di Giuseppe Aurelio Lauria (1805-1879)
Molte e gravi difficoltà presentaronsi a Re Ferrante nello esordio del suo regno, a rimuover le quali sarebbe stata necessaria la sapienza politica d’un Tiberio. Ma con Tiberio niente altro avea Ferrante di comune tranne la nequizia dell’animo; non il coraggio al por mano ai grandi delitti, non lo spregio delle cospirazioni de’ libertini di larga cintura. Il simulare, il dissimulare, il destreggiarsi, l’ingannare, lo illudere eran le arti di Ferrante; ma se la pochezza d’animo de’ suoi nemici, o meglio se Fortuna non lo avesse ajutato, chi sarebbesi mai avvisato di vedere in lui un Tiberio? Fedifrago, vendicativo, traditore ei fu certamente; ma meschino nei mezzi, ma pauroso nel tentare, ma incapace di compiere le grandi scelleratezze. I Francesi lo chiamaron Tiberio, ma aggiunsero: au petit pied. A Tiberio davan pensiero, facevano ombra, ed incutevan terrore i principi, le dottrine, la potenza della memoria, l’efficacia degli esempî, la forza della ragione. Ferrante non vedeva che l’individuo, non temea se non la cospirazion materiale e presentanea, non preoccupavasi se non delle minacce del giorno, senza rimontare alle origini, senza abbracciar con la mente la vastità degli effetti. Ma vediamolo all’opra.
Papa Callisto, comunque fosse stato l’amico di Re Alfonso, e il precettore di Ferrante, non seppe restarsi, giunto alla tiara, dal ripetere le viete pontificali pretensioni sul reame di Napoli; epperò niegava la chiesta investitura, minacciando di congiungere la forza delle temporali armi alla efficacia spregiata di sue autorevoli parole.
Nel tempo medesimo Re Giovanni d’Aragona la illegittimità dei natali di Ferrante proclamava, tenendosi in diritto di raccorre la successione di Re Alfonso.
Veniva terzo nella contesa il duca Giovanni di Angioja, figliuol di Renato, e rinnovando le antiche pretensioni di sua casa, invocava a sostegno delle sue ragioni il testamento della regina Giovanna seconda.
Mal sofferenti i Baroni di soggiacere alla ingrata dominazione d’un bastardo, comunque da Alfonso riconosciuto, e giustamente timorosi della sua malvagia indole, di buona voglia, non stavano, e titubanti attendevano quel che portassero i tempi. Pel popolo poi, diritto di regal successione sussister non poteva ove noi sanzionasse una bolla Pontificale; né la propria forza più ignorava, dopoché Alfonso avealo riunito in Parlamento, e richiesto aveane l’assenso alla successione del figliuol suo.
Gravi, siccome dissi, ed ardue difficoltà eran coteste, e, a superarle, né pari era il consiglio, né bastevole la forza di Ferrante. Ma Fortuna che l’insolente suo giuoco ogni dì pertinace rinnova, e che quel viluppo di avversi casi erasi piaciuta di creare, seppe in un momento distrigarlo per far salvo il trono del secondo Aragonase. Pochi giorni eran trascorsi dall’audace rifiuto dell’ottagenario Papa Callisto, ed un quasi subito malore gli chiuse gli occhi alla vita. A lui successe Enea Silvio Piccolomini da Siena, che assunse il nome di Pio Secondo; e questi divenne in breve tanto amico a Ferrante per quanto eragli stato nemico il suo predecessore. Perloché lietamente accolse in Roma il Duca d’Andria Francesco del Balzo, cognato di Ferrante, ed il famoso giureconsulto Antonio d’Alessandro i quali in nome del Re eransi recati a fare omaggio al novo Pontefice. Ed indi a poco inviò in Napoli suo Legato il cardinale Latino Orsini con la bramata bolla d’investitura.
Fu sullo scorcio del Febbraio del 1459 che in Barletta, alla presenza di tutti i Baroni del regno, con grande solennità e magnifico apparato, e per mano del suo congiunto cardinale Orsini, venne Ferrante coronato ed acclamalo Re di Sicilia, Gerusalemme ed Ungheria.
Di Barletta tutta la regal corte, ed il suo seguito recaronsi in Andria, dove la Regina Isabella volle andare a far visita a Sancia sua sorella, moglie del Duca del Balzo; ma dopo soli due giorni di dimora colà, recaronsi tutti al Castello del Monte; dove per qualche settimana in lietissime feste si trattennero.
