degli obblighi, sia delle penalità. Formalità bizantina, invece, è proprio la “penale” in cui si incorre, in caso di inadempienza della norma contrattuale: tal è, infatti, ogni clausola della nostra scritta nunziale, anche quella concernente il meffio, pur se assume la forma della donazione col corrispettivo del launegilt, anzi di una duplice donazione: del padre dello sposo a quello della sposa, in quanto ne è il “mundualdo”, e di quest’ultimo alla sposa, a celebrazione del matrimonio avvenuta.

Dall’istrumento si rileva chiaramente che in Andria come in Trani, del cui distretto la nostra città faceva parte nell’XI secolo, si viveva “secundum legem langobardorum”: legge che, accolta dal nostro popolo, perse la sua rigidità e si adattò alle nostre consuetudini. Il “mundio”, ad esempio, “assunse uno scopo prevalentemente protettivo, affine a quello della “tutela”, a cui era perpetuamente soggetta la donna nell’antico diritto romano(21). Perciò tutte le clausole del nostro “Breve” hanno protagonista il nostro concittadino Dumnando di Gizzone nella sua funzione di “mundualdo-tutore” della figlia. Con le nozze – secondo il “mos barensis” – non avveniva anche il trasferimento del “mundium”. Se poi Dumnando mostra di essere così decisamente interessato alla costituzione del patrimonio del genero e all’equa distribuzione di un eventuale “miglioramento” dell’asse patrimoniale, gli è perché “alia die nuptiarum” il genero offrirà alla sposa il “morgengap” o “pretium verginitatis” nella misura di un “quarto di tutti i suoi beni mobili ed immobili del (suo) patrimonio, anche se da lui acquisito in seguito(22).

Dopo la conquista normanna le nostre consuetudini, specialmente quelle che si riflettono nei “capitoli matrimoniali”, subiranno mutamenti e deviazioni. Vere e proprie innovazioni furono introdotte nei “Capitoli matrimoniali di Andria” dal duca Federico d’Aragona, che li pubblicò il 30 aprile 1489, redigendoli “in volgare” nel mentre, di autorità, interveniva pesantemente su di essi.

Se li si confronta, infatti, con la “scritta nunziale” del 1073, si può agevolmente riscontrare che:
  1. il “meffio” o “prezzo del mundio” si era confuso con la “donatio ob osculum” o “basatura”, dovuta per il semplice bacio al momento degli sponsali (23);
  2. la donna perdeva la “basatura” se le fosser nati figli;
  3. il “quarto” o “morgengap” – se non era stabilito per convenzione dalle parti – veniva commisurato alla dote della donna: per ogni 4 once o ducati di dote, la donna ne otteneva 1 sui beni presenti e futuri del marito (24);
  4. la donna, avesse o no figli, non era più libera di disporre per testamento dei suoi beni, di qualsiasi provenienza essi fossero. Ma, se aveva figli, poteva testare per la decima parte del suo patrimonio; se non ne aveva, per la metà.

Concludendo, le nostre antiche consuetudini, anche se andarono soggette a variazioni, a volte anche notevoli, nel corso dei secoli, erano ancora vive fino al primo decennio del secolo scorso, quando dai “Napoleonidi” furono emanate le leggi eversive della feudalità. Chi ne avesse voglia potrebbe rintracciarne qualcuna – anche se travestita e travisata nel ricordo dei nostri genitori o dei nostri nonni.

La “suocera” che – ancora mezzo secolo fa – “alia die nuptiarum” si accertava che gli sposi avessero compiuto tutt’intero il loro dovere, poteva anche suscitare commenti non sempre benevoli. Ma una consuetudine così strana, che oggi riterremmo una violazione della “privacy” dei novelli sposi, ci riveniva dall’epoca in cui l’istituto longobardo del “morgengap” rientrava nelle consuetudini del nostro popolo: bisognava ben essere sicuri che la sposa avesse donato allo sposo la “verginità” prima che essa rivendicasse il diritto a riceverne come “pretium” un quarto di tutti i suoi beni, mobili ed immobili, presenti e futuri.

