Perché la Storia non riesca una congiura contro la verità, deve essere studiata nelle sue vere fonti,
nei documenti, ha detto l’immortale Leone XIII. Un filosofo non ha molto gridava dalla Sprea:
Non osate parlare di storia, senza prima rivolgervi ai documenti, come non deve fabbricarsi senza materiali,
se non volete ad ogni parola avere una mentita, e dar d’inciampo ad ogni passo. E questo ho inteso far io
nel pubblicare queste due pagine di storia patria. Avendo ritrovato fra le carte dell’Archivio Episcopale
ed in quello della nostra Chiesa Cattedrale alcuni documenti, riguardanti la distruzione del Trono baronale,
avvenuta nel 1691, e del Coretto nel 1848;
ho voluto narrare a voi, o miei cari concittadini, i fatti genuini così come avvennero allora, correggendo
in tal modo alquante inesattezze dei nostri benemeriti storici. Se con ciò abbia io fatto bene o male,
a coi il giudizio. Vivete felici.
Andria, il 25 Marzo 1892.
Can. E. MERRA
I Baroni furono i famosi tirannotti delle città feudali. Chiusi nei loro turriti castelli, simboli della potenza solitaria ed indipendente, resi inaccessibili da fosse ed antemurali, da palizzate e controforti, da ponti levatoi e balestriere, da sara-cinesche e trabocchetti; non lasciarono giammai cosa alcuna sacra o profana, di cui non avessero prepotentemente usato ed abusato! Sicché la storia del Feudalismo potrebbe a ragione appellarsi la storia dei soprusi, delle vendette, delle tirannie e delle usurpazioni baronali.
Andria, antica città feudale, sentì di tratto in tratto più o meno pesante il giogo dei burberi, sospettosi e trapotenti suoi signorotti, e lo sopportò quasi sempre in pace. Ma quando si vide da questi offesa nel suo sentimento religioso; allora si ricordò dell’indole sua guerresca, e, come all’unico mezzo, ricorse alla insurrezione.
Ad imitazione di tutti i Baroni del Regno, quelli di Andria, per ostentazione di aristocrazia feudale e di altissimo dominio, arbitrariamente e prepotentemente alzarono nel Presbiterio della Cattedrale, rimpetto all’umile Trono del Vescovo [1], il loro splendido Trono, sul quale si assisero con fasto, dopo ripetute e sacrileghe usurpazioni, dopo di avere più volte osato preoccupare la Cattedra Episcopale!
Narro alcune di queste sacrileghe usurpazioni, senza idee preconcette, senza spirito di parte, senza odio contro l’illustre casa Carafa, in cui un dì fiorirono ben molti personaggi rispettabilissimi per virtù civili e religiose, benemeriti egualmente della Chiesa e dello Stato, ed oggi fiorisce l’egregio scrittore Riccardo Carafa, Duca d’Andria; ma solo per dovere di storico, che «non deve osare dir nulla di falso, né tacere nulla di vero, e che nello scrivere niun sospetto dar deve di favore, niuno di odio» [2].
Era una mattina di quaresima dell’anno 1557, allorché furono visti fastosamente portarsi nella nostra Cattedrale, per ascoltare la predica, D. Antonio III Carafa, II Duca di Andria e V Conte di Ruvo, ed il Principe Francesco, suo zio. Giusta l’usanza stavano preparate, rimpetto al pergamo, tre sedie, delle quali la prima servir dovea pel Vescovo, la seconda pel Duca, la terza pel Principe. Questi, appena giunto in Chiesa, occupò la prima sedia, il Duca la seconda, e l’ultima fu lasciata al Vescovo. Monsignor D. Giovanni Francesco Fieschi, in allora Vescovo di Andria, accortosi di questa mancanza di rispetto fatta alla sua dignità, mandò il P. Alessandro de Tuccio, maestro di Cerimonie, a dire al Principe, che avesse ceduta la prima sedia al Vescovo, e si fosse contentato di occupare l’ultima. A tale proposta, il Principe divampare di sdegno, mettere mano al pugnale, brandirlo, ed avventarsi contro il Cerimoniere, fu tutt’uno! E l’avrebbe mortalmente ferito, se la Contessa di Ruvo, Porzia Carafa, non fosse corsa sollecita a frapporsi angelo di pace, e non l’avesse immediatamente fatto uscire dalla Chiesa! Da quel giorno Monsignore non più fu visto ascoltare la predica, seduto accanto al Duca; ma nel Coro, sopra una sedia, ornata di piviale.
Nel 1598, venuto in Andria Monsignor D. Vincenzo Basso, fu solito assistere alla predica, seduto sopra una sedia, elevata ed adorna egualmente di piviale, di panni, e di cuscini, con sopra il Baldacchino; mentre D. Antonio IV Carafa, IV Duca di Andria, e VII Conte di Ruvo, sedeva più basso a destra del Vescovo. La buona e santa Duchessa, Maria Carafa, che troppo bene sapeva l’indole trapotente e vendicativa del figlio, non per mancanza di rispetto alla dignità Episcopale, ma solo per evitare maggiori inconvenienti, stando in Chiesa mandò un suo servo a pregare Monsignore, perché si fosse degnato di scendere a sedere sull’istessa predella, ove stava seduto il Duca. Ma il Vescovo le fe’ dire che a lui non conveniva mettersi alla riga di suo figlio, ma star doveva in quel posto più elevato, perché più conveniente alla dignità Episcopale [3].
Di qui le ire, di qui i soprusi, di qui le sacrileghe usurpazioni, di qui le persecuzioni, con cui questo Duca, specie per la sedia, o Trono baronale, tribolò per ben diciotto anni Monsignor D. Antonio Franco Vescovo di Andria, così da potersi costui a ragione chiamare il martire delle prepotenze ducali!
Infatti il Franco nel 1605, volendo abbellire la Cattedrale, fece traslatare dietro l’altare maggiore il Coro da mezzo alla navata, ove, secondo il primitivo costume delle antiche cattedrali, era posto. Per la qual cosa situò il pergamo nella parte dell’Epistola, e la sua sedia pontificale nella parte dell’Evangelo. A lato del suo trono collocò una predella con la sedia per il serenissimo Duca; e mentre prima questa sedia si sollevava un terzo di palmo dal pavimento, la fece innalzare circa due palmi, da differire poco dall’altezza del Trono Vescovile. Così in quell’anno il Duca ed il Vescovo pacificamente ascoltarono le prediche dell’Avvento. Senonché il Duca, giovane qual era, d’animo irrequieto e prepotente, pretese che il Vescovo non dal Trono, ma da una sedia privata, posta sull’istessa predella, preparata per lui, avesse dovuto in avvenire ascoltare la predica. Questa proposta a nome del Duca fu fatta a Monsignore dal Dottor Fa-brizio Quarti, allegando per ragione che così avevano praticato tutti gli altri Vescovi di Andria, da Monsignor Fieschi in su. Il Prelato con miti parole fe’ notare al Quarti essere ciò contrario al nuovo Cerimoniale, il quale prescrivendo che il Vescovo, dopo la predica, dovesse benedire il popolo; dovea per ciò star seduto sul suo Trono, in mezzo a due Canonici. Intanto perché il desiderio ardente dell’animo suo era di contentare il signor Duca, proponeagli di domandare alla Sacra Congregazione dei Riti o la dispensa, o il consenso di quanto egli pretendeva. Il Duca accettò tale proposta; ma volle che fino a quando detto permesso non ottenesse, il Vescovo mettesse in esecuzione il progetto baronale. Monsignor Franco sebbene a malincuore, pure per impedire litigi e delitti, accondiscese.
Era il giorno 17 gennaio del 1606, e nella Chiesa di S. Francesco dei Minori Conventuali si celebrava solennemente la festa di S. Antonio Abate, con l’Orazione panegirica. Il Vescovo, secondo l’accordo preso col Duca, essendo stato invitato, fece preparare di rimpetto al pergamo una predella con tre sedie, la prima per sè, la seconda pel Duca e la terza pel signor Francesco Pignatelli, Marchese di Spinazzola, e marito di D. Porzia Carafa, figlia di Fabrizio II, Duca d’Andria. I Baroni essendo giunti in Chiesa, prima che il Vescovo avesse finita la messa pontificale, prepotentemente occuparono le prime due sedie, serbando l’ultima al Vescovo. Il quale accortosi del fatto, per evitare brighe, quel giorno si restò a sentir la predica dall’altare maggiore. Frattanto ripetute e vivissime istanze furono fatte unitamente dal Duca e dal Vescovo alla Congregazione dei Riti per ottenere tale dispensa o tale consenso a favore del Barone di Andria; ma Roma tenne duro. Perlochè il Duca fieramente sdegnato, cominciò a vessare ogni dì più il povero Vescovo con ogni maniera di insulti e di minaccie pubbliche e private, tenendo appostata nelle camere contigue alla Chiesa del Salvatore, in Trimoggia, persino una compagnia di Briganti, i quali, incredibile a dire, ma pur troppo vero, dovevano un bel giorno catturare o togliere la vita al Franco!
S’avvicinava intanto la Quaresima, ed il Vescovo, che era tanto buono, incontratosi fuori di città col Duca, entrò in discorso sulla malaugurata vertenza, e questi volle che il Franco si fosse contentato di far preparare la predella con tre sedie, come si era praticato in S. Francesco, ove unicamente per sbaglio, diceva egli, aveva col marchese occupato le prime sedie. Il Vescovo, protestandosi che, se dalla S. Congregazione fosse deciso contrariamente, si dovesse mutare quell’ordine, fece il volere del Duca. A prevenire però qualunque altro sbaglio, ordinò al maestro di Cerimonie, che stesse a guardia delle tre sedie, e venendo il Duca ed il Marchese, avesse loro data la seconda e la terza sedia, sulle quali aveva fatto mettere dei cuscini di velluto turchino. Giunta l’ora della predica, il Vescovo nel portarsi a sedere, s’incontrò nella navata di mezzo coi signori Baroni, e prendendoli cortesemente l’uno per la destra e l’altro per la sinistra, andarono al loro posto, occupando egli la prima sedia, ornata di un cuscino violetto, la seconda il Duca, la terza il Marchese. Terminata la predica, il Vescovo ritornò al suo Palazzo; ma ecco il solito Dottor Quarti presentarsi al Franco, ed in nome del Duca dirgli, come questi quella mattina fosse rimasto molto disgustato per tre ragioni. Primieramente perché egli avea fatto mettere il cuscino pavonazzo innanzi alla sua sedia: secondariamente perché nell’incontrarsi nella navata si era posto in mezzo: in terzo luogo perché nel sedersi aveva preso da sè la prima sedia; mentre doveva il serenissimo Duca, quale padrone di quel luogo, onorare egli il Vescovo con dargli, come a forestiero, la prima sedia. Conchiudeva quindi il Quarti la sua ambasciata con dire al Franco che, se con le buone non si risolveva a lasciar libero per il signor Duca quel luogo, e lui sentir la predica dall’altare maggiore, sarebbe stato trattato dal Barone come suo mortale nemico! E non disse il falso. Il Franco imperterrito non si piegò alle pretese del Carafa, e questi non si stancò di travagliarlo in mille guise con liti e con querele, con ingiurie e con sarcasmi, e persino con attentati alla vita!
