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"LE PASSEGGIATE PUGLIESI"
di Ferdinando Gregorovius
(1821-1891), da "Pellegrinaggi in Italia"; in tedesco: "Apulische Landschaften" (1856-1877)
(stralcio )
Da un pezzo io nutrivo il desiderio di visitare nelle Puglie Lucera,
Manfredonia e il Gargano, il Promontorio sull’Adriatico,
il vero Hagion Oros dell’Occidente, il monte celebre
pel suo pellegrinaggio. Solo nella primavera del 1874 potei appagare il desiderio mio.
Miei compagni, nelle escursioni attraverso il bel paese della Puglia,
furono mio fratello e Raffaele Mariano [ (n.1840 - m.1912)
lo storico e filosofo, e traduttore
di questa edizione italiana delle "Passeggiate Pugliesi"], col quale, venendo egli da Roma,
ci eravamo data la posta a Caserta, ed ivi infatti c’incontrammo.
... ... ... ... ...
ANDRIA
(visitata nella seconda decina di maggio 1874)
Ad un’ora buona da Trani e Barletta è posta Andria,
città della Terra di Bari assai popolosa di contadiname.
L’imperatore Federico II l’amava a preferenza delle altre città pugliesi.
Lì, ne’ pressi, egli fece l’edificio il più bello de’ suoi castelli di caccia:
Castel del Monte. Di tutti i monumenti degli Hohenstaufen nel mezzogiorno d’Italia,
questo è, senza dubbio, il meglio conservato; onde il visitarlo fu lo scopo precipuo
del nostro soggiorno fatto due volte in Andria.
Ma anche la terra è per sè stessa notevole, e la storia sua è parte
non insignificante della storia del feudalisimo nel Reame di Napoli in generale.
Io voglio quindi dirne qui alcunchè.
Le città della Puglia, di un paese che originariamente fu in parte sede di
colonie elleniche, pretendono tutte, con un sentimento di orgoglio scusabile,
derivare l’origine loro da un’epoca mitica. Lo stesso eroe Diomede,
colui dal quale Benevento ripete l’arme del Comune, sarebbe stato anche il fondatore di Andria.
Lo storico della città, Riccardo D’Urso, che pubblicò la sua opera a Napoli
nel 1812 crede che Andria sia la terra che Strabone chiama Netium.
Se non che Netium o Natiolum sarebbe più esattamente da porre là ove ora
sorge Giovinazzo. Sia come si voglia, il fatto è che nè l’antichità ellenica
nè la romana sanno dirci qualcosa di Andria.
Più tardi sarebbe quivi comparso anche San Pietro.
Secondo la leggenda, San Pietro è stato un gran fondatore. Egli è il Diomede cristiano,
l’eroe mitico de’ vescovadi, non essendo facile dire quanti il Principe degli Apostoli,
a cominciare da quello di Roma, n’avrebbe fondati!
Ed ancbe in Andria egli sarebbe stato il fondatore della prima chiesa.
Il patrono intanto della città non è San Pietro ma San Riccardo.
Per circondare anche costui dell’aureola della più remota antichità,
lo si fa venire dall’Inghilterra ad Andria, nell’anno 492.
Nondimeno la serie de’ vescovi di Andria non si può farla risalire più in là
del XIII secolo. Riccardo è un nome normanno. Solo al tempo de’ Normanni
Andria vien su, levandosi all’importanza di una città. È assai probabile
che i fondatori suoi siano stati Normanni appunto, i quali, tolta la Puglia
ai Greci e ai Longobardi beneventani, ordinarono in queste contrade le loro contee.
Come primo conte, e verosimilmente anche come fondatore di Andria, vien nominato
il normanno Pietro, intorno l’anno 1042 o 1046. Egli era conte della vicina Trani.
Con lui e col figliuolo suo, Riccardo di Andria, s’inizia la storia della città,
ch’è un feudo normanno sotto la supremazia de’ conti di Puglia.
Per centocinquant’anni tenne quivi la sua residenza una famiglia di signori normanni,
insino a che la Puglia non diventò un possesso ereditario degli Hohenstaufen.
Ruggiero fu l’ultimo membro di questa famiglia di conti.
Seguace dell’imperatore Enrico VI, egli cadde nelle guerre da costui sostenute
pel dominio dell’Italia Meridionale.
Morto Enrico VI, il Papa s’impadronì momentaneamente della terra
per abbandnarla quindi a Federico II, che se ne fece signore.
Il paese da costui prediletto era appunto questa Puglia piena di sole,
che si distende sul mare con le sue ampie coste in modo incantevole
e dolcemente s’inclina e scende da’ monti, coperti del verde degli ulivi
e di giardini di mandorli, e giù, lungo il mare, è ricinta tutta
di una corona di belle città e di porti.
Egli vi fece costruire i suoi palazzi e luoghi di delizie e castelli di caccia.
Foggia, Castel Fiorentino, Castel del Monte e la foresta de’ Saraceni a Lucera.
Nel duomo di Andria il grande Imperatore fece sotterrare le due sue mogli.
Jolanta di Gerusalemme, che appunto quivi, nel 1228, gli aveva dato
il figliuolo Corrado e di lì a poco morì, ed Isabella d’Inghilterra,
che morì a Foggia il 1º dicembre 1241. Questo fatto già mostra
con quanto speciale favore egli riguardasse Andria:
che altrimenti avrebbe fatto dar sepoltura alle consorti sue
o nel duomo di Foggia, o anche in quello di Trani, la più bella,
la più magnifica cattedrale delle Puglie.
I cittadini di Andria, quelli almeno che non ignorano il passato
della città loro, si gloriano ancora oggi della preferenza cui fu fatta segno
nel medio evo da parte del grande Imperatore. Mentre parecchie città pugliesi
nell’assenza di Federico, essendo egli a Gerusalemme, gli vennero meno
e fecero atto di dedizione al Papa, Andria gli si mantenne fedele.
Appena l’Imperatore fu di ritorno, la cittadinanza gli mandò, come ostaggio,
cinque giovanetti di nobile lignaggio, i quali lo salutarono con questi versi:
"Rex felix Federici veni, dux noster amatus,
Est tuus adventus nobis super omnia gratus:
Obses quinque tene, nostri pignamin’ amoris,
Esse tecum volumus omnibus diebus et horis".
E l’Imperatore rese grazia agli Adriensi, regalandoli di un privilegio:
e alle felicitazioni loro rispose in forma assai squisita e gentile:
"Andria felix nostris affixa medullis,
Absit quod Federicus sit tui muneris iners.
Andria vale felix, omnisque gravaminis expers"
Il primo di questi versi, nel quale il felix è stato mutato
in fidelis, si legge oggi sull’alto di una delle porti della città.
E i Beneventani non sono più fieri dell’arco trionfale di Traiano
di quello che gli Andriesi della loro ritoccata epigrafe.
A Federico vengono attribuiti parecchi altri epigrammi all’indirizzo
di città pugliesi. Capita ancora oggi sentirli, più o meno sfigurati,
ripetere per bocca di persone colte. Sono generalmente motti satirici,
che si riferiscono al fatto dell’avergli le città mancato fede nel 1229.
Non è per nulla improbabile che autore dell’uno o dell’altro di codesti epigrammi
fosse stato in effetti Federico II. Così egli avrebbe punito Bari
con versi fatti incidere su d’una delle porte cittadine; e così pure
vengono ricordati motti dell’Imperatore relativi a Barletta, Trani, Molfetta
ed altre città. Il più aspro e duro sarebbe, senza dubbio, quello toccato a Bitonto:
Gens Bitontina tot capita asinina.
Intanto, morto Federico II, Andria, irritata pel peso de’ balzelli cui doveva soggiacere,
negò obbedienza al figlio di lui, Manfredi, e si rivolse al Baglivo [o Balivo]
della Puglia rappresentante del re Corrado. Manfredi si apprestò a mettere
la città al dovere con la forza; ma poscia, poichè si fu sottomessa, l’assolse;
e da allora in poi Andria restò per sempre fedele agli Hohenstaufen.
Nella sua spedizione in Italia Corrado andò a visitare il luogo dove aveva sortito i natali.
Si dice anche ch’egli s’intrattenesse alcun poco a Castel del Monte.
Più sovente deve essere stato colà Manfredi, dopochè si fu cinto della corona
delle Due Sicilie. Seguendo in ciò i gusti del padre, egli teneva di preferenza
la corte sua nelle città della Puglia. In Trani ebbe luogo il ricevimento
della sua seconda moglie, la bella Elena, figlia del despota di Epiro.