E del piacer grande che trovò Re Ferrante in quella deliziosa dimora, abbiam chiaro argomento dalla data di un Decreto relativo alla concessione di talune terre alla Chiesa di Canosa, già riccamente dotata da Roberto Guiscardo. Datum ex felicibus Castris montis propre Andriam, die XI Januarii, sextæ indictionis, an. 1459. [1]
E nel Castello dcl Monte fu anche in quel tempo, in presenza della Regal Corte, stabilito, e celebrato il matrimonio tra Pirro Del Balzo, figliuol primogenito del Duca Francesco, con sua cugina Maria Donata Orsino, figlia del Duca di Venosa; matrimonio che portò indi a poco nella casa del Balzo il ducato di Venosa, e la Contea della Cerra.
Oh sospendete le feste; i banchetti abbandonate; date bando ai giuochi, sciagurati ospiti del Castello del Monte. Corri Ferrante in Napoli a prepararti all’armi; correte alle vostre castella, grandi baroni della sua corte. E tu miseranda casa del Balzo sii desta, e sii forte avverso i colpi della cangiata fortuna, che di calamità senza numero ti fa grave minaccia.
Nove mesi appena da quelle feste son trascorsi, e tutto è cangiato in questa bella regione. Il devastar delle campagne, l’incendiar de’ villaggi, il tuonar delle colubrine, il grido delle armi, le minacce dei combattenti, un furore, un timore, una pietà senza termine, ecco lo spettacolo miserando in che si converse tanta gioia e tanta speranza.
Ma che? Son forse ritornati gli Ungheri nelle Puglie? o i soldati del Vitellesco vi hanno ancora loro stanza? — Oh ben altrimenti terribile è la guerra che qui si agita; perocché ella è guerra cittadina, anzi è guerra fratricida, guerra di sterminio e di desolazione.
Grande e possente, oltre ogni termine di ragion politica e feudale, erasi fatto nel regno il principe di Taranto Giannantonio Orsino; ché enorme era l’ambito del suo stato, ed in varie province avea baronali dominazioni con giurisdizione pressoché regale. Era Gran Contestabile del regno con provigione di 100000 ducati annui; ed era sì ricco di moneta, che alla sua morte furono rinvenuti meglio di due milioni di ducati. Una sua nipote era moglie del Re, un’altra era Duchessa d’Andria, era la terza Duchessa di Venosa e di Cerra, la quarta Marchesana di Ventimiglia.
Or poteva mai la sospettosa natura di Ferrante dormir sonni tranquilli, avendo al fianco un sì possente barone, la cui torbida, ed avventata indole eragli nota per pruova? E tranquillo e sicuro viver poteva l’Orsino sapendosi già caduto nei sospetti, e fatto scopo degli esploratori del suo principe; del quale ei reputavasi uguale se non superiore?
Ella era una condizion di fortuna, di relazioni, di umori tutt’affatto singolare ed anormale che sussistere e perdurar non poteva; epperò presto dissolveasi l’apparente dipendenza del suddito, e la forzata lealtà del barone svaniva alla prima occasione che se ne dava.
E poiché non mancan mai gli appicchi ai nemici per venirne alla suprema ragion delle armi, e giammai nel mondo fu penuria di risse, di tal cosa si fece ardito l’Orsino di richieder Ferrante, che per la esorbitanza, non fu possibile di contentargliene. Dal rifiuto ai lamenti, da questi agli oltraggi, e dagli oltraggi alle armi fu sempre breve e sicuro il trapasso; ed alle armi si venne.
Mandò dapprima il principe di Taranto ad invitare il Re d’Aragona perché sen venisse alla non ardua impresa del regno; sé e i suoi dicendo parati allo insorgere, ed ajutar la sua causa. Ma comunque forte il bramasse l’Aragonese, dovette per allora smetterne il pensiero, gravato com’era dalle guerre intestine, e forze non possedendo pari ai bisogni della conquista.
Miglior frutto fece il Tarantino col giovin duca d’Angioja, che allor trovavasi al malagevole governo di Genova, travagliata da cittadine contese, che la fecero passare, per volontaria dedizione, nel dominio del Re di Francia.
Venne adunque nel regno Giovanni con buon numero di galee e di soldati, ed ebbe immantinenti molte terre della Campania, ed un buon numero di baroni fedeli alla sua causa. Passò indi nelle Puglie, e fu accolto in Bari dal principe Orsino con regale magnificenza; ed estese le sue conquiste nella Capitanata e nel Barese.
Tra i baroni che il principe di Taranto invitò a collegarsi al Duca Giovanni fu tra’ primi il duca di Andria, e il figliuol suo Duca di Venosa; ma costoro rifuggirono dal mancare di fedeltà al loro Sovrano; e molte e buone ragioni anzi mandarono al principe loro zio e cognato, perché dalla sua inconsulta impresa si levasse; rammentando il miserevole fato di Giacomo Orsino, il quale per lo suo stolido insorgere contro Re Carlo di Durazzo, vi lasciò la vita, e distrusse la propria famiglia. In quanto a se, il duca aggiungeva, non poter mai venir tempo che bastasse, né ragion che valesse per prender le armi contro il proprio Sovrano, cui tanti vincoli di parentado congiungevanlo.