Laonde nel 1607, essendo stato mandato in Andria dal S. Padre l’Arcivescovo di Bari, Decio Caracciolo, per comporre le diuturne vertenze, che ogni giorno più si accentuavano tra il Duca ed il Vescovo, quegli cercò pure di pacificarlo circa la questione del dove dovessero sedere, per ascoltare la predica. Il Vescovo, che ornai stanco di tanti litigi, ardentemente desiderava la pace, ad istanza dell’Arcivescovo, accondiscese alle pretensioni del Duca, e la pace fu fatta. Ma il Barone al solito mancò alle sue promesse. Invece di far fare un solo gradino al palco, su cui dovea mettersi la sua sedia, ne fece fare tre: invece di farlo capace d’una sola sedia, lo fece capace di sei: invece di mettervi il solo cuscino, vi fece ancora porre innanzi un genuflessorio amovibile, ornato d’un tappeto all’usanza reale: vi fece lasciare la spalliera di legno con la copertura di sopra, e lo fece parare a modo di Baldacchino [4].
[1] Nel 1697, in tempo di Monsignor Ariani, il Trono pontificale aveva per unico ornamento una spalliera di teletta gialla di Portanova, e la sedia vestita di broccatello di Venezia, e tutta lacera! — Istoria e Relazione Mss. di diversi fatti accaduti nelli governi delli seguenti Vescovi d’Andria, Egizio, Vecchj, Triveri, et Ariani. — (Archivio Capitolare).
[2] LEONE XIII, Lettera ai Cardinali De Luca , Pitra ecc.
[3] Relazione Mss. della persecuzione patita da Mons. Antonio Franco, Vescovo di Andria in quella sua chiesa, dalli 25 di novembre 1603 che fu eletto Vescovo per tutto il 16 ottobre 1608. (Archivio della Cattedrale).
[4] Relazione della persecuzione ecc.
Con siffatte sacrileghe usurpazioni il Barone di Andria prepotentemente rizzava stabile il suo Trono sul Presbitero, rimpetto a quello del Vescovo. Né vale il dire che l’uso del Trono sia stato concesso ai Baroni dai Re o dal Papa, perché se i Baroni del Regno ebbero dai Re varii privilegi; se furono riputati come loro consiglieri a latere; se godettero la preminenza di parlare al Vice-Re colla testa coverta, e di sedere nei Tribunali, e nel Consiglio Collaterale, presente il medesimo Sovrano [5]; se dagli Angioini e dagli Aragonesi ebbero il mero e misto impero [6]; se ebbero il privilegio di mettere nei loro Feudi le proprie insegne baronali, vicino a quelle del Sovrano, e di fregiarne la parte superiore colla corona reale; se ebbero l’uso del Baldacchino in casa [7]; giammai ebbero il privilegio del Trono in Chiesa.
Nelle Cattedrali di Andria, di Bitetto, di Conversano, di Giovinazzo, di Gravina, di Minervino, di Polignano e Ruvo, i Baroni innalzarono i loro Troni nella parte dell’Epistola, rimpetto al Trono Vescovile con maggior fasto ed ornamento di quello; ma ciò fu per usurpazione [8]. I Re giammai avrebbero permesso che i Baroni si fossero posti al loro livello, con erigere il Trono nelle Cattedrali. Molto meno lo avrebbe permesso Roma, che proibì sempre l’uso dei Baldacchini ai Baroni nelle Chiese, riserbandolo ai soli sovrani. Epperò se troviamo una tale concessione in favore dei Duchi di Milano, di Modena, di Reggio, di Parma, di Siena, di Ferrara e di Urbino; si è perché quelli, sebbene Feudatarii del Papa o dell’Imperatore, pure avendo il diritto di far leggi, di battere moneta, e d’imporre tributi; avevano l’altissimo dominio, venivano considerati come sovrani, e conseguentemente avevano il privilegio del Trono in Chiesa. Ma questa ragione non valeva pei Feudatarii e Baroni del Regno di Napoli; mentre l’istesso regno essendo un feudo della S. Sede, ed il Re un feudatario, i Baroni dovevano chiamarsi piuttosto suffeudatarii e suvvassalli. Quindi la dignità di Principe, di Duca, di Marchese e di Conte, che loro si dava, era una dignità impropria, una dignità abusiva; perché essi non avevano che l’immagine, non avevano che la figura della dignità principesca. Laonde al Baronaggio Napoletano non poteva spettare la chiesastica onorificenza del Trono, e dai Re non fu data loro giammai [9]. Ma perché i Duchi ed i Conti erano gli emuli della maestà regia, cosi usurparono per sé alcuni onori, che vedevano concedersi dalla Chiesa ai Re; e quegli onori a poco a poco passarono pure ai minori feudatarii, avida com’è la natura umana di onori [10]. Il Trono baronale in Chiesa fu adunque una sacrilega usurpazione, e non un privilegio, non una concessione.
Non mi pare adunque possa accettarsi l’opinione dei benemeriti nostri Storici, Pastore e D’Urso, i quali asseriscono che Beatrice d’Angiò, perché nel suo primo matrimonio con Azzo VIII d’Este visse in Ferrara da sovrana, essendo poi passata in seconde nozze con Bertrando del Balzo, Conte di Andria, abbia ricevuto da Carlo II suo padre, il privilegio di ergere nella Cattedrale il Trono, sopra del quale tanto i Baroni, quanto i signori della loro famiglia assistevano alla celebrazione dei sacri misteri [11]. Ed invero se i Baroni di Andria sin dal tempo di Beatrice d’Angiò, cioè dal 1308, avessero avuto il privilegio del Trono; perché il Duca Antonio Carafa, con dispiacere di Monsignor Franco, dovea innalzare in Chiesa una predella con tre gradini, e farla costruire così larga da esser capace non della sola sedia ducale, ma di altre sei ancora, e sopra di quella sedia farvi spiegare il Baldacchino? Se il Baldacchino, o Trono, come si asserisce, già lo teneva, a che questo secondo? E se aveva l’uso del Trono, perché non poteva avere l’uso d’una sedia distinta? Quindi io son di credere essere falso che gli Angioini abbiano concesso il privilegio del Trono ai Baroni d’Andria, e che queste prime avvisaglie di usurpazioni sacrileghe fossero state, come altrettanti gradini, per salire al Trono, che il Duca d’Andria dovette innalzare probabilmente nell’interregno corso dalla morte di Monsignor D. Antonio Franco, nel 1626, alla elezione del novello Vescovo D. Vincenzo Caputo di Ruvo, avvenuta nell’istesso anno. E questi, non perché suddito dei Carafa Conti di Ruvo; ma forse per evitare che la città di Andria fosse più lungamente spettatrice di altri scandali, dovette con rincrescimento cedere ai prepotenti arbitrii baronali.
Carlo Lojodice, parlando dell’Interdetto fulminato contro le Chiese di Ruvo nel 1690, a causa del Trono baronale, dice: «Abusivamente verso l’anno 1670 pare che il Duca d’Andria e Conte di Ruvo, Fabrizio Carafa, avesse fatto ergere nella Chiesa Cattedrale di Ruvo di Puglia, come pure in quella di Andria, un Trono con baldacchino ornato di serici drappi sul presbitero rimpetto a quello del Vescovo» [12]. La quale sua opinione pare si fondi sulla risposta fatta dal Vescovo di Ruvo al Viceré, a cui esponendo la storia dei fatti, relativi all’Interdetto, che egli aveva fulminato contro la Chiesa di Ruvo, a causa del Trono baronale, facea risaltare che quel Trono non lo possedessero i Carafa da tempo immemorabile, come asseriva la Duchessa d’Andria, Margherita di Sangro, ma che fosse stato eretto dal Duca Fabrizio venti anni addietro, non si sa come, cioè per prepotenza, e per usurpazione!
In tempo delle sacre funzioni pertanto, e massime quando il Vescovo pontificava solennemente, il Barone, coronato dai suoi eleganti ministri, e dalla splendida sua corte, - in abiti sfarzosi, sedeva boriosamente sul suo Trono, luciccante d’oro, ed ornato di pellegrine stoffe e preziosissime. La Sacra Congregazione dei Riti, che ai 5 marzo 1619 aveva recisamente negato al Barone di Andria l’indulto di aprire una finestra di prospetto dal suo Palazzo Ducale nella Chiesa Cattedrale [13]; più e più volte ingiunse severamente ai Vescovi di far rimuovere dalle loro Chiese i Troni Baronali. Così con i decreti del 5 marzo 1667 a Bari ed a Mileto; del 17 giugno 1684 a Marsico e Polignano; del 2 ottobre 1683, e del 23 settembre 1684 a Bitetto, proibì l’uso del Baldacchino. Negò pure ai Baroni l’assistenza sul Presbitero, specialmente coi decreti emanati il 24 gennaio 1665 per Matera; il 15 giugno 1665 per Melfi, ed il 20 novembre 1677, e 22 febbraio 1685 per Bari [14]. Ma inutilmente! I Baroni di gran parte delle città del Reame, come quelli di Andria, non si curarono punto di obbedire.
Le insolenze baronali crescevano intanto, e la Congregazione dei Riti, il 13 marzo 1688, pubblicava un altro decreto, col quale, rinnovando tutti gli altri già emanati, proibiva a qualsivoglia secolare fosse Barone o Preside, l’uso del Trono, l’assistenza sul Presbitero, ed il bacio del Vangelo, e ciò in tutte le Chiese; e non volendosi ottemperare a tale decreto, autorizzava i Vescovi a ricorrere alla pena dell’Interdetto [15]. Tale decreto fu da Roma inviato a Monsignor D. Alessandro Egizio, in allora Vescovo di Andria, perché lo mettesse subito in esecuzione; ma dall’Egizio, forse per l’età sua avanzata, essendo vissuto novantacinque anni, o più certamente per le prepotenze baronali, il Decreto non venne eseguito, ed il Trono ducale continuò a restare in Chiesa!
[5] Relazione della persecuzione ecc.
[6] [Marci Antonii SURGENTIS] SURGENTE, De Neapoli illustrata [liber unicus][, Neapoli, apud N. Nasum Typographum,1727], C. 23., pagg. 258-308.
[7] TASSONE, De Antefato, Vers. III.
[8] SURGENTE, De Neapoli illustrata, C. 23.
[9] DE Luca, De Praemin., lib. 3, part. 2, Disc. 26, n. 21.
[10] DE ROYE, De jur. honor., lib. 1, cap. 1, pag. 3.
[11] PASTORE, Storia mss. di Andria, part. II, cap. I. — D’URSO, Storia d’Andria, lib. V, cap. III.
[12] Due anni e mezzo d’Interdetto Ecclesiastico per la città e territorio di Ruvo (Rassegna Pugliese, volume VIII, n. 7-8 maggio 1891, pagg. 117-123).
[13] Nemo potest habere fenestram per quam prospectus … habeatur in Ecclesiam, sine indulto Apostolico, ut pluries dectaravit S. Cong. Episcop. et Reg. et signanter in Casertana 8 Junii 1646. Quod indultum saepe petentibus denegatur, ut in Andrien, et Talesina, 5 Martii 1619. — Non si concede nè anche ai Duchi, ed ai Marchesi di aprir finestre, che rispondano in Chiesa per ascoltare da quelle la messa ed i divini Officii. S. Cong. 5 Martii 1619. FERRARIS, tomo III.
[14]
[F. Lucii] FERRARIS, [Prompta] Bibliotheca [Canonica, Juridica, Moralis, Theologica ...] , Venetiis, apud G. Storti, 1772, art. V, tomo III. [pag.30 e seg.]