Con la disfatta di Manfredi a Benevento, caduta la Puglia in potere di Carlo Angioino,
anche la contea di Andria mutò padroni. Il nuovo re di Sicilia ne fece
un dominio della corona e, cogiuntala col principato di Altamura,
la diè in feudo al suo secondogenito, Filippo. E, morto costui precocemente,
investì del feudo Raimondo Berlingieri, il figliuolo del suo primogenito, Carlo.
Quindi il possesso di Andria dalla casa angioina andò trasmigrando per molte e diverse mani.
Imperocchè già Carlo II tolse a suo figlio la contea per darla in dote
alla più giovane delle figlie, Beatrice, che andò sposa, nell’anno 1305, ad Azzo d’Este,
marchese di Ferrara. Divenuta vedova nel 1308, costei portò Andria in dote
al suo secondo marito, Beltrando del Balzo. Così la casa de’ Balzo,
ben presto fra i più nominati e potenti signori feudali nel reame di Sicilia,
venne in possesso di Andria e vi si mantenne sin verso la fine del XV secolo.
I Del Ba]zo (Baux) affacciavano la ridicola pretensione di derivare
il loro albero genealogico da Baldassare, uno de’ tre re magi dell’Oriente.
E nella loro arme figurava una stella d’argento con sedici raggi in campo rosso.
In realtà però essi erano oriundi della Provenza, e venuti nel Napoletano
al seguito di Carlo d’Angiò, quando questi ne fece la conquista.
Ugo De Baux si era distinto sul campo a Benevento; e rimane tuttora un frammento
della relazione sulla battaglia scritta da lui. Allorche più tardi,
dopo l’ingresso in Napoli, venne presentato il tesoro di Manfredi a Carlo d’Angiò,
questi commise appunto al cavaliere Ugo la spartizione del bottino.
Ugo sorrise e disse: «E che forse ci vuol molto a spartire ?» e fatte col piede
tre porzioni del mucchio d’oro, soggiunse: « Sire, questa è per voi;
questa, per la regina, vostra consorte; e il resto, pe’ vostri prodi cavalieri.»
Carlo lo investì della contea di Avellino e di Montescaglioso.
Il figlio di questo Ugo fu Beltrando Del Balzo, marito di Beatrice, conte di Andria,
e stipite della grande famiglia imparentata con la casa reale, la cui storia
fa parte essenziale di quella degli Angioini di Napoli.
I Balzo posero la loro sede in Andria, dove abitarono nel palazzo ch’è presso il duomo.
Quivi, nel duomo, fu pure nel 1330 sotterrata Beatrice, figlia di Carlo Il
e sorella del celebre re Roberto. Il suo monumento è scomparso:
rimane appena nella cattedrale di Andria la superba epigrafe, incastrata accanto al coro:
“REX MIHI PATER ERAT. FRATRESQUE ROBERTUS.
LOYISUSQUE SACER. REGIA MATER ERAT.
BERTRANDI THALAMOS NON DEDIGNATA BEATRIX
A QUO DEDUCTA EST BAUCIA MAGNA DOMUS
SI TANGUNT ANIMOS HAEC NOMINA CLARA MEORUM.
ESTO MEMOR CINERI DICERE PAUCA: VALE”.
Beltrando non ebbe da Beatrice che una figliuola soltanto, Maria, che nel 1327
andò sposa al Delfino di Vienna, Umberto. Essa era l’erede di Andria;
ma per trentamila once d’oro cedette al padre la contea; sicchè questa restò
nella casa de’ Balzo. Beltrando passò a seconde nozze, nel 1331, con Margherita,
vedova del conte Luigi delle Fiandre; e Francesco Del Balzo,
il figliuolo che da tale unione nacque, fu il continuatore della stirpe.
Questa potente famiglia ebbe già sin d’allora in sua mano i destini di Napoli.
Quando il giovane Andrea di Ungheria venne strangolato per opera di sua moglie,
la regina Giovanna I, fu precisamente Beltrando che riuscì a salvare il trono
alla bella delinquente. Incaricato dal Papa di procedere nella sua qualità
di Gran Giustiziere del Reame di Napoli ad un’inchiesta sull’assassinio,
dichiarò innocente la nipote. Ed insieme con questa prese la fuga e riparò ad Avignone,
allorchè il re Luigi d’Ungheria, fratello di Andrea, tutto sitibondo di vendetta,
entrò nelle Puglie. Anche Andria in quel tempo, nell’anno 1350,
venne messa a sacco dagli Ungheresi e in parte distrutta.
Beltrando ratificò pure il matrimonio di Giovanna col suo amante e cugino,
il principe Luigi di Taranto, e dette per moglie al proprio figliuolo Francesco,
Margherita, sorella di questo nuovo re di Napoli. In tale occasione Andria
venne elevata a Ducato, e fu il primo Ducato che nel Regno di Napoli esistesse.
I Balzo stavano assai prossimi al trono, e si comprende come non sapessero resistere
all’ambizioso pensiero di occuparlo: ma del loro disegno non potettero venire a capo.
Beltrando morì a Napoli nel 1357 come il personaggio, dopo del re,
di maggiore influenza nel Regno. E a Napoli egli giace sepolto in San Domenico Maggiore.
A maggior grado e considerazione si levò il figlio Francesco. Grazie al suo
secondo matrimonio con Donna Sueva Orsini, i Balzo di Andria si legarono
in stretta parentela con questa famiglia, anch’essa assai potente nel Reame.
Francesco venne a rottura con la regina Giovanna, la quale lo bandì da’ suoi Stati.
Egli andò ad Avignone, e più tardi a Roma, ove indusse il papa Urbano VI
a far sorgere Carlo di Durazzo pretendente alla corona di Napoli.
E così fu colui che più operosamente contribuì alla caduta di Giovanna I.
Il figlio di lui, Giacomo Del Balzo. ebbe la mano della principessa Agnese,
figlia ed erede di Filippo d’Angiò; di modo che divenne duca di Taranto,
del più gran feudo della corona nella casa angioina, cui andava annesso
anche il titolo d’Imperatore di Bisanzio. Nel duomo di Taranto si vede ancora
il mausoleo, che Francesco Del Balzo fece elevare nell’anno 1383
a questo suo celebre figliuolo. Egli stesso, Francesco, morì nell’anno 1420.
Malgrado delle molte tempeste e rivoluzioni attraversate dal Reame,
la stirpe de’ Balzo continuò a sussistere ad Andria, a Taranto e a Napoli,
nella quale ultima città ebbe in Santa Chiara la sua cappella gentilizia.
E di rado s’incontra una pagina della storia di quel Reame, ove non siano scritti
i nomi di questi grandi signori. Essi e gli avversarii loro, i Sanseverino,
furono nel paese le famiglie principesche più possenti.
Nelle lotte tra la casa angioina e l’aragonese i Balzo d’Andria tennero
le parti dell’ultima, con la quale erano, del resto, imparentati.
Nel secolo XV sotto Francesco II, che morì nel 1482 ed è sepolto
in San Domenico di Andria, essi erano ancora in fiore. Poscia andarono giù a un tratto.
Ultimo rampollo della famiglia fu il figlio di Francesco II, Pirro, duca di Andria
e principe di Altamura, che egli aveva comprata. Per sua sciagura s’immischiò
nella famosa congiura de’ Baroni contro Ferdinando I di Aragona,
e nell’anno 1487 il re lo fece uccidere con molti altri grandi del Regno.
Pirro non lasciò che figliuole, delle quali Isabella si era sposata con Federico d’Aragona.
Questi, che fu più tardi l’ultimo e sventurato re di Napoli della casa aragonese,
era figlio di Ferdinando I. Così il Ducato d’Andria toccò a lui.
Poco dopo, per la calata di Carlo VIII di Francia, successero a Napoli profondi rivolgimenti,
e la caduta degli Aragonesi, e in fine la conquista del Reame da parte degli Spagnuoli.
Appunto in quelle guerre tra il gran capitano Consalvo e l’esercito francese
ebbe luogo ne’ pressi di Andria il celebre duello, diventato oramai immortale
sotto il nome di Disfida di Barletta.
Ferdinando il Cattolico, per ricompensare Consalvo de’ resi servigi, lo investì,
fra l’altro, anche del Ducato di Andria nell’anno 1503. Ma, richiamato a Madrid
dal re di Castiglia, Consalvo donò il Ducato di Andria, nel 1515, a titolo di dote
alla figliuola sua; la quale lo portò al marito Don Luigi Guevara De Cordova.
Quando poi, nel 1527, il maresciallo Lautrec compì la sua audacissima spedizione nel Reame,
i Francesi, forse per lavare l’onta della Disfida di Barletta, incendiarono Andria.
Un nipote del Guevara, di nome Consalvo, vendè Andria, nel 1552, a Don Fabrizio Caraffa,
conte della vicina Ruvo; e per tal guisa il Ducato passò nella famiglia Caraffa.