Andria, 31 Dicembre 1984

NOTE
(1) E. Mazzarese-Fardella, “Problemi preliminari allo studio delle contee”, in “Società, potere e popolo nell’età di Ruggero II”, Bari 1979, pp. 48-49 e J.J. Norwich, “I Normanni nel Sud”, Milano 1971, pp. 355-356.
(2) E. Mazzarese-Fardella, o. c., pp. 51-52.
(3) B. Capasso, “Sul catalogo dei feudi e dei feudatari delle provincie napoletane sotto la dominazione normanna”, Napoli, 1870, p. 43.
(4) II Besta in “Scritti di storia giuridica meridionale”, Bari 1962, p. 159 dice che i “milites”, prima dei Normanni, erano cittadini i quali, senza riguardo al “genus”, erano chiamati a prestare il servizio militare ed avevano “commeatum et stipendium”: erano, insomma, spesati dal pubblico. Dopo l’invasione dei Normanni erano feudatari (barones habentes terras feudales). A richiesta degli “adduatores” si imponeva loro “ut mitterent milites ad regium exercitum” a spese proprie. Poiché era un privilegio di classe essi formavano la classe dei cavalieri”.
Notizie più particolareggiate sui “milites” ci fornisce il Capasso, nell’opera citata a pag. 56. “I militi – egli scrive – erano in senso assai lato tutti coloro che appartenevano all’ordine della nobiltà, costituita allora solo dalle armi, e avevano ricevuto l’onere della “militia”, ossia il cingolo militare: sotto questo punto di vista i conti erano anche “militi”. Si distinguevano in “militi” che hanno i feudi” (o feuda et partem feudi tenentes) e militi che non tengono feudi, ma beni allodiali” (non habentes feuda, tenentes patrimonia); e anche in “milites feudati e infeudati” (terrerii o terrarii) e “non feudati”.
(5) Il feudo di 1 milite era detto anche “feudo intero”, in quanto rendeva tanto da poter dare il servizio di 1 milite, cioè dava una rendita di 20 once d'oro. Il “servizio” di 1 milite, poi, consisteva nella prestazione di un uomo convenientemente fornito di armi e cavalli e di tutte le cose necessarie ed opportune: egli doveva essere seguito da due scudieri o armigeri, anche egualmente equipaggiati. Oltre al milite feudatario del “feudo intero” dava anche la contribuzione di un dato numero di “serventes” o sergenti, uomini a piedi: fanti e balestrieri. Allorché il feudo era formato dal possedimento di un dato numero di villani o anche di “affidati” o “raccomandati”, quello di 1 milite talvolta era di 30 o 40 villani (inclusi i membri delle loro famiglie), altre volte di 24 o 26, e anche meno. Si ha anche il feudo di 1/2 milite o di 1/4 o di 2/3, e anche di 1/5 o di 1/7 di milite. (Cfr. B. Capasso, o.c., p. 50).
(6) E. Besta, o. c., pp. 263-264.
(7) Le alterazioni fonetiche colpirono il sistema vocalico provocando: 1) la dittongazione interna del tipo “sole” passato a “sàul” e “dico” passato a “dòik”; 2) il frangimento del tipo “pède” passato a “pèit” e “còre” passato a “kòur”; 3) l’assimilazione delle vocali finali nell’unico suono semindistinto ‘ pari a quello della “e muta” nella lingua francese; 4) la metamorfosi del tipo “novu/novi” passato a “nùv” in opposizione a “nova” passata a “nòv”; le vocali miste: é proveniente da “i breve/e lunga”; è proveniente da “e breve”; ó proveniente da “o lunga/u breve”; ò proveniente da “o breve”. A causa delle alterazioni vocaliche ciascun’area municipale ha un sistema vocalico differente: Andria perciò ha un sistema vocalico tutto suo.
Ma le alterazioni fonetiche colpirono anche l’ossatura consonantica con fenomeni di: 1) lenizione del tipo “barba” passato a “varv”; 2) rattrazione del tipo “tristelli” passati a “tr'stìdd’”; 3) palatizzazione del tipo “quinque” passato a “cingh’”; 4) alterazioni asco-sannitiche del tipo “quando” passato a “quànn”, “plumbu” passato a “chiùmm’”, “Antri” - il nome della nostra città nella “Storia dei Normanni” di Amato - passato a “Andr’”, “semper” passato a “sèmb’”, “planca” passata a “chiàngh". Cfr. C. Devoto, “Il linguaggio d’Italia”, Milano 1974, passim.
(8) P. Delogu, “I Normanni in città”, in “Potere, società e popolo nell’età di Ruggero II”, Bari, 1979, pp. 175 e segg.
(9) S. Tramontana, “Città, ceti urbani e connessione tra possesso fondiario e potere nella monarchia di Ruggero II”, in “Potere, società ecc.”, Bari 1979, p. 157.
(10) G. Ceci, Manoscritti, Cart. I n. 17 - 5, Biblioteca Comunale di Andria.
(11) M. Amari - G. Schiapparelli, “ L’Italia descritta nel “Libro del Re Ruggero” compilato da Edrisi”, Roma 1883, 4. p. 104.
(12) Per Andria vedi “Codice Diplomatico Barese”, vol. III, docc. 12 e 45 e vol. IX docc. 15 e 16.
(13) T. Massa, “Le consuetudini della città di Bari”, Trani 1903, p. 68.
(14) Cfr. G. Summo, “Gli Ebrei in Puglia dall’XI al XVI secolo”, Bari 1939, pp. 39 e segg. “Non bisogna confondere - annota la Summo a p. 47 - la giudecca col ghetto (ghet= reclusione). il “ghetto” fu istituito da Paolo IV con la Bolla del 1555: era un quartiere circondato da muro e chiuso di notte. “La “giudecca” fu invece istituita volontariamente dagli Ebrei intorno alla sinagoga”.
(15) G. Summo, o.c., p. 139 e A. Prologo, “Le carte che si conservano nell’Archivio Metropolitano della città di Trani”, Barletta, 1877, doc. LXXXIII.
(16) Vedi C.D.B., vol. VIII, n. 42.
(18) E. Besta, o. c., p. 189.
(19)La wadia longobarda era largamente diffusa nelle Puglie. Era considerata essenzialmente come una “sollemnis stipulatio” a fare o dare qualcosa “per stipulationem et fidem”. Nel contempo aveva un carattere di garanzia per il costante suo nesso con l’istituto della fideiussione. Il “guadians” soleva presentare dei “mediatores” o “fideiussores” che, come lui, rispondessero all’adempimento dell’obbligazione”. E. Besta, o.c., pp. 215 - 216.
(20)Di solito il giuramento era prestato singolarmente e in persona. In qualche caso - influenza longobarda - intervenivano gli “iuratores” ( o “sacramentales”), scelti tra i familiari della parte tenuta a giurare, da 4 a 12. Se quello, cui si deferiva il giuramento, si fosse rifiutato di prestarlo, decadeva senz’altro dalle ragioni a favore della parte avversa”. E. Besta, o.c., p. 177.
(21) E. Besta, o. c., p. 185.
(22) E. Besta, o. c., p. 195.
(23) E. Besta, o. c., p. 282.
(24) V. Sgarra, “Gli Statuti della città di Andria”, Trani 1892, § 5.

[da “Andria nel Medioevo”, di P.Barbangelo, tip Guglielmi, 1985, pp.126-138]