[Scrive il Ferraris "Immo ne quidem Ducibus, & Marchionibus id permitti posse declaravit
eadem Sacra Congregatio 5. Martii 1619. his verbis:
«Non si concede nè anche a' Duchi, ed a' Marchesi di aprire finestre, che rispondano in Chiesa
per ascoltare da quelle la Messa, ed i divini Officij»; neque quoad portas, idque etiamsi extaret
longa consuetudo, & essent patroni, ut in una (Sacra Congregatio Episcoporum) Faventina 15. Februar. 1619. ...
Affertur decretum generale Sacr. Rit. Congregationis prohibens Laicis osculum Evangeliorum intra Missam,
usum Baldachini in Ecclesiis, & assistentiam in Praesbiteriis ...
mandarunt ut praedicta decreta prohibentia ... renoventur, & copiae illorum trasmittantur Archiepiscopis,
& Episcopis, eisdem injungendo, ut illa intimari faciant Superioribus Ecclsiarum suae Dioecesis
tam saecularibus, quam Regularibus, & in casu transgressionis, procedant etiam ... ad poenam interdicti.
Et ita decreverunt &c."]
[15] FERRARIS, Bibl. Eccl., art. V, tomo III.
Nell’aprile dell’anno 1689 Monsignor Egizio scendeva nel sepolcro, ed il 6 marzo 1690, veniva a prendere possesso della Sede Andriese il novello Vescovo D. Pietro Oliviero Vecchia, Veneziano, educato in Roma nel Collegio Nazareno, indi monaco Cassinese, ed Abate di S.a Giustina di Padova. La S. Congregazione, con decreto dei 22 aprile 1690, rinnovò premurosamente a questo giovane Prelato le prescrizioni circa il Trono baronale nella sua Chiesa Cattedrale, ingiungendogli, che dovesse farlo togliere del tutto, da non restarne neppure la memoria; e che se il Duca fosse stato restio all’adempimento di tali ordini, ricorresse senz’altro alla pena dell’Interdetto [16]. Il Vecchia, zelante com’era dell’onore del tempio, ed ossequente ai decreti della Congregazione dei Riti, non tardò a far sentire al Barone la sua voce ed a mettere in esecuzione gli ordini della S. Sede.
Era il giorno di Pentecoste, e Monsignore pontificava solennemente nella Cattedrale; quando il Serenissimo Duchino di Andria, D. Fabrizio di Casa Carafa, che allora contava undici anni appena, venne ad assistere al pontificale, sedendosi ad imitazione dei suoi antenati, sul suo Trono, con fasto non ordinario, e coronato da un numero di ministri della sua corte, eguale a quello del Vescovo. Il Prelato fremè a tal vista, e passati alquanti giorni, mandò un suo ambasciatore a ricordare gentilmente alla Duchessa madre, D. Margherita di Sangro, gli ordini della S. Sede, ed a pregare tutta la Corte, perché volesse rimuovere dalla Cattedrale il Trono Baronale; mentre un tal costume era ritenuto da Roma come un abuso, che ad ogni costo non doveasi da vantaggio tollerare. Furono parole gettate al vento! Allora il Vescovo con ordini severissimi intimò ai Carafa la remozione del Trono, minacciando loro le censure ecclesiastiche. Ma la famiglia Ducale e la sua Corte risposero con non curanza e con cinica indifferenza! Senonché ecco da Roma venire nuovi ordini e più pressanti a Monsignor Vecchia, a Monsignor Fortunato Vescovo di Nardò, a Monsignor Alitto Vescovo di Ruvo [17], ed a Monsignor Brancaccio Vescovo di Conversano, perché solamente in queste altre quattro città del Regno erano rimasti ancora in piedi i Troni Baronali. Fu allora che Monsignor D. Pietro Oliviero Vecchia si vide costretto, suo malgrado, a metter mano all’arme della Censura [18].
[17] Mons. Giov. Donato Giannone Alitto il 14 luglio 1690 interdiceva per il Trono baronale la Cattedrale ed il 4 novembre tutte le altre Chiese di Ruvo e suo territorio, Interdetto che durò due anni e mezzo. C. LOJODICE, Rassegna Pugl., Vol. VIII, N. 7, 8, maggio 1891.
[18] Istoria e Relazione di diversi fatti accaduti nelli governi delli seguenti Vescovi d’Andria, Egizio, Vecchi, Triveri et Ariani (Archivio della Catt.). Questa storia fu scritta ai tempi di Mons. Ariani, che fu Vescovo di Andria dal 1697 al 1706.
Era il primo decembre del 1690, ed il Vescovo di Andria quale Visitatore, per autorità propria, per delegazione della Sacra Congregazione dei Riti, e per speciale mandato del Sommo Pontefice Alessandro VIII, sottometteva all’Interdetto la Cattedrale e tutte le Chiese e le Cappelle e gli Oratorii sia dei secolari come dei Regolari, anche esenti, di questa città e diocesi. Il motivo di tale pena, diceva nell’Editto, era perché più e più volte avendo egli ammoniti e citati i magnifici D. Francesco Ceri, Governatore di Andria, e D. Francesco Mele, Erario, ministri principali della Illustrissima ed Eccellentissima Signora D. Margherita di Sangro, Duchessa d’Andria, a far rimuovere il Trono Baronale coi gradini e con le insegne ducali dalla Chiesa Cattedrale, non si erano punti curati di farlo nel tempo loro assegnato. Laonde per tale contumacia egli comandava al Cancelliere della Curia Vescovile, l’Abate Toullis, di far affiggere nei luoghi pubblici di Andria i Cedeloni da lui firmati, affinché a tutti fosse noto l’Interdetto. In pari tempo minacciava la scomunica, riservata al Papa, da incorrersi issofatto da chiunque avesse avuto l’ardimento di toglierli o lacerarli, o avesse prestato aiuto, o avesse permesso di ciò fare [19]. Quindi il Vescovo datone avviso al Clero, e convocato il popolo nella Cattedrale, tenne un dotto e sentito discorso di circostanza. In mezzo ad uno scoppio universale di pianto prese il Santissimo Sacramento, e processionalmente lo portò nella Chiesa di Santa Maria Mater gratiae, luogo assegnato ai preti della Cattedrale per l’adempimento privato degli ufficii divini, mentre al Clero di S. Nicola fu destinata la Chiesetta di S. Chiara. Dopo ciò un senso di ineffabile tristezza impossessossi di tutti!
Chi avesse veduto Andria, colpita dall’Interdetto, avrebbe creduto di vedere in quei giorni una città in preda alla più grande desolazione che mai. Non più i giorni si distinguevano in feriali e festivi: non più il popolo poteva correre al pietoso conforto dei Sacramenti! Le case di Dio torreggiavano tra i minori edificii, ma sembravano cadaveri in cui fosse spenta la vita: denudati erano gli altari né cereo o lampada alcuna ardeva nelle deserte navate, o innanzi alle immagini venerande dei Santi! I sacerdoti offrivano il santo sacrificio, ma in due sole Chiese ed a porte chiuse: la voce dei cantori era muta: l’organo taceva: né l’aria più fremeva allo squillo armonioso delle campane! Sul capo del neonato si versava l’onda battesimale, ma di nascosto: si benedicevano le nozze, ma senza solennità: si portava il Viatico ai morenti, ma nel cuor della notte e silenziosamente! Si seppellivano i morti, ma senza onore di esequie, senza funebri deprecazioni, né in luogo sacro, ma fuori la città, in certe grotte, che vaneg-giavano nelle vicinanze della Cripta di S. Croce e del Convento del Carmine! Dappertutto dominava un terrore così grande da farti agghiacciare il sangue nelle vene!
Improvviso, come fulmine a ciel sereno, giunse nella deliziosa villa di Montecarafa l’annunzio dell’Interdetto, posto a tutte le Chiese di Andria da Monsignor Vecchia; e quale impressione facesse su gli animi della famiglia baronale, non è a dire!
Il Pastore scrive che la Duchessa madre ed il giovinetto Duca e la loro Corte, che ivi stavano ritirati pel timore della peste, la quale in varie città del Barese infieriva, niun risentimento fecero per tal fatto [20]. Il D’Urso aggiunge che essi mostrarono tutta la rassegnazione alle leggi della Chiesa, e si protestarono che non intendevano far guerra alla casa di Dio, e né al Sacerdozio [21]. Tutt’altro! Essi fremettero d’ira, divamparono di odio contro il Vescovo, e giurarono di vendicarsi. E come nel novembre dell’istesso anno, la Duchessa madre aveva immantinente ricorso al Vicerè contro il Vescovo di Ruvo, che avea pubblicato il decreto d’Interdetto a tutte le Chiese della sua Diocesi per il Trono baronale [22]; è da credere che un simile reclamo abbia avanzato contro il Vescovo di Andria. Né ciò fu tutto; nei primi giorni dell’Interdetto più e più volte il buon Prelato fu minacciato nella vita. Nelle ore del giorno e nei silenzi della notte, i bravi Ducali, armati di tutto punto, furono veduti girare minacciosi intorno al palazzo Vescovile, tenendolo quasi in stato d’assedio! Persone, rotte ad ogni vizio, e devote al Duca, vennero sguinzagliate contro del Vescovo, e furono udite per la città ire cantando contro di quello obbrobriose ed invereconde canzoni! Fu fatto indecorosamente e villanamente ingiuriare non solo da varii laici, ma da alquanti ecclesiastici ancora! Fra questi si distinse sciaguratamente un certo D. Domenico Gurgo, prete di S. Nicola, il quale pagò il fio delle ingiurie contro del proprio Pastore, con un lungo carcere prima, e poi con pubblica penitenza fatta in Chiesa, in tempo dei solenni ufficii, con fune al collo, asperso di cenere, e versando lagrime di pentimento.
Per tutte queste ire baronali, che sempre più divampavano contro Monsignor Vecchia, venne questi costretto a lasciar Andria, ove la sua vita correva pericolo, e prendere la via dell’esilio! Di notte tempo il Prelato fuggì improvvisamente in Barletta, ove fu raggiunto da Monsignor Fortunato, Vescovo di Nardò, che per la medesima causa fuggiva innanzi alle ire ed alle vendette del Conte di Conversano; come pure Mons. Brancaccio Vescovo di quella città [23], ed unitamente ad essi portossi in Roma [24]. In tal modo il Barone di Andria mostrò tutta la sua rassegnazione alle leggi della Chiesa; senza dire che fece stare per due anni e mezzo l’Interdetto a Ruvo, perché prima non volle persuadersi a distruggere il suo Trono in quella Cattedrale!
[20] Storia Mss. di Andria, Parte II, Capo XVI.
[21] Storia di Andria, Libro VII, Cap. X.
[23] DI TARSIA MORISCO, Memorie Stor. di Conversano.
[24] Istoria e Relazione ecc.