Nel secolo XVII questa contava tra le più forti stirpi baronali del Napoletano
e quasi in grado di sostenere il paragone co’ Balzo.
I Caraffa di Ruvo abitarono per tre secoli nel palazzo di Andria, sino a che
una catastrofe simile a quella che fece cadere in basso la famiglia Balzo,
non venne a colpire ancor essi. Il primogenito della casa, Ettore Caraffa,
conte di Ruvo, era partigiano ardentissimo clella Repubblica che i Francesi,
condotti da Championnet, avevano fondata a Napoli. Nell’anno 1799 andò
in Puglia alla testa di truppe repubblicane insieme col generale Duhesme
per strappare di nuovo la provincia ai Borboni che già avevan preso Andria e Trani.
Ettore condusse egli in persona i soldati all’assalto della sua città nativa;
e quivi si mostra ancora il luogo ove l’audace repubblicano n’ebbe pel primo
scalato le mura. Diecimila Borbonici e la plebaglia fanatizzata da’ preti
difendevano Andria con furore. Nulladimeno i repubblicani vi penetrarono,
e fecero strage della cittadinanza. Dietro il consiglio dell’inferocito Caraffa,
Andria, la sua propria terra, venne ridotta in cenere. Se non che,
sopravvenne ben presto l’abominevole cardinale Ruffo, il quale
s’impadronì di tutta la Puglia. Caraffa si arrese a Pescara.
Ad onta del trattato, fu menato nella prigione di Castelnuovo, dove,
tornati i Borboni, venne giustiziato. Colletta racconta di lui:
« Egli, nobile, dovendo morir di mannaia, volle giacere supino per vedere,
a dispregio, scendere dall’alto la macchina che i vili temono. »
Più tardi, per altro, la casa Caraffa venne rimessa in possesso de’ suoi beni in Andria,
i quali la famiglia, scaduta e impoverita, non ha venduti che da pochi anni a questa parte.
Non le rimane in quei luoghi altra proprietà che quella di Castel del Monte,
il castello degli Hohenstaufen. Più di questo non ho a dire intorno alla storia di Andria.
La città, lontana dal mare poco più di un’ora, giace su di una ubertosa pianura.
Ha alle spalle una ondulata catena di colline, fra le quali si distingue una più alta,
quasi piramide, sulla cui cresta sorge un castello: Castel del Monte.
Tutta la campagna è uno sterminato giardino di mandorli. Qua e là s’avvicendano oliveti,
vigne e anche piantagioni d’aranci; ma il mandorlo predomina.
Chi non conosca le condizioni agrarie della Puglia, sarebbe indotto a pensare
che fra tanta abbondanza di una natura paradisiaca gli uomini vivano sguazzando nelle ricchezze.
Invece non sarebbe piccola la sua maraviglia nel trovarvi solo pochi ricchi possidenti,
e poi moltitudini innumerevoli di campagnoli e braccianti,
condannati ad una vita di stenti e di miseria.
Il Tratturo, l’erbosa ed ampia strada delle greggi immigranti nella Puglia,
rasenta la città. Le mura di questa sono cadute e solo in alcuni punti ne rimangono vestigia.
La città si distende sul piano come una grande macchia bianca, tutte le sue case
essendo imbiancate o costrutte di calcareo della Puglia di un color bianco giallognolo.
Il palazzo ducale de’ Balzo e de’ Caraffa, presso alla cattedrale,
con la sua alta torre costituisce il centro monumentale della città, nelle cui strade,
per altro, molte sono le chiese e le torri, e qui e là anche qualche palazzo.
Città tutta moderna, edificata con pesantezza ma solidamente e,
malgraclo della sua grande spaziosità e de’ trentacinquemila abitanti, con aspetto
e forme tanto poco eleganti o pulite da parere assolutamente un grande villaggio.
Nelle ore del giorno deserta e morta, la sera invece rigurgitava di popolo;
ma, beninteso, di una classe sola, contadini e lavoratori de’ campi,
tutti dalle facce abbronzite, i più da’ tratti ben formati, con le loro giubbe paesane
di fustagno color cilestro. La tranquilla impassibilità di quella moltitudine di uomini,
che stavan là a gremire le piazze, mi colpì in modo singolare. Facevano l’impressione
di un popolo in fondo buono e costumato, che con calma, senza affrettarsi nè scomporsi,
divide il suo tempo tra la fatica e l’ozio. Se non che, il suo riposo
non ha l’impronta di un godere consapevole, di un esistere agiato e piacevole;
rivela piuttosto uno stato apatico sotto il peso di condizioni di esistenza inveterate,
condizioni tristi e tollerate da secoli.
La storia d’Andria si ripete identica in cento altre città del Regno di Napoli,
ove il feudalismo s’era attraverso i secoli stratificato e avviticchiato
come in niun paese del mondo. Storia siffatta deve aver mostrato chiaramente
l’impossibilità per le popolazioni di levarsi ad un grado qualsisia di svolgimento
e di benessere. Essa rappresenta un periodo di oppressione feudale non mai interrotta,
continuata sino ai tempi moderni. Il Barone e gli alleati suoi, i preti,
erarno vere sanguisughe del popolo. Essi si dividevano la proprietà fondiaria:
quasi più della metà del territorio di Andria era in possesso della mano morta.
I Baroni sono in fine scomparsi. Ed anche la proprietà ecclesiastica è stata
in gran parte venduta. Però codesti mutamenti sono stati beneficii di cui
non si sono realmente avvantaggiati che alcuni proprietarii, quelli, cioè,
ricchi abbastanza per comprare i beni messi in vendita. Un ceto di contadini indipendenti
e proprietarii non s’è creato. Le condizioni sono rimaste le stesse di prima:
pochi possidenti, e stuoli infiniti di coloni e salariati.
Le miserie stridenti che da tale stato di cose nell’Italia del mezzogiorno si sono originate,
e la questione sociale che in conseguenza s’è infiltrata e serpeggia in alcune province,
sono state occasione a vivacissime discussioni in seno del Parlamento, come anche nella stampa.
Io voglio soltanto ricordare le Lettere Meridionali del Villari,
apparse nell’Opinione, le quali hanno meritamente levato rumore.
Anche l’esempio di Andria insegna praticamente quanto il sorgere di una borghesia agiata,
fatta ricca mercè il lavoro, e l’industria, dipenda tutto dall’esistenza di un ceto
di contadini proprietarii. La massima parte della popolazione della città si compone ora
di agricoltori e lavoratori dei campi a giornata. Essi non abitano in campagna, ma nella città stessa.
Ogni giorno vanno e vengono a migliaia co’ loro animali dalla città in campagna
e dalla campagna in città: così mi disse il sindaco di Andria, prevenendo anche
la mia domanda, del come mai le strade di un paese costrutto con tanta magnificenza
di materiali non potessero essere tenute con un po’ di nettezza.
Nelle botteghe di merciai ed artigiani si nota per tutto un grado affatto primitivo
di cultura, rispondente appena ai bisogni della plebe contadinesca. Nel medio evo
Andria andava famosa per le sue fabbriche di vasi, le quali assai probabilmente
continuavano le antiche tradizioni della nobile arte che in codesti luoghi aveva
un tempo fiorito. Infatti la vicina Ruvo, miniera inesauribile di magnifici vasi,
de’ quali il Museo Jatta ha una collezione ammirevole, è prova che l’arte del vasellaio
era quivi indigena. Oggi anche la fabbricazione dei vasi si limita allo stretto necessario.
Che popolosi centri siano in Puglia rimasti stazionarii per secoli,
sempre sul livello medesimo di civiltà, vale a dire dediti esclusivamente
alla semplice coltura de’ campi, senza potenza di svolgere dal seno loro
un più alto organismo di vita borghese, è veramente un fatto che mette stupore.
Si pensi un momento ad una città di più di trentacinquemila abitanti ovunque,
in Toscana o nell’Alta Italia, per non par]are della Germania o dell’Inghilterra.
Sicurissimo è questo, che vi si troverebbe una vita organizzata in forme varie e complesse,
la quale andrebbe esplicando l’energia sua in unioni ed associazioni del capitale
e del lavoro e in istituti molteplici, destinati a svolgere la sociabilità
o a promuovere i bisogni artistici e scientifici. Nulla di ciò in Puglia.
Unica istituzione corporativa, che ancora vi sussista, è la secolare e decrepita
associaziolle ieratica.
In città così grandi come Andria mancano locali ove la cittadinanza possa incontrarsi
a geniali ritrovi. Non v’è in generale una locanda, ove viandanti, e fossero anche
di modesta condizione, possano trovar ricovero. Volere o no, devono rassegnarsi
ad andare a stare in qualche taverna che pare un letamaio. Motivo di questo fatto,
anch’esso strano, non è già l’essere Andria sprovvista di strada ferrata.