Defraudato l’Orsino nelle sue speranze, e forte temendo non volesse lo esempio del Duca trovare imitatori fra i tanti baroni che dalla costui casa rilevavano, si avvisò di astringervelo per la forza delle armi; epperò sen venne in Andria alla testa di poderoso esercito, dimandando per violenza quel che le imperiose parole non avean potuto conseguire. E poiché la imponenza della forza non valse a smuover l’animo o far vacillare la fede del Duca, diessi il Tarantino alla più spietata, e barbara devastazione delle feraci campagne di Andria, recidendo gli annosi oliveti, bruciando le belle vigne, facendo strazio degli innocenti contadini, che cominciavano appena a respirare dalle sterminatrici guerre, e dalle lunghe invasioni testé da essi patite.
Non veniva meno per queste immanità la costanza del duca, e la fede dei suoi vassalli; né si perdetter di animo allorquando, stretta la città da assedio, cominciaron le mura a sfasciarsi sotto i colpi delle colubrine, a spesseggiar le morti per fame e per sete, mancanti i viveri, ed esauste le cisterne; e sopravvenuti i morbi che seguon sempre gli assedi.
Nella sublime stanza del Castello del Monte albergava allora con la sua corte il Tarantino, e da quelle torri guardava senza pietà lo sterminio delle soggette terre, la distruzione de’ suburbani villaggi, la desolazione dei miseri villani. Ma pur forte cruccio l’animo gli premeva pensando siccome assai male esordisse la sua guerra all’Aragonese, se una sola città de’ suoi amici e congiunti tanto nobile ardimento e sì mirabile sforzo opponeva al suo primo muoversi per quella rischiosa impresa.
Alla pervicacia intanto della difesa cresceva la ostinatezza degli assedianti; e ad un capitano di bande, il qual commosso dai troppo noti patimenti della virtuosa duchessa Sancia di Chiaromonte, parlava sensi di umanità, e consigliava pace, fece il forsennato Orsino recidere il capo, che sur un’asta fu messo ad esempio e lezione d’ogni altro pietoso imitatore sull’alto di una torre del Castello.
Aggiravasi per le strade la buona duchessa dando parole di conforto ai travagliati cittadini, medicando con le sue mani le ferite, ed esortando i soldati a durare nella fede al loro signore.
Un lungo cunicolo fecero i Tarantini per penetrar nella città, ma se ne addiedero gli Andriani ed un altro anch’essi ne scavarono, per virtù del quale ebber prigioni tutti que’ loro nemici, che in quella sotterranea fazione eransi arrischiati — Una palla di colubrina, passando per quella parte delle mura ch’era stata abbattuta, uccise il cavallo del duca, e fè questi stramazzar per terra, ma ne uscì incolume comunque già fosse corsa al Castello del Monte la fallace voce che vi avesse rimasta la vita.
Questi ed altri molti interessanti particolari di quel lungo assedio narran le storie del Pontano e del Costanzo, [2] e bene può vedersi a quale estremo di miserie fossero giunti gli Andriani dal commovente spettacolo che presentava indi a poco la processione de’ Sacerdoti con le corde al collo, e col capo coperto di cenere preceduti dal vescovo Frate Antonio Gionnotti, che recaronsi nella tenda del Principe, accorso dal Castello del Monte per goder di sua vittoria, pregando pace, implorando misericordia, invocando pietà per la ducal famiglia, e pei poveri cittadini.
Or, sia che dalle parole del buon prelato, come cel narra la cronaca, si fosse lasciato trarre il Tarantino a sensi di umanità; sia che fosse stato bastevole al suo orgoglio lo avere addotto l’ostinato suo nipote a quella miserevole condizione di fortuna; sia che infine impazienza il pungesse d’andarsi a misurare in Napoli col suo nemico Ferrante, certo è che levò immantinenti il campo da Andria, e se ne andò ad assaltar Minervino, dove erasi rifuggita la moglie di Pirro Del Balzo, Maria Donata Orsino, anch’essa sua nipote. Ebbe senza contrasto la terra, che alle difese preparata non era; ma ferma resistenza incontrò nella espugnazione del Castello, dove erasi ritirata la duchessa: la quale, benché sovrappresa dai dolori del parto, ed indi dalle infermità del puerperio, strenuamente provvedeva alla difesa della rocca. Di elogi, di lusinghe, di carezze l’astuto suo zio le fu prodigo per messaggieri che le recavano i suoi doni, finché l’ebbe persuasa a mettersi nelle sue mani; e di infamia poi si cuoprì, e la cavalleresca sua insegna macchiò d’incancellabile ignominia, allorquando, ceduto sulla fede delle sue promesse il castello, mandò prigioniera la mal confidente e mal cauta sua nipote nella rocca di Spinazzola.