S’avvicinava il solennissimo fra i giorni dell’anno, il Natale di Nostro Signore, e mentre tutti i popoli cristiani s’apparecchiavano a festeggiarlo lietissimamente sotto le maestose volte dei tempii; solo gli Andriesi, ed i loro compagni di sventura, non potevano quell’anno celebrarlo con gioia! Silenziosi, e a capo chino sospiravano, contro la Casa Carafa, causa di tanto loro affanno, fremevano. Ma ecco il lutto mutato in gioia. L’Eminentissimo Cardinale Alderano Cybo, Vescovo di Vienna, il 16 decembre 1690 [25] scriveva da Roma al Vicario Generale di Andria la seguente lettera, la quale quanto fosse riuscita gratissima ai poveri Andriesi, non è a dire:
«Reverendo Signore, commiserando la Santità di Nostro Signore con la sua paterna carità e clemenza lo stato delle anime di quelli di codesta città et altri luoghi di cotesta diocesi sottoposti all’Ecclesiastico Interdetto, che non avendo né direttamente né indirettamente dato ad esso causa, soffrono la pena dei peccati altrui, ha espressamente ordinato, che a lei s’ingiunga di dover concedere a nome della Santità Sua che dal primo giorno di Natale fino a quello della Epifania inclusivo, si possino in tutte le Chiese (eccettuata la Cattedrale che è stata spe-cialmente interdetta) suonare le campane, celebrare (esclusi però affatto i scomunicati) i divini ufficii, et ammettere gl’interdetti non solo nelle Chiese, ma anco alla partecipazione dei Sacramenti, del qual privilegio però si dichiara, che non devono goder quelli per colpa dei quali è stato pubblicato l’Interdetto. Passato poi il giorno dell’Epifania, faccia di nuovo osservare da tutti l’Interdetto con ogni esattezza maggiore, e di qualsivoglia trasgressione formi diligente processo, e ne dia subito relazione sinché piaccia alla divina Bontà di toccare il cuore di quelli ch’hanno astretta la Santità Sua e la S. Sede a procedere a così grave risoluzione. Eseguisca puntualmente tutto ciò, che gli si prescrive, e Dio la guardi» [26].
L’Epifania passava, ed un’altra volta si metteva in vigore la pena dell’Interdetto, ed un’altra volta Andria ritornava alla sua primiera mestizia!
[25] Nell’istesso giorno e pel medesimo tempo fu pure sospeso a Ruvo l’Interdetto Ecclesiastico. C. Lojodice.
[26] Istoria e Relazione ecc.
Come passavano i giorni, cosi il popolo Andriese ognora più fremeva e tremava. Fremeva in vedere l’ostinata contumacia della famiglia Ducale in non voler rimuovere il Trono, causa dell’Interdetto, e tremava di spavento all’appressarsi del terribile contagio della pestilenza, che minaccevole erasi quasi avvicinato alle porte della sua città. E tanto più agghiacciava di spavento, otto giorni dopo di avere Mons. Brancaccio, Vescovo di Conversano, emanato l’In-terdetto contro di quella città a causa del Trono, che il Conte D. Giulio Acquaviva pretendeva tenere nella Cattedrale, Conversano era stato attaccato dal contagio! [27] E da Conversano, la peste, inesorata come la vendetta di Dio, si era dilatata in Castellano, in Palo, in Polignano, ed in altre città della Provincia di Bari; e già faceva strage a Monopoli, ed a Mola; e serpeggiava in Fasano, in Bitonto, in Bari, e nei luoghi circonvicini! Il Viceré per Carlo II, D. Francesco Benavides, Conte di S. Stefano, sotto la presidenza del Marchese della Rocca, D. Marco Garofalo, e dei Giudici di Vicaria D. Francesco Sterlich, di D. Giuseppe Aragona, del Consigliere Brancaccio, e di altri ancora, prese dei serii provvedimenti, ed ordinò si facesse una linea di circonvallazione, cioè due cordoni sanitarii, uno più stretto pei luoghi già infetti, e l’altro più largo, che si stendeva sino a Canosa. I ponti poi di Canosa e di Barletta, che aprivano il varco dalla provincia di Bari a quella di Capitanata, erano muniti di guardie per im-pedirvi ogni tentativo di passaggio, e provveduti dell’assistenza di regii ministri. Il Preside D. Domenico Garofalo prendeva cura del Ponte di Canosa, ed il Giudice D. Antonio Coppola, uditore dell’Udienza di Lucera, di quello di Barletta [28].
Di giorno in giorno il timore cresceva a dismisura negli Andriesi, che come a supremo preservativo, anelavano correre a prostrarsi devoti innanzi alla tomba prodigiosa del loro celeste Patrono S. Riccardo, il di cui patrocinio altra volta in simile circostanza avevano sperimentato presentissimo. Invano; l’Interdetto ne tenea inesoratamente chiuse le porte! Il contumace Barone, imperterrito ed ostinato, beffandosi dell’ira di Dio e delle lagrime degli uomini, non si umiliava; ed intanto il popolo maturava la vendetta!
[27] DI TARSIA MORlSCO, Memorie Storiche di Conversano.
[28] DE ARRIETA, Ragguaglio historico del Contaggio occorso nella Provincia di Bari negli anni 1690, 1691, e 1692, Napoli 1694. In Conversano prima, ed in Monopoli poi, durante la peste, fece prodigi di carità e di zelo il P. Carlo Cattaneo d. C. d. G. dei Marchesi di Montescaglioso.
Erano passati 3 mesi circa dal giorno nefasto, in cui Monsignor Vecchia aveva fulminato l’Interdetto ecclesiastico contro di Andria; allorché il lunedì 26 febbraio 1691, sul primo rompere dell’alba, improvvisamente s’intese una scossa terribile di terremoto, che ripetendosi mezz’ora dopo, accrebbe viemmaggiormente lo spavento ed il terrore negli Andrianesi, che con immenso sbattito d’animo gridavano misericordia, e piangendo ivano in cerca delle Chiese e dei Sacramenti! Più tardi ecco una terza scossa e più violenta mettere il colmo allo spavento in tutto quanto il popolo, il quale, atterrito com’era dalla paura della peste imminente, a quest’ultimo tremito della terra, insorgere quasi fosse un sol uomo, correre furibondo verso la Chiesa Cattedrale, levare formidabile un grido, perché si aprissero le porte, sfondarle impetuosamente, e riversarsi nel tempio, fu un punto solo! In furore gli Andriesi corsero difilati non a prostrarsi innanzi ai santi altari, non a scongiurare l’ira del cielo, che guardava la terra e la faceva tremare; ma a distruggere il Trono Ducale, che in pochi minuti ridussero in frantumi! Concitati sempre più da sdegno formidabile, portarono via dalla Chiesa i gradini di pietra, ed i frantumi del distrutto Trono, e parte innanzi al Palazzo Vescovile, parte innanzi al Palazzo Ducale, tra le grida della gioia più grande che mai, incendiarono! Persino i fanciulli, rimettendo a gara nelle fiamme i tizzoncini, lieti si ascoltavano gridare: Al fuoco, al fuoco, è roba di scomunica! E battevano fortemente le mani, e fischiavano per allegrezza. Il baccano di ora in ora cresceva, e vennero dagli insorti scassinate le porte del campanile, e suonate a festa le campane della Cattedrale, cui immediatamente fecer eco quelle delle altre Chiese. E si volle pure che un certo Tonnicchio, il pirotecnico della città, accrescesse il brio della festa popolare, con lo sparo di un gran numero di mortaretti. Né ciò fu tutto. I ribelli andarono in cerca del Vicario Generale della Diocesi, un certo D. Carlo Antonio di Tesse, Cantore del Duomo, affinché questi avesse dato ordine ai preti, i quali giustamente si rifiutavano, di celebrare le messe, come nella Cattedrale, così nelle altre Chiese.
Il Vicario, che, per timore della insurrezione popolare, erasi, in compagnia di alquanti preti, rifugiato nel Convento dei Padri Cappuccini, cercò colle buone di persuadere gl’insorti di non potersi celebrare i divini misteri se prima la S. Sede non avesse tolto l’Interdetto: intanto aspettassero poche altre ore, mentre egli in quell’istesso momento si sarebbe portato in Trani a consultare il Metropolitano sul da farsi. Gli animi parvero quietarsi per allora, ed il Vicario si portò infatti dall’Arcivescovo, il quale fu di parere doversi rispettare l’Interdetto. Senonché il popolo, non soddisfatto di tale risposta, interrogò alquante persone della città, le quali erano in voce di dotte e letterate, e queste, riletto il Cedolone, opinarono che, essendosi ormai distrutto il Trono Baronale, causa dell’Interdetto, questo non avesse più vigore. A tale risposta i popolani inferociti minacciarono i preti di saccheggiare le loro case, di trascinarli per le pubbliche vie, e di sacrificarli ancora, ove si fossero ostinati a non volere celebrare i divini ufficii! Quindi li costrinsero a dir messa nella Cattedrale, e vollero che si portasse solennemente in processione la statua di S. Riccardo, con l’intervento dei Capitoli e degli Ordini Religiosi, ad eccezione dei Cappuccini e dei Minori Osservanti, che avevano i loro Conventi fuori le mura.
Dalla Chiesa di Santa Maria Mater Gratiae si riportò con pompa nella sua Cappella il Santissimo Sacramento: si seppellì in luogo sacro e col mesto suono delle campane, il cadavere d’un uomo, morto la sera precedente; e non disuma-rono le ossa di quelli che, durante l’Interdetto, erano stati sepolti nelle grotte di S. Croce e del Carmine, e non le ricomposero pietosamente negli avelli benedetti, pel timore, che avevano di uscire dalla città! Infine fecero benedire le fonti dell’acqua santa, e stracciando pubblicamente i Cedoloni dell’Interdetto, misero termine alla festa della distruzione del Trono [29].
[29] Istoria e Relazione ecc.
La plebe quando una volta insorge feroce, non conosce più modo, o misura. Laonde i più furibondi popolani di Andria, che ascendevano a circa cinquecento, senza contare i fanciulli, che numerosi li seguivano, capitanati da quasi trenta persone, che dal Duca furono fatte arrestare e chiudere nel suo carcere, organizzarono una seconda ribellione. Non contenti di avere distrutto il Trono baronale; poiché da cosa nasce cosa, corsero tumultuariamente dai deputati della sanità, e con altissimi gridi domandarono le chiavi della città. E perché i deputati, e tra essi, specie un certo Antonio Aurisicchio si rifiutò recisamente di consegnarle; con violenza lo gittarono a terra, gli strapparono urlando le chiavi di mano, e lo maltrattarono pessimamente! Fatto ciò, s’impadronirono delle quattro porte della città, e le chiusero a chiave così, che niuno potesse uscire o entrare. E quando il Vicario Generale, reduce da Trani, volle con dieci o dodici preti rientrare in città; ci volle il buono ed il bello per persuadere gl’insorti ad aprir loro la Porta, detta del Castello. Di poi spiranti ira corsero tumultuando alla casa del Sindaco, risoluti di ucciderlo, ove non consegnasse le chiavi dei pubblici Mulini. Fortunatamente il Sindaco ebbe tempo di fuggire, e si ridusse in salvo nel Convento dei Padri Domenicani. Intanto gl’insorti avendo prepotentemente avuto queste chiavi, corsero verso i Mulini gridando a squarciagola: abbasso la gabella della farina, troppo gravosa pel povero popolo! abbasso tutte le tasse! abbasso tutti i dazi! Entrano in quelli, e furibondi spezzano pesi e misure, e pomposamente si proclamano indipendenti, e risolvono tra loro di dare il sacco alle case dei ricchi, dei preti e dei benestanti; mettendo in tal modo pessimamente tutta la città nello scompiglio il più grande che mai! Erano i primi frutti della indipendenza, da essi proclamata, che volevano far gustare!
Erano le ore venti di quel medesimo giorno, quando in mezzo ad armi ed armati, all’improvviso si vedono arrivare dalla Villa di Montecarafa il giovinetto Duca, D. Fabrizio, la Duchessa madre, D. Margherita di Sangro, e tutta la Corte, i quali, avvisati della insurrezione popolare erano corsi per sedarla. Alla vista del temuto Barone e dei suoi bravi, tornarono al dovere gli ammutinati; la rivolta cominciò a poco a poco a sedarsi, e cessò totalmente, allorchè gli armigeri Ducali arrestarono i capipopolo, e gravati di catene li chiusero nelle prigioni! Il più irrequieto ed ardimentoso fra questi, e che facea da caporione, era un boscaiuolo, per soprannome Abbutto, il quale col Dottor Fisico Carlo Malex, e con altri aveva aizzata la plebe alla sedizione. L’ordine fu restituito del tutto, ed il giorno seguente potè un’altra volta mettersi in vigore 1’Interdetto [30].