In Trani stesso trovai la prima locanda della città in condizioni da fare addirittura orrore;
e s’era già nel 1874! Il motivo di cio è da cercare piuttosto nel difetto
di attività produttiva e industriale, nella mancanza di contatti e di scambii,
e nel modo di vita della cittadinanza, la quale, non muovendosi nè svolgendosi,
non ha elevato ancora l’esistenza di locande al grado di un bisogno.
Sicche oggi ancora, come nel medio evo, il viandante è costretto a fare assegnamento
sulla ospitalità de’ cittadini. E qui veramente egli vede apparire il lato pur bello
e luminoso di condizioni siffatte, voglio dire, il continuarsi e persistere
di un’antica e nobile virtù.
Per quel che riguarda noi, l’ospitalità avuta in Andria, presso una ragguardevole famiglia,
di cui è capo un vecchio venerando, il canonico Guglielmi, non poteva essere più amabile
nè più cordiale. Del nipote di lui, Domenico, fervido ammiratore della cultura germanica,
io avevo già in Roma, per mezzo del mio compagno di viaggio, Raffaele Mariano, fatto conoscenza.
Sicchè in Andria ebbi a trovarmi in una casa ove i libri, le idee, le cose della Germania
vengono seguite con studio ed amore vivo e sincero.
A questo proposito mi piace notare che i contatti spirituali tra l’Italia e la Germania
sono ora in sul crescere. Intendo accostamento, non simpatia, quello e non questo
essendo il nome che la relazione amichevole che passa oggi tra i due paesi, veramente merita.
L’amicizia platonica, che gl’Italiani sentono ora pe’ Tedeschi, ha un fondamento saldo
e profondo nella loro stima per la scienza germanica.
Certo, dal 1866 in qua, son venuti ad aggiungervisi anche motivi politici,
i quali momentaneamente possono avere ed hanno alto valore; ma in sè non hanno nulla di duraturo,
nulla di essenziale. Sciaguratamente, la vecchia avversione a riguardo de’ Tedeschi
sta sempre appiattata nel cuore di parecchi Italiani. E, in verità, impressioni radicatesi
nel sentimento popolare attraverso secoli di storia, ne’ quali l’Ilalia,
con o senza sua colpa, fu continuamente la preda di conquistatori germanici
e di dominatori stranieri, non si lasciano strappare in pochi anni.
Le simpatie dell’Italia sono rivolte ancora oggi verso Francia, legata, com’è,
a questa da comunanza di origini e di cultura. La memoria degl’Italiani
non è sì corta da far loro dimenticare l’unica epoca gloriosa del loro muoversi
e sollevarsi in nome del principio di nazionalità; l’epoca in cui Cavour,
sorretto da Napoleone III, potè realizzare i suoi audaci disegni ed ottenere
risultati tanto grandiosi. Solo nel ricordo di quell’alleanza con ia Francia
si affaccia alla mente loro tutta una serie di geniali conquiste compiute
dall’arte di Stato, e di prodi ed onorevoli gesta militari; e solo il ricordo
di quel tempo è scevro per essi dalla coscienza di umiliazione profonda
cui 1’Italia dovette provare nell’anno 1866.
Lo stesso aver perduto Nizza e Savoia non è valso a scemare le simpatie degl’Italiani per la Francia.
Unico ostacolo al formarsi di un’alleanza dell’Italia con Napoleone nel 1870 fu la rapidità delle vittorie germaniche.
E la campagna di Garibaldi, di un patriota che è, senza dubbio.
il rappresentante dell’istinto popolare italiano in favore della causa francese; l’essere egli andato a combattere quella Prussia,
cui pure la patria sua doveva, l’una dopo l’altra la liberazione della Venezia e la caduta del potere temporale del Papa;
non fu semplicemente l’effetto di un fantastico entusiasmo per l’ideale repubblicano,
ma uno scoppio del sentimento di affinità tra i popoli latini. Che se oggi la nuova Italia, costrettavi dalla necessità,
vive riparata all’ombra de’ principii e della potenza della nuova Germania, niuno può dire se non potrà spuntare
il giorno in cui abbia a stringersi invece con la Francia in una lega più intima, più rispondente alle propensioni nazionali.
Malgrado di ciò a noi giova sperare che la forza di alti motivi ideali e pratici insieme
abbia via via a rinvigorire sempre più la stima reciproca, a rendere più strette,
più vivaci le amichevoli relazioni tra la nazione tedesca e l’italiana.
Ciò che separa la Germania dall’Italia è una differenza assai difficile a togliere nella razza, nella religione,
nell’organismo totale della cultura, latina da un lato, germanica dall’altro. Agli Italiani,
al popolo delle forme plastiche bellamente e schiettamente delineate, visto nella sua idiosincrasia naturale e spirituale,
pare che manchi l’intendimento per intere e vaste regioni della natura e dell’attività ideali del popolo germanico.
Parecchie delle cose, che si spiccano appunto dai più profondi recessi della vita interiore del popolo tedesco,
all’italiano rimangono inaccessibili. I tentativi per fare attecchire in Italia la poesia e la musica tedesche
non sono stati pochi, ma sono tutti da considerare come falliti. Noi Tedeschi abbiamo voluto e saputo dedicare
a Dante e a Shakespeare un culto ch’è quasi diventato nazionale. Invece è molto dubbio se i nostri maggiori
poeti e musicisti, quando alle opere loro e alla loro efficacia nel mondo sarà seguito un sì lungo periodo
di tempo come a Dante e a Shakespeare, avranno mai in Italia altari e seguaci.
Nulladimeno, non è un’esagerazione l’affermare che oggidì gl’Italiani guardano con venerazione alla Germania,
come ad una terra sacra, come al tempio del sapere e al tabernacolo del pensiero. Innanzi all’immenso lavoro spirituale
che da tre secoli a questa parte il popolo tedesco ha accumulato in un paese, che fu pure dalla natura
assai mediocremente provvisto, e innanzi al metodo logico col quale ha saputo condurre e fornire codesto lavoro,
i Latini rimangono sopraffatti da meraviglia. Guardando alla scienza germanica, l’Italiano si sente attratto
dal vigore della riflessione, dalla energia speculativa di un pensiero chiaro e conscio di sè, benchè,
a senso nostro, non sempre il più attuoso, dalla vivace spinta a trarne profitto, a tradurre cioè il pensato
in efficacia pratica, in fine dal sentimento, che quella addentro gli accende, del bisogno di riformare
e rinnovare tutto il suo mondo, tutta la sua vita di spirito, aduggiati ed isteriliti dal cattolicismo romano.
E tali sono i motivi che lo inducono ad apprendere la lingua tedesca. Egli vuol sopra di ogni cosa mettersi in grado di comprendere i pensatori tedeschi.
Nel suo libro così ricco di pensiero sul Cavour e la formola Libera Chiesa in libero Stato, il filosofo Vera afferma.
le due manifestazioni supreme e più perfette dello spirito germanico essere Lutero ed Hegel E codesta opinione
mi ripetè pure a voce a Napoli. Quanto a Lutero, un sì alto posto nella vita e nella storia nazionale glielo abbiamo
già noi stessi assegnato. Ma, lasciando all’avvenire il decidere se anche ad Hegel spetti un giorno di occupare
un identico posto d’onore, noi possiamo sin da ora accanto a Lutero porre, quali espressioni tipiche dello spirito germanico,
alcuni altri nomi ed uomini del passato. Chi voglia giudicare dell’attitudine degl’Italiani rispetto alla cultura germanica
deve trovare molto significante questo, che da uno de’ loro più profondi pensatori del tempo presente Lessing e Goethe
e Schelling non siano reputati tenere nella vita dello spirito tedesco quell’alto culmine che Hegel vi prende.
Eppure codesti grandi uomini porgono le più piene, le più perfette testimonianze del contenuto totale
della nostra coscienza nazionale. In essi l’idea riformatrice e la filosofica, onde la Germania è il focolare,
si sono sollevate alla loro realtà artistica. E probabile intanto che il Vera nel suo libro si sia voluto
restringere a riguardare lo spirito germanico solo dal lato della potenza speculativa, perchè, in realtà,
pochi fra i connazionali suoi potrebbero, al paragone di lui, far segno di conoscenza più profonda,
di culto più serio e fervido per la letteratura tedesca.
L’individualità di Lutero va in fine levandosi gigante innanzi agli occhi dell’universale.
Gl’Italiani sembrano di presente comprendere sempre meglio questo fra i grandissimi eroi di libertà nel mondo moderno.
Essi han cominciato a purgarne la eroica figura da quelle brutture onde la letteratura gesuitica l’aveva insozzata e resa irriconoscibile.