Presso Napoli si congiunsero alle soldatesche dell’Angioino le truppe del principe di Taranto, di quel di Rossano, di tutti i Baroni che s’eran levati in armi contro Ferrante e la tremenda battaglia di Sarno che fu sì fatale all’Aragonese, lo costrinse ad allontanarsi; fuggendo dal campo con soli venti cavalli per andarsi a rinchiudere fra le amiche mura di Napoli.
Tutte dopo quella battaglia eran cadute le speranze di Ferrante; ché quasi intero il regno soggiaceva alla dominazione del duca d’Angioja, bravo nelle armi, sapiente nei consigli, di animo generoso, di cuore umano e benigno, degno per ogni verso de1 trono, se la Fortuna non avesse, come sempre, favorito il peggiore.
Ma pure, allorquando eran venute meno le speranze che dà la forza, subentrò la potenza della parola, l’efficacia delle lagrime, l’influenza della pietà. Imperocché la buona Regina Isabella, andatasene, travestita da frate zoccolante, nella tenda dell’iracondo suo zio, tanto pianse e pregò, e tante volte gli ripetette che, «avendola egli fatta regina, la facesse pur morire da regina» che costui le dette buon animo, e la confortò ad attender dal tempo ragion di salute. Indi con capziosi consigli, ed industri artifizi persuase il duca e i baroni a levar da Napoli il campo e ritornar con l’esercito nello Puglie; dando per tal modo tempo e opportunità a Ferrante di ristorar sue perdite, e munirsi di efficaci ajuti.
Due nobili e generose figure sorgono allora tra gli scomposti flutti di quella politica tempesta, che il nostro regno agitava, e solerti e operosi si pongono all’opera di sedar le esaltate passioni, di ricondurre la pace, di menare a concordia le belligeranti provincie, il cardinal Roverella, il principe Castriota Scanderberg. E costoro tanto ben dissero e fecero, così opportunamente mescolarono alle preghiere le minacce, e tanto evidentemente mostrarono i danni della protrazione della guerra, e i benefizi del ritorno della pace, che in pochi mesi tutti i baroni fecero atto di sommissione a Ferrante; e il buon Giovanni d’Angioja ritornò in Provenza, sincero lutto e fervente desiderio di sé lasciando nel popolo e nei signori Napolitani.
Ma oh come abusò della vittoria il vendicativo Ferrante! Il principe di Taranto fu, di suo ordine, barbaramente strangolato in Altamura; quel di Rossano fu preso a tradimento; e, messo senza sproni sur un mulo, fu menato prigione in Castelnuovo; ed a molti baroni fu tolta a chi la vita, a chi la libertà, a chi lo stato. — Oh non avea egli ragione il buon vecchio di Papa Callisto nello asseverare che di re Alfonso non fosse Ferrante né legittima, né naturale progenie? Bene conosco che taluno c’è stato, il quale nelle crudeltà Tiberiane di Ferrante si è piaciuto di scorgere il provvido consiglio di abbassar la superbia dei baroni, mettendoli quasi a livello del popolo, e volendo la civile eguaglianza di tutti innanzi la legge, cioè innanzi al voler suo. Ma a me sempre parve che la sola brama della dominazione, e il timore di perderla lo fecero sospettoso, crudele, vendicativo; e se per qualche mal fatto della sua vita ei può somigliarsi all’undecimo Luigi di Francia, ed al Richelieu, di costoro non ebbe al certo né lo scopo, né i mezzi, né la potenza dello ingegno, né la costanza ad operar per male quel ch’essi forse credettero un bene.
[Tratto da: Giuseppe Aurelio Lauria, “Il Castello del Monte, in Terra di Bari - Studi e Pensieri ”, Tip. Raffaele Avallone, Napoli, 1861, pp. 102-114]
NOTE
[1] Il Merra, nel suo studio "Castel del Monte presso Andria", fa presente che il termine "Montis" non è presente nel documento originale, pertanto la lettera si intende inviata dagli accampamenti (castris) presso Andria, e non da Castel del Monte.
[2]
- “De Bello Neapolitano”
di Giovanni Pontano, edito a cura di P. Summonte, ex officina Sigismundi Mayr, Neapoli, maggio 1509, Libro IV, fasc. Eii verso – Eiiii recto.
- “Historia del Regno di Napoli”, di Angelo di Costanzo, nell’Aquila, appresso Gioseppe Cacchio, MDLXXXII., pagg. 460-462.