Intanto compilatosi il processo, i capipopolo furono condannati a morte tutti! Già il giorno della ferale esecuzione erasi stabilito; già la forca erasi rizzata fuori la Porta del Castello, perché il Barone aveva anche il terribilissimo dritto di rizzare la forca; già il Camerlengo, il nobile Andriese Domenico Antonio Zagaria, stava per aprire il carcere Ducale, onde metter fuori i condannati, e condurli al patibolo; quando inaspettatamente una fortissima scossa di terremoto spaventò la città tutta! Questo terribile avvenimento fece per allora sospendere la ese-cuzione di morte; ma un’ora dopo, volendo il Camerlengo un’altra volta aprire il carcere, ecco un’altra volta tremare più fortemente di prima la terra e gittare nello spavento il più grande che mai la città! Fu allora che la Duchessa madre, D. Margherita di Sangro, pallida pallida in viso, affacciandosi da una delle finestre del Palazzo Ducale, con voce commossa gridò forte assai al Camerlengo: Cessa! cessa! non è volere di Dio! E fu revocata la sentenza di morte, ed i rei furono aggraziati, e restituiti alle loro famiglie desolate.
Questa ribellione contro la gabella della farina viene, prima dal Pastore [31], e poi dal D’Urso riportata nel 1696, cinque anni dopo! Dalle deposizioni giurate, fatte il 27 febbraio 1691, nella Curia Vescovile, innanzi al Vicario Generale della Diocesi di Andria, da D. Riccardo Infante, dal Preposito Damiani, da D. Nicolò Marchio, da D. Nicolantonio Fiore, da D. Muzio Modesto e da altri, si rileva che tale rivolta sia avvenuta immediatamente dopo quella del Trono Baronale, cioè il 26 febbraio 1691. Nè varrebbe il dire che sia stata forse una seconda ribellione, quella narrata dai due storici di Andria; perché essi segnano quasi le stesse circostanze, indicate dai predetti testimoni, cioè che il Duca Fabrizio stava nella Villa di Montecarafa, quando avvenne la insurrezione; che i ribelli corsero ai mulini e spezzarono pesi e misure e gridarono abbasso alla gabella della farina ed alle altre tasse; e che quindi furono dagli armigeri del Duca carcerati. Non parlano questi testimoni della pena di morte, a cui furono condannati gl’insorti, né del fatto delle nuove scosse di terremoto; perché il giorno in cui essi fecero la loro deposizione, relativa alla distruzione del Trono Ducale ed alla violazione dell’Interdetto ecclesiastico, tutto ciò non era avvenuto ancora. Pare dunque che i nostri storici abbiano sbagliato scrivendo 1696, invece di 1691.
[30] Istoria e Relazione ecc.
[31] PASTORE, Storia mss. della città di Andria, part. II, cap. XVI. — D’URSO, Storia d’Andria, lib. VII, cap. X.
Monsignor Vecchia, esule in Roma, seppe quanto era successo in Andria per il trono Baronale, ed il 17 marzo scrisse al suo Vicario Generale la seguente lettera:
«Molto Illustre e Reverendo Signore, con quanto dolore ho ricevuto l’avviso del replicato Terremoto, che ha tanto afflitto, e posto in sì grave pericolo cotesta mia amatissima Gregge, altrettanto potentemente ho goduto non quia contristati sunt, sed quia contristati sunt ad pœnitentiam: avendo come V. S. accusa, dato motivo a cotesto popolo di levare il Baldacchino Baronale dalla mia Cattedrale, che fu cagione dell’Interdetto. Quando dunque giudizialmente consterà a V. S. la remozione del Baldacchino con tutte le altre insegne secolari, di cui si fa menzione nell’Interdetto, dichiarerà, conforme ora io dichiaro, che per la prenominata remozione è rimasto sospeso 1’Interdetto cum reincidentia ipso facto incurrenda in evento (il che non mai a Dio piaccia) che il Baldacchino fosse poi da qualsisia ivi riposto. Potranno, dunque quei Sacerdoti, che dopo la suddetta remozione, veramente forzati dal popolo celebrarono, ed intervennero alle processioni, con sicurezza celebrare anche in avvenire, non essendo incorsi in irregolarità. Questi sono i miei sentimenti e tanto francamente V. S. procurerà si eseguisca, e mi raffermo di V. S. affezionatissimo per servirla. D. Pietro Vescovo d’Andria» [32].
In questo frattempo gli Andriesi non se ne stettero inoperosi; solleciti avanzarono fervide preci e reclami al Nunzio Apostolico in Napoli, alla Sacra Congregazione dei Riti e dell’Immunità in Roma, e al medesimo loro Vescovo, perché finalmente fosse loro tolto 1’Interdetto. Monsignor Vecchia dal canto suo vi s’interessò vivissimamente, come rilevasi da una lettera, del 24 marzo 1691, scritta dal Nunzio Apostolico di Napoli al Vicario Tesse. Essa è del seguente tenore: «Monsignor Vescovo d’Andria all’avviso dei continui Terremoti in cotesta città, che mostravano la divina Giustizia irritata dalle nostre colpe, esercitando le parti del suo pastoral ministero verso la sua gregge commessa da Dio alla sua cura, ha con participazione del Sacro Collegio procurato a cotesto popolo 1’Indulgenza per beneficio delle anime nella forma che V. S. vedrà dall’ingiunta lettera del medesimo Prelato. E mentre io 1’accompagno con questa mia, mi giova di significarle non essersi da me tralasciato di rappresentare al Sacro Collegio la compassione, che meritava il caso; e con inviarle qui annessa altra lettera di Monsignor Vescovo medesimo a V. S. mi offero di buon animo affezionatissimo per servirla. L. Arcivescovo di Cesarea» [33].
Inoltre un certo Stefano Cianci, il 29 marzo del medesimo anno, così scriveva da Napoli al Signor Don Francesco Laborea: «Molto Illustre e Rev.do mio Patrone Colentissimo, con sommo mio desiderio inviai a V. S. nella scorsa settimana il piego delle lettere di Monsignor Ill.mo Nunzio assieme con quella di Monsignor Vescovo d’Andria per cotesto General Vicario, a dirittura per il solito Procaccio, e conteneva la sospensione dell’Interdetto, e la giusta celebrazione che ognun Prete poteva fare, senza essere incorso nella irregolarità. Io siccome spero da Dio, che 1’accennato piego sia arrivato a salvamento, cosi ne attendo 1’avviso per mia particolar consolazione. È certo però che Monsignor Ill.mo Nunzio scrisse, che avesse, giacchè era presente in Curia, contribuite le sue zelanti parti. Nel resto io rendo grazie a lei ed a tutti cotesti Signori delle gentili espressioni, che si degnano di fare verso della mia persona, con sicurezza di dover io aver campo di servire le LL. SS. in cose di mio particolar gusto, perché possa palesar loro la gran stima che fo delle loro persone. A V. S. con ogni più affettuoso sentimento bacio le mani. Dev.mo Servo ed Obbligatissimo Stefano Cianci».
Il 31 marzo il Nunzio Apostolico scriveva di bel nuovo al Vicario Generale della Diocesi di Andria questa lettera: «Ill.mo e Rev.mo Signore, Sin dalla settimana passata inviai a V. S. un piego sotto coverta pel Rev.mo La Borrea, che concerneva l’Indulgenza ottenuta a favor di cotesto popolo per la sospensione dell’Interdetto, e come credo certamente che a quest’ora sarà stato esibito in sue mani, cosi invierò per il solito procaccio di Roma la di lei lettera per Monsignor Vescovo d’Andria. Frattanto trasmetto a V. S. due lettere qui congiunte di V. S. Ill.ma medesima e le auguro dal cielo ogni bene. Di V. S. affezionatissimo per servirla L. Arcivescovo di Cesarea» [34].
Intanto affinché giuridicamente costasse della remozione del Trono Baronale dalla Chiesa Cattedrale; il Vicario fece fare un atto pubblico dal Signor Ioes de Toullis di Corato, residente in Andria quale pubblico Notaio per Autorità Apo-stolica, e qual giudice ordinario ascritto alla Romana Curia. Questi alla presenza dei testimoni, D. Sebastiano Marchio, e D. Giovanni Zafferano, il 29 marzo 1691, si portò in Chiesa, ed avendo osservato il luogo, ove s’innalzava il Trono Baronale, vide che esso più non esisteva, essendovi rimasta solamente la porticina, che dal Palazzo Ducale metteva sopra il balconcino di detto Trono, non che una trave, lasciata ancora nella parete; del resto non vi era più nulla [35]. Rogato tale pubblico Atto, furono spedite da Roma in Andria lettere di Monsignor Vecchia, nelle quali si riportava il parere del Sacro Collegio, che in allora trovavasi radunato in Conclave per la elezione del novello Papa, essendo passato a miglior vita Alessandro VIII. Il parere del Sacro Collegio fu che, essendosi levato totalmente il Trono Ducale, con tutte le sue insegne, causa dell’Interdetto di tutte le Chiese di Andria, esso veniva tolto, a condizione però che si osservasse esattamente quanto nel Rescritto era ordinato; cioè che mai più in detta Chiesa si fosse rizzato il Baldacchino Baronale, e che si fosse serrata a muro la porticina, che dal Palazzo Ducale, e propriamente dalla camera del ponte, metteva sul balconcino del Trono.
Nel medesimo giorno, 29 marzo 1691, il Promotore Fiscale, D. Angelo Acquaviva, faceva istanze presso il Rev.mo Vicario, perché si mettesse in esecuzione il Rescritto, che aveva spedito da Roma Monsignor Vecchia, relativo alla remozione dell’Interdetto [36]. Il Tesse immantinente per mezzo del Cursore citava a comparire in Curia, fra due ore di tempo, tutti i capi delle Chiese, cioè 1’Arcidiacono Ceri, il Preposito Damiani, il Priore Cereci, il Sottopriore di S. Domenico, il Priore di S. Agostino, ed i Guardiani di S. Maria Vetere, di S. Francesco, e dei Cappuccini. Essendosi questi presentati, loro fece noto di essersi già tolto 1’Interdetto, e quanto avesse dovuto in tale circostanza da tutti osservarsi, secondo che gli Eminentissimi Cardinali avevano ordinato a Monsignor Vescovo di Andria [37].
In tal modo dopo quattro incresciosissimi mesi, 1’Interdetto venne tolto, ed il popolo Andriese respirò, avendo riacquistata la sua pace religiosa. Però Monsignor Vecchia per circa un anno e mezzo dovette protrarre in Roma il suo esilio, a causa delle persecuzioni, che il Barone, anche di lontano, non cessò di muovergli ostinatamente!
[32] Istoria e Relazione ecc.
[33] Istoria e Relazione ecc.
[34] Istoria e Relazione ecc.