E s’accorgono ora che tutto l’incommensurabile lavoro spirituale de’ Tedeschi è un risultato della Riforma,
e che anche la nuova rigenerazione e il dispiegamento di grande potenza da parte dell’Impero Germanico,
hanno a loro presupposizione il pensiero appunto di Lutero. Ad ogni istante ripetono la parola di Machiavelli:
la decadenza morale e politica dell’Italia doversi alla religione de’ preti e della Chiesa.
Se non che poi se ne rimettono ancora oggi mogi o indifferenti nelle mani di quei preti appunto, i quali,
ora come prima, dominano assoluti sulla coscienza loro e nella loro scuola, e a quella chiesa papale il cui fine
è l’onnipotenza ieratica, e i mezzi sono l’assoggettamento del pensiero scientifico e la distruzione dell’esistenza politica
della nazione. Incapaci. inetti essi stessi a congiungere col pensiero politico il concetto riformatore
(l’unica via per la quale un popolo possa sentire in sè l’energia nuova della vita), gl’Italiani guardano con rispetto
ed ammirazione alla Germania. Colà veggono un popolo, la cui coscienza non si lasciò incatenare dalla menzogna pretina,
e il cui Stato s’adagia non su una morta formola politica, ma sulle potenze vivificatrici della scienza.
Per diverse che siano le vedute loro dalle nostre, specie se ispirate alla formola astratta del Cavour,
circa le misure del così detto Kulturkampf, pure essi non possono a meno di riconoscerne il valore e l’importanza
per l’Europa in generale; e comprendono pure che uno stato il quale ripete l’origine sua dal principio della Riforma,
ha missione e diritto di andare innanzi per le sue proprie vie.
Appunto le lotte in cui la Germania s’è impegnata con la Chiesa romana e col gesuitismo, e la caduta del potere temporale de’ Papi,
hanno ravvivata in Italia la ricordanza degli Hohenstaufen. Sicchè oggi le figure eroiche di Barbarossa, di Federico II
e de’ successori suoi guadagnano anch’esse sempre più in grandezza; e alla luce del presente il significato
loro nel passato e nella vita della civiltà si fa di mano in mano più perspicuo e più intelligibile.
Qui in Andria sono parecchie le strade che han preso nome dagli Hohenstaufen.
Tali nomi, apposti di recente, fan fede che negl’Italiani è spuntata
una nuova coscienza del loro passato; una nuova intuizione della storia:
osservazione codesta che accade oggi fare spesso nelle città italiane.
Parlando di Manfredonia, ho avuto già occasione di dire il pensier mio intorno
all’argomento, deplorando lo spirito violento, vandalico con cui non di rado
si procede nel ribattezzare le città. Sin qui, come in Roma così pure
nelle altre città d’Italia, le strade in massima parte toglievano i nomi
dalle chiese e da’ santi cui queste erano dedicate.
La Chiesa era, insomma, riuscita ad imprimere per tutto nella vita del paese
il suo suggello e i nomi del suo calendario. Ed ogni volta che sia fattibile,
la nuova generazione non tralascia di cancellare dalle città i dati
e segni medievali o, per dir meglio, le leggende chiesastiche, sostituendovi
i ricordi nazionali e cittadini: un sistema che non lascia niente a ridire
sino a che non si distrugge quello che, rispetto ai luoghi, ha un senso
ed un significato. Non sempre si è stati fedeli in Andria a siffatta regola,
avvegnachè anche qui ne’ nomi messi a caso appaia non di rado un procedimento
molto arbitrario. Che si sia, per esempio, dato a, strade nomi
di cittadini meritevoli, quali Flavio de Excelsis ovvero Carlo Troya,
il noto ministro liberale napoletano del 1848, il deputato storiografo
che ebbe in Andria i suoi natali, è cosa che si comprende.
Ma niuno saprebbe dire il perchè vi siano strade intitolate da Salvator Rosa e da Cimarosa.
Vi sono in Andria piazze e strade, che prendon nome da Federico II,
da Corrado IV e da Manfredi; e vi trovammo pure una Via Jolanta,
e una Via Pier delle Vigne. La Via Federico II di Svevia è la continuazione
della lunga Strada Corrado IV. Essa conduce alla porta Sant’Andrea,
là dove si legge l’epigrafe già notata:
“IMPERATOR FEDERICUS AD ANDRIANOS:
ANDRIA FIDELIS NOSTRIS AFFIXA MEDULLIS 1230”.
Questa ch’è l’ultima delle antiche porte della città che ancora sussista,
è stata restaurata il 1593 in stile barocco. Le sta accanto la più antica delle chiese,
Sant’Andrea, e di là da questa il rione Le grotte di Sant’Andrea,
che stando agli antiquarii del luogo sarebbe stato il primo, l’originario nucleo della città.
Il quartiere è un laberinto pittoresco di vecchie case con portici e terrazzi,
abitato dalla più misera plebaglia, da’ Frascari, gente che trae
i mezzi ad una tapina esistenza, vendendo fasci di frasche secche.
Se Andria ebbe monumenti medievali del tempo degli Hohenstaufen, essi sono scomparsi
tutti nelle catastrofi onde fu vittima sotto gli Angioini e gli Aragonesi,
e da ultimo nell’incendio del 1799. A quest’ultimo spaventevole disastro si deve pure
la perdita di parecchi monumenbi nelle chiese e di altri pubblici edifizii.
Appena poche delle prime furono allora risparmiate. Alcune serbano ancora
la loro facciata primitiva e la porta: così è della chiesa Porta Santa,
semplice ma bella costruzione con cupola e volte incrociate.
Il nome lo ripete dalla leggenda, secondo la quale San Pietro sarebbe entrato
nella città. per la porta che le è prossima. Corrado IV n’avrebbe gettate
le fondamenta, e re Manfredi l’avrebbe fatta condurre a compimento.
Ma queste non sono che incerte supposizioni. Dato che l’edificio in realtà
rimontasse originariamente al tempo degli Hohenstaufen, è certo che fu
più tardi restaurato; sicchè ora lo si direbbe assolutamente opera della Rinascenza.
Su’ due pilastri che fiancheggiano la bella porta sono due ritratti in pietra
in forma di medaglioni, e si dice che l’uno rappresenti Federico e l’altro Manfredi,
ma senza alcun fondamento, essendo entrambe le immagini d’origine affatto moderna.
Più antiche sono le chiese di San Francesco, con chiostro in stile gotico,
i cui portici vennero una volta ornati d’affreschi ora corrosi dal tempo;
di San Domenico, anch’essa con un chiostro simile, ma in rovina, dove è sepolto
il duca Francesco II Del Balzo; e di Sant’Agostino, originariamente
la chiesa de’ Templari, con una notevole porta gotica di un bel disegno
e con eccellenti sculture nella lunetta. La chiesa fu data all’Ordine
de’ Cavalieri Teutonici da Federico II, il quale, per altro, nel 1230
dotò 1’Ordine di parecchi beni in quel di Andria. I Templari, del rimanente,
possedevano ovunque nelle Puglie ricche commende, come le abbazie
presso Siponto, presso Terlizzi e Cerignola, e grandi ospedali
a Brindisi e Barletta. La loro chiesa in Andria passò, nel 1387,
nelle mani degli Agostiniani. Le tre chiese nominate sono
i più importanti monumenti in istile gotico, il quale non s’è
conservato che in pochi altri edifizii; nel palazzo Torre, per esempio.
Il Duomo di San Riccardo, concepito pure secondo un disegno gotico,
ebbe a subire parecchie trasformazioni, specie l’anno 1463,
per opera del vescovo Antonio de Joannocto. È una chiesa
di ampie proporzioni con tre navate eguali; ma non offre nulla
di veramente notabile. I monumenti che una volta sorgevano nell’interno,
sono scomparsi. Indarno cercammo alcuna traccia de’ mausolei delle due imperatrici
Jolanta ed Isabella. Le due mogli di Federico II furono sepolte
in una cappella sotterranea, la quale venne più tardi adibita come ossuario
e quindi murata. Per poter di nuovo osservare i mausolei imperiali
e leggerne gli epitaffi bisognerebbe sgomberare la cappella,
rimuovendone le ossa che vi sono ammucchiate.
Proprio accanto al Duomo è il palazzo de’ Duchì di Andria, grande edifizio quadrato,
che già da lungo tempo ha perduto il carattere medievale, le torri e i merli.
Quivi fu l’abitazione de’ Balzo, e poscia de’ Caraffa. L’incendio del 1799
lo danneggiò, distruggendo insieme in massima parte l’archivio ducale;
ed il residuo rimasto ancora salvo quando più tardi i Caraffa alienarono il palazzo,
venne venduto ai pizzicagnoli: così almeno mi fu affermato da cittadini di Andria.
Il palazzo fu acquistato da un ricco possidente della città, il signor Spagnoletti.