Il primo febbraio 1691, essendo morto Papa Alessandro VIII; il 12 luglio venne assunto al Sommo Pontificato, col nome d’Innocenzo XII, il Cardinale Antonio Pignatelli, Arcivescovo di Napoli, nato da D. Francesco Duca di Minervino e di Spinazzola, e da D. Porzia Carafa, figlia di Fabrizio II, Duca d’Andria. Questo savio Pontefice per estinguere il fuoco dell’ira ducale contro del povero Vescovo, e per mantenere nella pace gli Andriesi, la cui indole egli conosceva per bene, essendo stato nella sua giovinezza non poco tempo in Andria; credè prudente trasferire il Vecchia da questa alla sede vacante di Molfetta. Il Vescovo di Andria, anzichè non volere far più ritorno nella sua Dio-cesi, ed ottenere in grazia di essere trasferito a Molfetta, come dice il D’Urso [38], s’impermalì alla nuova della traslazione, riferisce 1’autore anonimo del manoscritto [39], e vi si oppose come e quanto potè. Egli avrebbe voluto, anche a costo della vita, umiliare la superbia del Duca e sostenere le sue ragioni ed i diritti della Chiesa contro i prepotenti arbitrii di quello; ma il Papa lo astrinse alla obbedienza; ed il Vecchia venne trasferito alla Sede di Molfetta, che governò per molti anni, lasciando di sè desiderio perenne agli Andriesi, esempio luminoso ai successori [40].
Andria riconoscente non rizzò alla memoria di questo coraggioso suo Vescovo una lapide commemorativa del fatto; vi si sarebbero opposti i Baroni! Ma chiunque entra nella Cattedrale, e mira la nuda parete, che sta tra la credenza e la tribuna dell’organo, non può non esclamare: In quel sito un giorno si levò il Trono baronale, sfolgorato dall’intrepido coraggio di Monsignor Vecchia, e ridotto in cenere dagli Andriesi, insorti, come un sol uomo, contro di quello! Onore eterno al Pastore ed al gregge!
[38] D’URSO, Storia d’Andria. Libro VII, Capo X.
[39] Istoria e Relazione ecc.
[40] Istoria e Relazione ecc.
Dopo questo avvenimento, i Baroni continuarono per un altro secolo e più a dominare in Andria, ed a vessare sotto varii pretesti i Vescovi ed il popolo; ma non osarono più rizzare il loro Trono nella Cattedrale. Infatti Monsignor Triveri, negli Atti della sua S. Visita del 1694, descrivendo il Presbitero, non fa menzione alcuna nè del Trono, nè del balconcino o coretto baronale; ma solamente del Trono e della Tribuna Vescovile [41]. Però in tempi posteriori, e probabilmente all’epoca di Monsignor Anelli, Patrizio Andriese, trasferito dal Vescovado di Acerno nel 1743 a quello di Andria, pare probabile che i Carafa, profittando delle buone relazioni, che dovevano forse passare tra loro e questo Prelato, abbiano ricostruito il loro Coretto nel sito, ove nel 1691, fu distrutto il balconcino, e murata per ordine della Congregazione dei Riti la porta che metteva sul Trono. Che se poi a quell’epoca il Coretto preesisteva; l’avranno certamente allora abbellito; mentre esso in tutto e per tutto somigliava a quello del Vescovo, rimodernato e riabbellito da Monsignor Anelli, che a sue spese fece costruire dal bravo artefice Andriese, Tommaso Porziotta, 1’attuale elegantissimo e splen-didissimo Trono, ricco d’oro, d’intagli e d’ornati, e sopra del quale si vede elevato il suo stemma gentilizio.
Dall’alto di quel Coretto la famiglia Ducale, la sua Corte, i suoi amici ed i suoi servi ancora, assistevano alle sacre funzioni, e non sempre con quella devozione e compostezza dovute al luogo santo! Perlochè i Vescovi di Andria giammai guardarono di buon occhio questo avanzo del Feudalismo. Colle buone non si sarebbe certamente riuscito a togliere il Coretto dalla Chiesa Cattedrale; bisognava che una seconda volta gli Andriesi insorgessero, come nel 1691. Ed insorsero; però più pacatamente; allora insorse gran parte del popolo; questa volta alquanti ecclesiastici.
Scoppiata la rivolta del 1848, parve quello il tempo opportuno per la distruzione del Coretto Ducale. Era la notte del 26 giugno, ed alquanti Canonici della cattedrale [42], avvalendosi del1’opera d’un muratore e d’un falegname, fecero scomparire il Coretto, chiudendone a muro persino l’ingresso. Un tappeto di velluto violaceo, con il ritratto di Papa Pio IX, in nome del quale tutto si distruggeva e si edificava in quel tempo, fu trovato la mattina sospeso nel luogo, ove stava il Coretto, i di cui avanzi furono nascosti nella sepoltura degli Agonizzanti nell’Oratorio.
[41] «Presbyterium est peramplum, tabulis ligneis laqueatum et lapidibus sectis stratum: ad sedem Episcopalem a latere Evangelii positam per tres gradus lapideos ascenditur, et supra ipsam adest Tribuna, ad quam ex Palatio Episcopali datur accessus ad Episcopi, eiusque familiae devotionem, et comodum» Pag. 17. (Archivio Vescovile).
[42] I Canonici D. Vito Fortunato, D. Gioachino Montaruli, D. Francesco Bisceglie, D. Riccardo Cicco, ed altri. — Angelo Casieri fu il maestro muratore, e Mastro Francesco Recchia il falegname.
Gli eredi del fu Francesco Carafa, Duca di Andria, cioè Ferdinando e Margherita, residenti in Napoli, non appena ebbero l’ingrata novella della distruzione del Coretto, divamparono di sdegno. Fecero dapprima ricorso alla Santità di Papa Pio IX, che allora trovavasi in Gaeta, contro il Capitolo Cattedrale, come quello, dicevano essi, che rappresentato dai Canonici D. Paolo Torella, e D. Vincenzo Canosa, suoi procuratori, ed avvalendosi dell’opera di uomini dell’arte, avea fatto demolire il Coretto [43]. La supplica degli eredi Carafa fu letta nell’udienza accordata dal Santo Padre, il giorno 14 maggio 1849 in Gaeta, alla Congregazione del Concilio. Il giorno seguente il Cardinale Altieri scrisse a Monsignor D. Giuseppe Cosenza, allora Vescovo di Andria, domandandone gl’informi opportuni, il voto in iscritto del Capitolo Cattedrale, ed il parere del Promotore Fiscale, dopo perquisiti i libri della Chiesa e della Cancelleria Episcopale, e massime gli Atti delle Sante Visite, onde rinvenire il privilegio, che la famiglia Ducale vantava di potere tenere tale Coretto in Chiesa, non che il titolo d’insigne benefattrice di essa [44]. Il Vescovo prontamente comunicò tale disposizione della S. Congregazione del Concilio al Capitolo, ingiungendogli che desse in iscritto il suo voto.
Il Capitolo Cattedrale, voluto autore, secondo i Carafa, della distruzione del Coretto, il 30 giugno 1849, si congregava per ordine del Vescovo in sagrestia, e : «nei modi più solenni rigettava da sè l’imputazione d’un tal fatto, come calunniosa, e dichiarava non aver mai nulla saputo, nulla tentato, nulla consigliato intorno all’accaduto. E poiché l’invito del Beatissimo Padre lo chiamava a dire qualche parola sul merito della cosa, esso colpiva con gioia questa occasione per dichiarare che antico e profondissimo era il suo dolore nel vedere ogni momento la Chiesa principale di una Diocesi illustre insultata ancora da questa reliquia odiata del Feudalismo, in onta di quelle sante immunità locali, di cui si gelosa si mostrò sempre la Santa Sede Romana, e che tutte le provincie circonvicine si meravigliassero con scandalo, che mentre tutti i vestigi delle Baronali oppressioni erano scomparsi dal Regno di Napoli, solo un avanzo di servitù vergognosa si mantenesse intatta nella Casa di Dio, la quale ha diritto, più d’ogni altra umana cosa, di scuotere le secolaresche oppressioni. E perciò il Capitolo ad unanimità, usando volentieri di questa occasione, unicamente perché onesta e legale, coi più caldi sensi, convenienti ad animi religiosi e sacerdotali, pregava Monsignore ad ottenere dalla S. Sede favorevole decreto, il quale emancipasse la Casa di Dio da sì obbrobriosa ed intollerabile servitù» [45].
Il Promotore Fiscale, l’Arcidiacono D. Nicolantonio Brudaglio, alla sua volta, dopo di avere fatto delle erudite osservazioni sulle origini storiche del Coretto, ed avere esposte le ragioni giuridiche che contro 1’uso di esso Coretto militavano; si rivolgeva al Vescovo, e con enfatiche parole, che risentono pur troppo dell’ambiente in cui allora si vivea, conchiudeva così: «non diffidi Monsignore di opporsi alla domanda degli Eredi Carafa, che la S. Congregazione annuendo, non farà che prevenire Monsignore in ciò che Egli aveva già premeditato far da sè medesimo, nella prima Santa Visita, che aprirà. Vorrebbe egli farsi indietro al suo predecessore, Monsignor de Vecchis, per la di cui cooperazione nel 1690 veniva prima in Andria 1’Interdetto, e poi fu chiusa a muro la finestra (del Coretto) sotto pena di reincidenza? Dal riscontro di quell’epoca con questa, in cui Ella governa la sua Chiesa, argomenti del molto biasimo, che toccherebbe a Lei, non sollecitando, per quanto fu somma la gloria, che raccolse quel suo predecessore appo i presenti ed i posteri, sollecitando. Quegli aveva Roma amica; ma il Regno, che per intrinseca struttura si tagliuzzava in tanti stati, quante erano le città, l’aveva nemico. Monsignore ha favorevolissima Roma, favorevolissimo l’ordine attuale delle civili cose. Quegli per l’immunità della sua Cattedrale esulava dalla sua Sede, e riparava in Roma, per porre in sicuro i suoi dì perseguitati a morte; Monsignore combatte senz’ombra di paura l’ultima reliquia del servaggio feudale. Come tra il Pontificato ed il Principato vi è stata nobile gara per ribassare la nobiltà dal grado signorile al grado cittadinesco; così Monsignore si accomuni all’opera delle due Potestà, cooperando che si cancelli per sempre l’infame vestigio, che ci rimaneva delle oppressure Ecclesiastiche sotto l’egoismo violento dei feudi. Così se ne potesse da noi, non che dalla posterità cancellar la memoria! … Che se i nepoti nostri più tardi, frementi udiranno dai loro padri: Qui nel presbitero, di rimpetto alla Tribuna Vescovile, i Duchi avevano anche la loro di eguale struttura, e di non inferiore magnificenza; viva sicuro Monsignore, che dopo si volgeranno alla sepoltura, che racchiuderà le sue ceneri, e come di consenso ripetendo e benedicendo il suo nome, ricorderanno che il riscatto compito dall’ultima reliquia della servitù feudale, data dal suo Vescovado» [46].
Il buon Cosenza, insignorito di queste idee, il 23 marzo 1850, inviava agli Eminentissimi Padri della Congregazione del Concilio la Conclusione del Capitolo ed il parere del Promotore Fiscale, non che il suo voto, il quale altro non era, se non l’eco armoniosissima dei sentimenti dell’uno e dell’altro. Egli infatti scriveva come, dopo diligente inquisizione, non avea potuto trovare in favore della famiglia Carafa di Andria alcun privilegio, né alcun vestigio di essere questa stata un tempo benefattrice insigne della sua Chiesa Cattedrale per poter vantare il dritto di tenere quel Coretto. Aggiungeva che sin dal suo primo metter piede nella sua Chiesa fu grandemente addolorato in vedere profanata la maestà del Presbitero dall’ignominia del Coretto Ducale! Quindi dopo di avere il Santo Vescovo detto altre cose al proposito, con tutto l’ardore dell’animo suo, pregava e scongiurava gli Eminentissimi Padri della S. Congregazione del Concilio, affinché col loro supremo giudizio avessero salvata la santità della sua Chiesa dalla rinnovazione di tanta profanazione; mentre questo reclamavano le innumerevoli decisioni del loro Tribunale più e più volte in simili circostanze emanate; questo reclamava il santo decoro della Chiesa; questo reclamava il desi-derio di tutta la sua città! [47]
E Roma che fu sempre vindice inesorabile delle immunità Ecclesiastiche, non dava retta ai piati degli eredi del Signor Duca di Andria; ed il Coretto, distrutto nel 1848, non fu ripristinato mai più nella Chiesa Cattedrale.