Così l’antica residenza feudale di conti e di duchi passò nelle mani
di un semplice borghese; destino toccato già a moltissimi castelli e palazzi
di celebri famiglie nell’ex-Regno di Napoli.
Non manca in Andria qualche casa privata di costruzione non spregevole,
appartenente a ricche persone del luogo: così quella della famiglia Ceci
nella strada Sant’Agostino, la migliore e la più pulita della città.
Anche il Municipio, che dispone di vistose entrale, ha edificato una bella casa comunale.
Ritratti de’ Balzo e dei Caraffa ornano le pareti della grande sala:
se ne mostra pur uno, che sarebbe di Corrado IV, ma è naturalmente un’immagine di fantasia.
Ad un’ora da Andria, in aperta campagna, è il luogo della celebre Disfida di Barletta.
Colà, il 13 febbraio 1503, tredici cavalieri italiani si misurarono con altrettanti
scelti cavalieri francesi; un duello, cui furono occasione alcune espressioni ironiche
e sprezzanti da parte de’ Francesi circa l’inettitudine belligera degl’Italiani.
Il gran capitano Consalvo, comandante in capo dell’esercito spagnuolo, teneva allora
il suo quartiere a Barletta e cercava sconfiggere i Francesi e cacciarli dalla Puglia.
Sotto le sue bandiere, al soldo di Spagna, militavano parecchi Italiani,
specie cavalieri della casa Colonna. L’importanza militare d’Italia era caduta
tanto bassa che non a torto era fatta bersaglio ai sarcasmi de’ Francesi.
Questo paese che in sul cominciare del XV secolo poteva ancora vantarsi
di avere grandi condottieri, quali Sforza e Braccio, le cui istituzioni guerresche
eran venute in splendida fama, ora invece era diventato così fiacco, così impotente,
che Carlo VIII di Francia potè correrlo tutto, dalle Alpi sino a Napoli,
e conquistarlo con sproni di legno agli stivali e in mano la matita,
secondo la mordace espressione di Alessandro VI, per assegnare alle sue genti
i quartieri nelle varie città. La sfida, mossa dagli Italiani, tornò ad onore della patria loro.
Il cavalleresco duello valse a mostrare che nello sciagurato paese,
dilacerato dalle fazioni intestine, corso, calpestato da Spagnuoli e Francesi,
se erano venute meno la forza e la virtù politiche, viveva pur sempre l’antico valore degli avi.
Sicchè il duello assunse significazione nazionale; e, veramente, giammai
non ne fu combattuto altro che avesse per sè motivi più ragionevoli e più legittimi.
Ordinatori della pugna furono, per l’una parte e per l’altra, i più celebri uomini
di guerra in un tempo così ricco di eroiche individualità: il prode cavaliero
Baiardo e il romano Prospero Colonna; e giudici e testimoni, i più valorosi
delle due schiere avversarie, appartenenti alle tre nazioni latine.
Si era stabilito che ciascun vinto avesse a cedere al vincitore i cavalli e le armi,
e pagare cento ducati d’oro. I bravi ed allegri Francesi, nella loro innata arroganza,
si tenevano tanto sicuri della vittoria che nessuno di essi pensò di portar seco
la somma di danaro fissata. Se non che, l’esito fu assai diverso da quello ch’essi s’aspettassero:
un Francese restò morto sul terreno; gli altri, feriti tutti e menati
nel Castello di Barletta, donde, solo dopo aver pagato il prezzo del riscatto,
furono cortesemente lasciati andare.
Il successo assai glorioso pel nome d’ltalia è stato materia a numerose descrizioni
fra i contemporanei come fra i posteri. La vanità francese ebbe ad essere degnamente rintuzzata,
il che fu anche presagio di questo, che le armi di Francia avrebbero in Napoli
a toccar presto la peggio. Tutta Italia ne fu piena di gioia.
Solo al patriottico giubilo si mescolava l’umiliante sentimento,
che la cavalleresca vittoria non era stata a vantaggio della libertà della patria,
ma combattuta ed ottenuta all’ombra del vessillo del conquistatore spagnuolo,
il quale di lì a poco doveva ridurre sotto gli ordini suoi mezza Italia.
Comunque, il luogo è per gl’Italiani a ragione sacro, perchè è pure colà
che da un periodo di lunga ignominia potè quella risollevarsi alla coscienza di sè.
Senza dubbio, questo campo di battaglia di uomini valorosi ove non combatterono,
gli uni contro gli altri, che ventisei guerrieri in tutto, merita di essere calpestato
con un sentimento di più vivo, di più intimo interesse, che non cento altri campi
di battaglia, ove vennero al cozzo e versarono il loro sangue eserciti interi
pe’ capricci di teste coronate o per le brame d’ingordi conquistatori.
Il luogo è sopra un terreno piano in mezzo a vigneti. Lo indica un monumento in pietra
che ha forma di un sepolcro antico, terminato in cuspide.
Il popolo lo chiama Epitaffio. Fu elevato nell’anno 1583 dal duca
Ferrante Caracciolo, prefetto di Terra d’Otranto. L’iscrizione suona così:
Quisquis Es Egregiis Animumn Si Tangeris Ausis
Perlege Magnorum Maxima Facta Ducum
Hic Tres Atque Decem Forti Concurrere Campo
Ausonios Gallis Nobilis Egit Amor
Certantes Utros Bello Mars Claret Et Utros
Viribus atque Animis Auctet Alatque Magis
Par Numerus Paria Arma Pares Aetatibus Et Quos
Pro Patria Pariter Laude Perisse Juvet
Fortuna Et Virtus Litem Generosa Diremit
Et Quae Pars Victrix Debuit Esse Fuit
Hic Stravere Itali Justo In Certamine Gallos
Hic Dedit Italiae Gallia Victa Manus
OPT. MAX. EXERCITUUM DEO.
FERDINANDUS CARACCIOLUS ÆROLÆ DUX
CUM A PHILIPPO REGUM MAX.
NOVI ORBIS MONARCA
SALENTINIS, JAPIGIBUSQ. PRÆFECT. IMPERARET
VIRTUTIS, ET MEMORIÆ CAUSA
OCTOGINTA POST ANNIS
ANNO A CHRISTO DEO NATO MDLXXXIV.
PATRIAE GLORIAE MONUMENTUM
CAPITULUM TRANENSE REFECIT MDCCCXLVI
Tornando ad Andria dopo aver visitato il monumento, pigliammo la via di Corato,
piccola città leggiadramente edificata in pietra calcarea bianca e giallognola,
tutta circondata da vigne ed oliveti. Non ci era accaduto quasi mai vedere
in Puglia un paese dall’aspetto così ameno e pulito. Poichè n’ebbi espresso
la mia meraviglia, mi fu detto la nettezza provenire da questo, che i contadini
non abitano in città, ma su’ campi. E il modo in che anche quest’ultimi,
specie le vigne, sono tenuti, e una meraviglia a vedere. Ad ogni tratto
sorgono casucce in forma di piramidi, lì, sul luogo, chiamate caselle,
formate di pietre calcaree messe insieme senza cemento: servono a riporvi
gl’istrumenti e le suppellettili agrarie ed anche di giaciglio pe’ guardiani.
Io avevo un motivo speciale per visitare Corato. Questa è Quadrata o anche Curiata
che l’infelice Don Alfonso d’Aragona ebbe insieme con Bisceglie, dalla Corona di Napoli,
e portò come bene matrimoniale alla sposa sua, Lucrezia Borgia.
E infatti a poca distanza da Corato si può vedere anche Bisceglie, anticamente Vigilia,
graziosa città marittima dalle bianche case e dalle molte torri.
Alfonso ne fu duca; e il titolo di duchessa di Bisceglie Donna Lucrezia continuò a portarlo
anche dopo che suo fratello Cesare ebbe fatto strozzare il marito.
Al tempo della sfida di Barletta Donna Lucrezia viveva già a Ferrara;
ma Corato e Bisceglie appartenevano sempre al suo piccolo figliuolo Rodrigo.
Lo stesso Cesare Borgia, nel 1502, allorchè egli e suo padre Alessandro
s’eran fatti fervorosi partigiani della politica di Spagna, ebbe dal re Ferdinando
il Cattolico insino la nomina di Duca di Andria — Dux Handrie. —
Per tal guisa fu il prededessore di quel Consalvo che solo un anno più tardi
lo prese in Napoli, a tradimento, prigioniero, e lo fece trasportare in Spagna,
e venne quindi egli stesso investito dalla Corona spagnuola del feudo di Andria.
Da Corato si va in meno di due ore a Ruvo, diventata celebre dal principio del secolo
qual ricettacolo di vasi antichi di terra cotta. La città, abitata da più forse
di dodicimila anime, anch’essa, al pari di Corato ed Andria, posta
in mezzo a campagne feracissime, soprattutto vinifere, è per sè affatto insignificante.
Della sua origine indubitabilmente greca, fanno fede i sepolcri antichi
che si trovano ogni dove, non solo fuori, in campagna, ma anche nel bel mezzo della città.
Dalle rappresentazioni figurate su molti de’ vasi che ne furono estratti,
specialmente dalle scene relative alla leggenda di Teseo e ad altri miti attici,
il signor Giovanni Jatta, colto cittadino ruvese, ha indotto che Ruvo
debba essere stata un’antica colonia attica.
... ... ...
CASTEL DEL MONTE
Castello degli Hohenstaufen in Puglia
Dalle montagne della Puglia una lunga catena di colline si dirama,
in direzione sud-est, nella Terra di Bari e, volgendo per Altamura e Gravina,
va sin quasi alle prime alture che chiudono il golfo di Taranto.
Sono le Murgie. Corrono lungo il confine della Basilicata,
formando un paese montuoso, dalle linee uniformi, monotone,
deserto ed incolto, parte rivestito di querceti, parte spogliato di alberi e brullo.
Le pendici però offrono pascoli eccellenti; e qui da tempo immemorabile
è il ritrovo di pastori e cacciatori. La catena giace parallela al mare,
dal quale dista poche miglia appena.
Da essa, già a grande distanza, dalla costa come dal piano, si vede emergere,
quasi piramide, una verde collina. tutta nuda d’alberi, e in vetta solo solo un castello,
nessun altro edifizio scorgendosi al di là nè al di sopra.
È il celebre Castel del Monte. Guardato di lontano, appare affatto rotondo
e senza torri. Solo le pieghe e le forti ombre che si proiettano
da quella massa circolare di pilastri e di mura danno anche in lontananza
a pensare ch’essa formi un ottagono, con torri mozze in ciascun angolo.
Punto centrale, caratteristico, visibile assai da lungi, messo lì a dominare
una pianura immensa, il popolo gli ha dato nome di
Belvedere o Balcone delle Puglie.
Veramente, si potrebbe con più ragione chiamarlo la Corona delle Puglie:
esso poggia lassù, sulla cresta della collina, proprio come una corona murale.
E a me, a vederlo col sole declinante accendersi di porpora e d’oro,
apparve appunto così, come la corona imperiale degli Hohenstaufen
che si posasse sul magnifico paese.
Il signor Marchio, è sindaco di Andria, c’invitò a visitare con lui
il castello di Federico II, e di andare all’uopo a Palese, un suo podere,
ove egli con la famiglia passava il maggio. La tenuta è appunto sulle Murgie,
e solo a un’ora di distanza dal castello.
Assai lieti tenemmo l’invito. Il 12 maggio, di buon mattino,
correvamo in carrozza la via da Andria a Palese, accompagnati
da alcuni signori della famiglia Spagnoletti che andavano a cavallo.
La strada, attraverso i campi, era in sul cominciare carrozzabile.
Poscia, fra cespugli e luoghi incolti, si fece aspra e difficile:
una semplice strada di campagna, sulla quale incontrammo qui e là
avanzi della Via Appia. Dopo quasi due ore eravamo a Palese,
grossa fattoria tutta sola, sul declivio delle Murgie, fra arbusti di querce,
e all’intorno pascoli e seminati. Nell’entrare la famiglia ci venne incontro
a salutarci con grande cordialità: uomini vigorosi, ricchi di salute
e floridezza, nature semplici e piene di spontanea ingenuità:
noi ci sentimmo già come persone di casa.
Uno sguardo dalla corte di Palese sulle deserte e tranquille contrade intorno intorno,
mi fece chiaro perchè Federico II avesse scelto proprio questo luogo
per porvi il suo castello di delizie. Il nome, in verità, di castello
di delizie non è il più esatto, Castel del Monte essendo invece un castello di caccia.
La natura non presenta qui quelle forme belle, come, ad esempio, sul golfo di Napoli,
le quali invogliano a costruire con lusso principesco parchi e ville.
Il paese, destinato al pascolo, è piuttosto monotono e quasi melanconico.
Verdeggianti valli vi si avvicendano non incolte e frastagliate colline;
il che lo rende assai adatto alla caccia del falcone. Noi possediamo ancora
l’opera che il grande Imperatore scrisse sopra quest’arte della caccia,
di tutte al tempo suo la più nobile, la più eletta. Da ornitologo consumato
egli vi descrive con mano maestra i modi di vivere, le peregrinazioni e, in breve,
tutta la natura degli uccelli. A codesta opera egli dovette, senza dubbio,
attendere ne’ momenti di ozio in alcuno de’ suoi castelli di caccia.
E di castelli destinati alla caccia del falcone egli ne aveva parecchi
in Puglia e nella Lucania, a Foggia e a Gioia, ad Apricena ed Avigliano.
Ove che egli fosse o andasse, i suoi falchi e i suoi falconieri lo seguivan sempre.
Di tutti i castelli però Castel del Monte era il più grandioso;
ed è da credere che quivi appunto il grande Imperatore si dedicasse
con maggior frequenza al suo esercizio prediletto.
L’andata a cavallo al castello è tra le più belle ricordanze de’ miei viaggi.
La cavalcata si componeva di sette persone. I cavalli, di razza pugliese,
avevano forme grosse e forti. I signori che ci tenevan compagnia, tutti uomini
rigogliosi e robusti, s’erano armati di fucile a due canne, e posero anche
in arcione le pistole. Le Murgie, come la Sila nelle Calabrie, non sono
sempre state il luogo più sicuro di questo mondo. Ora però di briganti qui
non si sente più nulla. I nostri compagni si armarono più a scopo di caccia,
ovvero per ottemperare ad un’abitudine che da lunga età si mantiene nel paese
e da tutti viene fedelmente osservata. Il vederli insieme, andare su e giù
fra campi e colline, così forti a cavallo, faceva grande effetto.
È proprio un diletto l’attraversare a cavallo queste incolte e solitarie campagne,
il poter respirare le balsamiche aure di maggio, tutte impregnate del profumo
di mille fiori, e il vedere laggiù in fondo scintillare l’azzurro cupo del mare,
e di sopra il cielo etereo e trasparente che stringe in un amplesso mare e terra.
Qui Elio lancia davvero dardi infiammati! I quali però, nel maggio almeno,
non hanno forza di offendere. La luce di questo cielo, quasi vino spumante,
inebria l’animo: la si gusta, la si sorbisce avidamente: spazza via dallo spirito
le nebbie, quelle morbose esalazioni che negli uomin del Settentrione sono cagione
di cupe e misteriose disposizioni, la noia dell’esistenza, il dolore universale,
l’umor disperato e pessimista — vero tormento dell’immaginazione!
La luce è gioia: essa sgranchisce l’anima e, pari in ciò alla musica,
la pone in contatto immediato con l’universo. Quando colaggiù il sole
più forte dardeggia, per me è stato sempre come se all’anima e al corpo
s’aggiungessero fiamme, che porgono loro le ali e li elevano.
L’adorazione del sole ne’ Persiani, come il culto di Apollo cui l’Ellade
deve la civiltà sua, possono ben dirsi forme di religione degne degli uomini e degli dei.
E chi vorrà trovare a ridire se gli Hohenstaufen non sapessero risolversi
a far di meno de’ loro possessi pugliesi, di queste terre ricche di sole e di luce,
e se per tenerle combattessero senza posa, sino a che l’ultimo di loro stirpe gloriosa
non fu caduto sul campo stesso della pugna?
Via via cavalcando su per le verdi colline, il maraviglioso castello ci stava
sempre dinanzi agli occhi, e con le sue mura ingiallite ci si disegnava più netto e spiccato.
Questo solitario monumento di un grande passato non evoca nessuna ricordanza
di guerre e battaglie. Non ripone neppure in mente congiure di corti, nè misfatti politici,
nè intrighi di Papi e di preti. In quella pacifica dimora noi andiamo a visitare il luogo,
dove il geniale Imperatore, nella quiete serena della campagna, si dedicava agli studii
e ai piaceri della caccia. E nondimeno, anche in questo quadro tutto dolce e idilliaco,
non mancano ombre torbide e tetre. Qui appunto, in questo castello, noi c’imbattiamo
negli ultimi degli Hohenstaufen, negli sciagurati nipoti di Federico II, ne’ figiuoli
di Manfredi; che ci mostrano le loro catene e con lugubre accento ci raccontano
i loro patimenti infiniti.
Sapevo già che Castel dei Monte era fra i castelli di Federico II il meglio conservato.
Infatti i palazzi di lui a Foggia, a Capua, a Lucera, come pure i castelli di delizie
a Castel Fiorentino e a Lago Pesole sono andati in rovina. Pure, non fu piccola
la mia meraviglia nel trovare il superbo edifizio in condizioni molto migliori che non m’aspettassi.