Se non che la famiglia Carafa, non avendo nulla potuto ottenere dalla Santa Sede, ricorse ai Tribunali civili, pretendendo la restaurazione del Coretto a spese del Capitolo Cattedrale, che essa diceva autore dell’attentato, e violatore dell’antichissimo dritto, che privilegiava la sua casa. Il Capitolo, che mai avea temuto di sfidare le prepotenze baronali, si difese coraggiosamente, e ne uscì vincitore. Egli aveva a sua valida difesa il suo caro Vescovo Monsignor Cosenza, il quale quando vide distrutto il Coretto, ne rese vivissime grazie a Dio, recitando il Te Deum, ed in testimonio della sua compiacenza per tal fatto, pagò le spese occorse per distruggerlo, nella notte memoranda del 26 giugno!
In tal modo col Trono prima, e poi col Coretto Ducale scomparvero per sempre dalla città di Andria le ultime reliquie del Feudalismo, la di cui storia di tante lagrime gronda e di tanto sangue!
[45] Conclusione Capitolare — (Curia Vescovile).
[46] Curia Vescovile.
Cum pluries S. Rituum Congregatio inhærendo decretis alias editis, et signanter in Lucerina die 22 novembris 1664, 28 septembris 1675, et 13 martiis 1688, declaraverit, nullo modo dandum esse Evangelium ad osculandum sæcularibus, etiam Præsidi, in celebratione Missarum; nec non eis prohibuerit usum Baldachini, die 26 Junii 1666 in Baren, 5 martii 1667 et 17 Junii 1684 Marsicen, Polignanen, et Mileten, 5 martii 1687, Hieracen 2 octobris 1683, et Bitecten 23 sept. 1684. Ac insuper denegaverit assistentiam in Presbyterio, et specialiter in Materanen 24 Januarii 1665, Melphitana 15 Junii 1665, et Baren 29 nov. 1677, et 22 feb. 1687; E.mi et R.mi DD. Cardinales eidem S. Congregationi Praepositi, mandarunt ut prædicta decreta prohibentia personis sæcularibus osculum Evangelii, usum Baldachini, et assistentiam in Presbyterio, renoventur, et copiæ illorum transmittantur Archiepiscopis et Episcopis Regni Neapolis, eisdemque iniungendo, ut illa intimari faciant superioribus Ecclesiarum suae Dioecesis tam sæcularibus, quam Regularibus, et in casu transgressionis, procedant etiam contra Regulares, auctoritate eiusdem S. Congregationis, ad pœnam Interdicti. Et ita decreverunt et in Ecclesiis Regni Neapolis omnino servari jusserunt, die 13 martii 1698. A. Cybo. Locus † sigilli. Bernardinus Casolius Sac. Rit. Cong. Segretarius.
S. Rit. Congregatio, die 22 aprilis, referente E.mo et R.mo D. Cardinali Columna Ponente, stetit in decisis die 13 martii 1688. Et quoad Baldachinum, non tantum illorum usum, verum etiam retentionem, tam in Presbyterio, quam extra, in eodem Decreto comprehendi declaravit. Et ad effectum, ut memoria pereat similis abusus, mandavit, ut iniungatur Archiepiscopis et Episcopis Regni Neapolitani, quod hastas, gradus, suppedanea, et quæcumque alia signa Baldachini ab Ecclesiis suorum Dioecesum, tam sæcularium, quam Regularium removere faciant: et quoad Ecclesias Regularium procedant ad Interdicta, et contra inobedientes ad censuras, auctoritate S. Congregationis eadem die 22 aprilis 1690. Et facto de praedictis verbo cum Sanctissimo per me Segretarium, Sanctitas Sua annuit, sensum Congregationis approbavit, et laudavit, ac remissum Decretum exequi omnino et publicari præcepit, die 22 eiusdem mensis et anni 1690. A. Episcopus Viennensis Cardinalis Cybo. Laurentius Triscus Sac. Rit. Cong. Segretarius. Locus † sigilli.
Romæ ex Tip. Rev. Cam. Apost. 1690.
([tratto da] (Istoria e Relazione di diversi fatti accaduti nelli governi delli seguenti Vescovi d’Andria, Egizio, Vecchi, Triveri et Ariani.)
D. Petrus Vecchia Dei et Apost. Sedis gratia Episcopus Andrien, ac Visitator et in presenti causa a Sac. Rituum Congregatione, de mandato SS.mi D. Nostri Papæ Alexandri VIII specialiter delegatus.
Hic autoritate Nostra, delegatione Apostolica, et S. Rit. Congregatione, de mandato SS.mi D. Nostri Papæ Alexandri VIII, submittimus Ecclesiastico Interdicto omnes Ecclesias, Cappellas, ac Oratoria tam sæcularium, quam Regularium etiam exemptorum humus civitatis et Dioecesis Andrien, ex eo quia pluries ac pluries moniti et citati magnifici D. Franciscus Ceri, Gubernator eiusdem, ac D. Franciscus Mele, Aerarius, ministri principales Ill.mæ et Ex.mæ D. Margaritæ de Sangro Caraffa Ducissæ memoratæ civitatis Andriæ, ut infra terminum sibi assignatum amoverent Baldachinum et Baronale Tronum cum suppedaneis et omnibus aliis Baronalibus insignis ab Ecclesia Cathedrali ac aliis Ecclesiis dictæ Civitatis et Dioecesis si quæ existerent, et ipsis insordescentibus, Baldachinum prædictum cum omnibus aliis supradictis minime amovere et distrahere curarunt, prout in Decretis S. Congregationis, quasque coacti ab ordinibus et mandatis præfatæ S. Congregationis supradictum Interdictum Apostolicum Generale omnium Ecclesiarum prædictarum emanavimus, in quo tamdiu submissæ existent, donec mandatis memoratæ S. Congregations in amovendo Baronale Tronum et Baldachinum præfatum cum aliis Baronalibus insignis, suppedaneis, et gradibus, parere recusaverint; et ut omnibus innotescat præsentes Cedulones Nostra manu subscriptos, Nostroque sigillo solito munitos, et in publicis locis affigi per infrascriptum Cancellarium fieri mandavimus. In quorum fidem etc.
Datum Andriæ in Nostro Episcopali Palatio, hac die prima Decembris 1690.
D. PETRUS [VECCHIA] Episcopus Andrien,
Visitator et Delegatus Apostolicus.
ABBAS TOULLIS Cancellarius.
Amoventes, lacerantes, auxilium dantes vel id facere permittentes sint ipso facto excomunicati excomunicatione Papæ servata.
Locus † sigilli.
Extracta est præsens Copia a suo proprio originali sistenti in Actis huius Episcopalis Curiæ Andriæ, cum quo fatta collatione concordat, salva semper et ad fidem etc. Ego D. Ioes de Toullis publicus per orbem Apostolica Auctoritate Notarius et in Romana Curia adscriptus, requisitus signavi.
([tratto da] (Istoria e Relazione di diversi fatti accaduti nelli governi delli seguenti Vescovi d’Andria, Egizio, Vecchi, Triveri et Ariani.)
Carolus Dei Gratia Rex.
Reverende Vir Regio devote dilecte.
Per parte dell’Ill.ma D. Margarita di Sangro Duchessa d’Andria, Madre e tutrice dell’hodierno Ill.mo Duca d’Andria e Conte di Ruvo,
ci è stato rapportato, come tenendo l’Ill.mo Duca suo figlio nella Cattedrale di cotesta citta il Baldacchino,
che da tempo immemorabile si è tenuto dai suoi Predecessori; vogliate hora Voi farlo levare, e dichiarare scomunicati tutti quelli,
che pretendessero impedirlo sotto pretesto d’alcuni decreti di Corte di fuora Regno, per li quali così si ordinasse,
et ha supplicato l’opportuno rimedio, et essendone trattato nel Regio Collateral Consiglio è parso di fare la presente,
con la quale vi dicemo ed esortamo, che sin’a tanto, che all’asserti decreti di Corte di fuora Regno sia stato domandato
e conceduto il necessario e solito Regio exequatur in conformità dell’inveterata et inconcussa consuetudine del Regno
et anche per cauzione degli ultimi precisi Reali ordini di S. Maestà, che ha espressamente comandato, che questa sua Regalia
si conservi mantenghi e difenda inviolabilmente, dobbiate astenervi di far novità sopra tal materia, perché dal contrario
ne seguirebbe pregiudizio alla Reale giurisdizione, e ci obbligaresti a passare immediatamente alle provviste economiche
solite praticarsi in casi simili, che dalle leggi et osservanze del Regno ci vengono permesse per difesa di quello.
Datum Neapoli die 10 mensis novembris 1690.
Seguono tre firme illeggibili.
Montecorvinus — Al Rev.do Vescovo di Ruvo che sin’a tanto, che all’asserti Decreti di Corte di fuora Regno, in vigore dei quali pretende di far levare il Baldacchino, che l’Ill.mo Duca d’Andria e Conte di Rovo tiene nella Cattedrale di quella Città, e dichiarare scomunicati quelli, che l’impedissero, sia stato domandato e conceduto il Regio exequatur in conformità dell’inveterata et inconcussa Consuetudine del Regno, della quale ne inviene incaricata l’inviolabile osservanza con gli ultimi regali ordini di S. M. non faccia novità alcuna in tal materia, ut supra.
([tratto da] (C. Lojodice, Due anni e mezzo d’Interdetto Ecclesiastico per la città e territorio di Ruvo, in "Rassegna Pugliese", volume VIII, n. 7-8 maggio 1891, pagg. 117-123)
Anno ab Incarnatione D. N. Jesu Christi 1691, Ind. XIV, Pontificatus Sede vacante ob mortem f. r. Alexandri VIII. In civitate Andriæ, mense martii, die vero 29. N. D. Ioes de Toullis de Corato ad presens Andriæ publicus per orbem Apostolica Auctoritate Notarius et Judex ordinarius et in Romana Curia adscriptus, et Testes RR. D. Sebastianus Marchio et D. Jacobus Zaffarano, omnes de Andria, litterati ad hoc specialiter vocati et rogati, fatemur quod prædicto die ad istantiam nobis factam per Ill.mum D. Carolum Antonium Tesse Cantorem Cathedralis Ecclesiæ civitatis Andriæ, ac locumtenentem Curiæ Episcopalis civitatis praedictæ, accessimus ad Cathedralem Ecclesiam prædictam, ubi existebat Baronalis Tronus, propter quem fuerunt interdictæ omnes Ecclesiæ dictæ civitatis, et vidimus et observavimus prædictum Tronum, qui positus erat ex cornu Epistolæ altaris majoris, amplius non adesse, nec etiam gradus solii, sed totaliter fuisse amotum cum gayfo supra dictum Tronum existente; sed tantummodo extare januam corrispondentem in Palatio Exell.mi D. Ducis prædictae civitatis, qua intrabatur in gayfum prædictum existentem supra Tronum prædictum, qui gayfus adhuc non extat, sed tantum trabs una relicta, tempore quo amotus fuit Tronus prædictus; de quibus omnibus requisivit me prædictum Notarium et Testes, ut de eis publicum Actum conficere debere; nos enim pro ratione Nostri publici officii per quod id fecimus ad futuram seu memoriam in meis publicis Actis apposui.
Actum Andriæ etc.
([tratto da] (Istoria e Relazione di diversi fatti accaduti nelli governi delli seguenti Vescovi d’Andria, Egizio, Vecchi, Triveri et Ariani.)
Nella Curia Vescovile della città di Andria compare D. Angelo Acquaviva Promotore Fiscale di quella e dice come gli è pervenuto alle orecchie che dall’Ill.mo e Rev.mo D. Pietro de Vecchia, Vescovo di Andria, è venuto un rescritto con sentimento del Sacro Collegio, che si ritrova in Conclave per la elezione del futuro nuovo Pontefice, contenente che stante che si è levato affatto il Trono Baronale con tutte le insegne Baronali, per il quale stavano tutte le Chiese interdette, con il consenso di detti Eminentissimi ave ordinato che si leva detto Interdetto cum reincidentia, e perchè per Atto publico si è fatto accesso in detta Chiesa Cattedrale, e non si è trovato detto Baldacchino seu Trono, come dalla copia dell’Atto pubblico si rappresenta; fa istanza che si leva detto Interdetto cum reincidentia, et ordinare che si mettano in esecuzione tutte le altre particole contenute in detto rescritto di detto Ill.mo Monsignor Vescovo, et che si osservi secondo la serie et tenore di detto rescritto, e che si rappresentano, e così dice et fa istanza in questo e in ogn’altro miglior modo etc.
Et per Curiam episcopalem eiusque Re.mum D. Locumtenentem visis rescripto et publico Actu infrascripto per id petentem presentatis, provisum et decretum est quod Interdictum supradictum tollatur cum reincidentia quoad usque fuerit aliter provisum per S. Congregationem, et comperiantur Cedulones at circa reliqua in dicto Rescripto indicata. Expediatur citatio ad Superiores seu primarios Capitulorum at Regularium et ita per hoc etc.
Datum Andriæ die 29 mensis martii 1691.
Cant.[or] [Carolus Antonius] TESSE
Locumtenens Gen.lis et Deleg.
ABBAS TOULLIS Actuarius.
([tratto da] (Istoria e Relazione di diversi fatti accaduti nelli governi delli seguenti Vescovi d’Andria, Egizio, Vecchi, Triveri et Ariani.)
Cursoribus significamus at admittimus, ut ad omnem istantiam et perquisitionem Rev.di Promotoris Fiscalis huius Curiæ Episcopalis Andrien civitatis, et requiratis at moneatis omnes infrascriptas dignitates RR. Capitulorum et Superiores Religiosorum huius civitatis Andriæ, quatenus infra spatium duorum horarum, respondeant coram nobis in hac Curia Episcopali ad audiendum quæ observare debent in casu quo reinciderint in Interdictum, prout in rescripto Nobis transmisso ad Ill.mo at Rev.mo Episcopo, facto verbo cum Eminentissimis Nostris Cardinalibus S. Romanæ Ecclesiæ.
Datum Andriæ die 29 martii 1691.
Cant.[or] [Carolus Antonius] TESSE
Vicarius Generalis at Delegatus.
R. Arcidiacono CERI - Il Preposto - Il Priore CERECI - Il Sotto-Priore di S. Domenico - Il Guardiano di S. Maria Vetere - Il Guardiano di S. Francesco - Il Priore di S. Agostino - Il Guardiano dei Cappuccini.
Eodem die 29 martii 1691 supradictis Dignitatibus et Superioribus annotatis supra fuit notificatum Rescriptum Ill.mi et Rev.mi D. Episcopi Andriæ, ut in Actis etc. Neque fuerunt comperti Cedulones Interditti per Magistrum Thomam Scapulatelli ordinarium Cursorem huius Curiæ Episcopalis, ut ex relatione facta etc. Et sic fuit suspensum Interdictum ut in Decreto etc. Et ita et in fidem etc.
Cantor [Carolus Antonius] TESSE
Locumtenens Generalis at Delegatus.
ABBAS TOULLIS Cancellarius.
([tratto da] (Istoria e Relazione di diversi fatti accaduti nelli governi delli seguenti Vescovi d’Andria, Egizio, Vecchi, Triveri et Ariani.)
ALLA SANTITÀ DI NOSTRO SIGNORE PIO IX
Beatissimo Padre,
Gli Eredi beneficiati del fu Duca di Andria, Francesco Carafa, e Margherita Carafa possessori d’un Palazzo Ducale
nel Comune di Andria, godevano di un antichissimo dritto d’un Coretto, che sporgeva nella Chiesa Cattedrale di questo Comune,
dal quale gli abitanti del Palazzo ascoltavano la S. Messa, ed assistevano alle funzioni, che nella Chiesa si solennizzavano.
Ora nella notte del 26 a 27 giugno dello scorso anno, il Capitolo rappresentato nelle persone dei Canonici D. Paolo Torella,
e, D. Vincenzo Canosa, quali procuratori, avvalendosi dell’opera di uomini dell’arte, fecero demolire il Coretto,
e murare la porta d’ingresso. Questi gravissimi attentati alla proprietà fanno arditi i ricorrenti d’implorare la giustizia
del Beatissimo Padre a dare quelle disposizioni analoghe alla gravissima circostanza. I ricorrenti devotamente chieggono
la S. Benedizione, e baciando il piede fiduciosi vivono nella giustizia del Beatissimo Padre.
FERDINANDO CARAFA d’Andria.
MARGHERITA CARAFA d’Andria.
(Archivio Vescovile).
2195 — Andrien — Ex audientia SS.mi Cajetæ die 14 maji 1849 ad Congregationem Concilii. L. Card. Altieri — Cajetæ die 15 maji 1849. R. P. Episcopo pro informatione et voto auditis præsertim Capitulo inscriptis, et Promotore Fiscali, qui perquisitis Ecclesiæ et Cancellariæ Episcopalis Libris, et præsertim Actis Sanctarum Visitationum ad effectum inveniendi privilegium, referat de qualitate insignis Benefactoris concurrente in familia oratrice, precesque remittat.
A. TOMASELLI S. C. Subsecretarius.
(Archivio Vescovile).
Eminentissime Pater,
De Controversia inter heredes Ducis Andriæ et Cathedralem meam fervente, cum placuerit S. Congregationi Concilii venerabili
Rescripto dato die 15 maji 1849, humilitati meæ mandare, ut, audito Capitulo, Promotore Fiscali, perquisitis Ecclesiæ
et Cancellariæ Episcopalis libris, et præsertim Actis S. Visitationum ad effectum inveniendi privilegium,
referat de qualitate insignis Benefactoris concurrente in familia (Carafa) oratrice, precesque remittat, ea,
quæ mihi concessum, alacritate, iniuncto muneri satisfacere curavi. Capituli Cathedralis sententiam de re expectavi.
Qua concordi animorum moestitia Capitulum Catedrale (cui tamen de Tribunæ destructoribus propemodum inscio recurrentes immeritissime irascuntur),
qua concordi animorum moestitia preces supplicationesque ingeminaverit, ut immunitati Ecclesiæe tam foede per Tribunam humiliata,
tandem consulat Prima in Orbem totam Immunitatum vindicatrix sacra Romana Congregatio; ipsi videbunt Patres,
cum Conclusionem Capitularem huic meæ relationi adnexam legere dignabuntur.
A Promotore Fiscali quid de tali controversia sentiret, exquisivi, cuius responsionis exemplar S. Congregationi mittere constitui,
ut ipsi Patres illo, quo pollent exquisitissimo judicio perpendant, quanta rationum vi Promotor Fiscalis animo fidenti
senserit recurrentium querimoniam nulla fulciri justitia. Ecclesiæ libros, et Cancellariæ Episcopales,
nec non Acta S. Visitationum a Præcessoribus meis completa diligentissimo scrutinio conquisivi.
In ipsis de jure privilegii a recurrentibus invocato nec ullum inveniri potui vestigium, nec in oratrice familia ullo unquam modo,
vel tempore insignis Benefactoris qualitas refulsit. Ex qua diligenti inquisitione comperi quanta veritatis luce Promotoris sententia resplendeat;
unde ne ab illo observata repetere cogar, uno dicam voto: illius observationibus prorsus subscribendum puto.
Quod tamen a me tacendum non erat, brevibus subiungam, Patres sapientissimi.
A primo die, quo in Templum Cathedralis meæ vestigia pressi, novendecim iam effluxere anni, dolore tactus cordis fui intrinseco,
cum Presbyterii dignitatem primo oculorum ictu Ducalis Fenestræ et Tribunæ ignominia dehonestatam aspexi!
Et intollerabiliorem reddebat servitutem situs ipsius Tribunæ, quæ assurgens intra septa Presbyterii,
dum e fronte Tribunam Episcopi introspiciebat, media stabat inter Chorum Canonicorum et organa Sacerdotum psallentium:
quae organa extra Presbyterium attolluntur. Cum ergo incolarum arbitrio fuisset in Ducali Tribuna quoscumque voluissent admittere,
sæpissime in solemnioribus Ecclesiæ festis eveniebat ut tota currente Ecclesiæ festivitate,
præcipue dum Presul Pontificalia perageret, omnes mirarentur Episcopum suo sacerdotum collegio sacra conficere inferius,
dum superiori Tribuna juvenes e sæculo et mulieres circumornatæ sedebant,
hinc judicantes Canonicorum Chorum a dextris Tribunæ positum, hinc ministros in Organis psallentes,
quæ organa tam minimo distabant a Tribuna intervallo, ut quasi manus manibus jungere difficile non esset.
Ipsi finitimarum civitatum habitatores, qui magno concursu ad Civitatem meam pluries per annum glomerantur,
scandalo tam justo perculsi, Andrienses quotidie cives interrogabant: Qua fieri calamitate,
ut dum fæudalium præjudiciorum relliquias in tota Siciliarum Ditione provvidentissima Principis Sapientia abraserit,
in sola Cathedrali Andriensi tam luttuosa adhuc perstaret Ecclesiæ primæ abominatio?
Mihi interea temporum conditiones non nisi tacendum adhuc ac expectandum consulebant, ipsi Andriensium Ducum heredes,
quibus de tam spurca Immunitatum sanctarum a Precessoribus suis facta violatione pænitendum potius et reparandum erat,
quam ad S. Sedem recurrendum.
Cum ergo nec jura nec privilegia pro recurrentibus pugnet, cum e contrario contra divina humanaque jura illud immane
Tribunæ Ducalis scandalum per tot annos Cathedralem meam fædaverit, quid mihi remanet, Patres Eminentissimi,
nisi effusissimis vos precibus iterum iterumque precari, ut supremo judicio vestro Ecclesiæ meæ sanctitatem
a renovatione doloris tanti salvare decernatis? Hoc clamitant innumeræ definitiones Tribunalis vestri in similibus
controversiis ingeminatæ, hoc sanctum Ecclesiarum decor, hoc totius civitatis meæ desiderium.
Interim dum tantæ sapientiæ fidentissimus expecto beneficium, animo obsequentissimo sacras Patrum Venerabilium purpuras osculari festino.
Dabam Andriæ die XXIII martii MDCCCL. Eminentiæ Tuæ Rev.mæ
Humillimus Servus
† JOSEPH [COSENZA] Episcopus Andriæ.
E.mo ac R.mo D. Card. Præfecto S. Cong. Concilii.
(Archivio Vescovile).