Certo, all’interno è devastato, ed anche di fuori, in alcuni punti, assai malconcio;
ma è lontano ancora dall’offrire allo sguardo uno spettacolo di spaventosa ruina come,
per esempio, il castello di Eidelberga. Con le sue pareti e le sue torri lo si vede invece,
quasi da ogni lato, intero nella sua originaria struttura; sicchè l’impressione
che se ne riceve, è come se s’avesse dinanzi un edifizio intatto.
Il castello è un ottagono. Ad ogni angolo ha una torre rotonda e mozza,
così poco sviluppata che appena s’eleva più in su del cornicione esterno delle pareti.
Il materiale è pietra calcarea delle Murgie stesse, di un bel colore giallo chiaro,
ben tagliata e sfaccettata e insieme commessa con precisione e pulitezza ammirevoli.
Guardandolo nel suo tutto, sembra una costruzione marmorea e non ha nulla
che lo faccia assomigliare ad una fortezza.
Le sue forme sono di una purezza e semplicità veramente classiche, e a vederle
si rimane stupiti, e si ha un alto concetto di quel che fosse l’architettura
in questo paese al tempo degli Hohenstaufen. Evidentemente, l’ideale dell’antichità
l’aveva penetrata tutta: si crederebbe qui di avere dinanzi un edifizio
del periodo aureo della Rinascenza. Le apparenze e tendenze pesanti
del castello medievale sono superate. Gli stessi caratteri dello stile gotico
vi appaiono purificati, fatti più limpidi grazie al sentimento antico della forma.
Porte e finestre sono, è vero, gotiche o mezzo gotiche; ma gli archi acuti
ornati e congiunti insieme con cornicioni, frontoni, pilastri e colonne,
arieggiano la forma antica e classica.
Non è facile trovare, e forse neppure immaginare, un concetto architettonico
eseguito con maggiore regolarità matematica. Un disegno fondamentale di una semplicità
unica è stato qui attuato, il quale pure accoglie in sè una ricchezza grande di particolari e,
senza dare nel fantastico, si mantiene elegante e nobile sempre.
Tutto è concepito in armonico complesso, dove le parti sono rigorosamente legate,
ricondotte ad un solo e medesimo principio: complesso leggiero,
bene slanciato ed insieme solidamente compatto.
Il concetto era questo: intorno ad una corte centrale formare un ottagono, appoggiandolo
a torri rotonde, e costruire quindi due piani, de’ quali ciascuno contenesse otto sale.
In ogni vano, tra due torri, si apre una finestra gotica. Anche tra due torri,
dal lato orientale prospiciente il mare, è l’ingresso: porta marmorea, ad arco gotico,
classica per le forme del cornicione e delle colonne in marmo rosso,
poggiate su due leoni in pietra calcarea, assai ben lavorati.
Qui, dove tra le torri e le colonne è la porta, sta pure, di sopra, la più ampia
e grande delle finestre del castello, partita nel mezzo da due colonnine;
mentre le altre non ne hanno che una sola. [Il Gregorovius ricorda male: la trifora non è sull'ingresso.]
Dalla porta s’entra nel pianterreno con otto sale che comunicano insieme.
Lunghe venti passi e larghe dodici, sono sostenute ne’ quattro angoli
da grosse mezze colonne di breccia rossa con capitelli che ricordano l’ordine corintio.
Sulle colonne scendono gli architravi delle volte. Originariamente
intorno intorno alle superbe sale correva uno zoccolo di marmo in forma di muricciuolo;
e di marmo hianco e roseo erano anche rivestite le pareti.
Questi ornamenti, come i pavimenti, essi pure in lastre di marmo,
sono stati tutti strappati via, meno qualche vestigio che ancora qua e là n’è rimasto.
Le volte erano lavorate a mosaico. Le porte fra le sale sono inquadrate
con marmo rosso. Grandi finestre in istile anticheggiante sulla corte ottagona
danno luce alle sale; e sulla corte stessa si aprono dal pianterreno tre piccoli usci,
tutti a sesto acuto; ma non del medesimo disegno.
Nel centro di quella è una cisterna, ora piena di macerie e coperta di cardi
e piante selvatiche.
Dal pianterreno mediante scale a chiocciola di pietra, praticate nelle torri,
si accede alle otto sale del piano superiore, ov’era la dimora dell’Imperatore.
Quanto a spazio e alle sue disposizioni identiche affatto alle sottostanti,
si distinguono da queste per maggior lusso ne’ fregi ornamentali.
Agli angoli non mezze colonne di breccia rossa, ma fasci di tre colonne
di marmo bianco con capitelli compositi. Non tutte le sale hanno finestre
sulla corte: ne contai cinque, che ne son senza. In una si veggono ancora
gli avanzi di un camino di marmo; iu un’altra una cavità, a forma d’imbuto,
corrisponde col pianterreno, e sembra aver servito di portavoce.
Le finestre, che danno sul di fuori, hanno parapetti molto profondi,
rivestiti di breccia rossa. Per sei gradini di marmo si sale ad un muricciolo,
dal quale si può, sedendo, godere la veduta. Ho già notato, che sull’ingresso
verso oriente è la più grande delle finestre. La sala nella quale si apre non ha,
come le altre, due porte, ma una sola; sicchè è l’ultima e chiude la serie.
Non è a dubitare che fosse questa la stanza più sontuosa,
nella quale l’Imperatore amasse intrattenersi di preferenza.
Egli l’avrà fatta ornare con la magnificenza propria del suo tempo, la quale,
per altro, si rivela in tutto il castello. Federico II amava il lusso orientale.
Ambasciatori dell’Oriente gli portavano in dono tappeti, vestimenta,
i più preziosi drappi di seta. Se non gli ambasciatori, ne lo fornivano
le sue navi di commercio, ovvero le sue fabbriche in Palermo.
Non sappiamo nè quando nè quante volte l’Imperatore venne a soggiornare
a Castel del Monte, e se vi fosse accompagnato dalla consorte.
Il numero degli ospiti non potette esser mai molto grande.
Sedici sale non potevano bastare ad accogliere un seguito numeroso.
Allorchè il grande Hohenstaufen, fattosi alla finestra di quella maggior sala,
guardava laggiù, ai piedi suoi, il mare e la campagna, egli si vedeva dinanzi
il suo prediletto paese di Puglia, una terra magnifica, una immensa terrazza,
che scende al mare, coperta di campi e giardini rigogliosi, piena di greggi ed armenti,
seminata tutta di turrite città e castella.
E qui gli uni dopo gli altri gli dovevano sfilare nella fantasia Elleni, Romani,
Cartaginesi, Bizantini, Goti, Longobardi, Saraceni, Normanni, de’ quali ultimi
il padre suo, Enrico VI, mediante Costanza di Sicilia, era diventato erede.
Ed anche la propria vita sua doveva fornirgli materia a rimembranze innumerevoli.
Come profondamente pensoso avrà guardato il mare, riandando il tempo in che,
scomunicato dalla Chiesa, andò ad imbarcarvisi per Gerusalemme,
e fece di colà ritorno — egli, l’unico monarca che si fosse levato di sopra
agli angusti intenti della Chiesa, e delle Crociate, di cui questa si fece promotrice!
Le otto torri agli angoli esterni sono assai sporgenti. Quattro di esse
formano piccole camerucce esagone, a volta. Hanno un diametro di venti piedi.
Nella feritoia di una di esse trovai tre uova di uccello di color rosso pallido,
più grosse di quelle di colombo. Erano lì l’uno accanto all’altro sulla nuda pietra,
e di nido non v’era segno. Il giubilo che provai per questo ritrovamento, fu grande:
le uova erano di falcone. L’uccello di rapina che venne quivi a deporle,
discendeva indubbiamente in linea retta da uno de’ nobili falchi di Federico II;
e chi non vi crede, si provi a dimostrarmi l’errore. Di ritorno a Palese,
prendemmo con noi il piccolo tesoro: sciaguratamente un uovo soltanto
potei portarmi sino a casa intatto.
In due delle torri rimangono ancora le scale a chiocciola, che conducono sul tetto,
o meglio sulla terrazza del castello, coperta con lastre di pietra.
Tutte le torri sono mozze, ed io dubito che abbiano mai avuto una cima
in forma di cupola o di cono. Sulla sommità di ognuna ci è un serbatoio
di acqua piovana. Il panorama del mare e della campagna che dall’alto
del tetto si offre alla vista, è davvero incomparabile.
Lassù si comprende perchè il castello sia stato chiamato il Belvedere delle Puglie.
Il lembo delle coste, dal grandioso baluardo del Gargano, da Manfredonia e Siponto,
giù giù, sino alle prode avvolte come in tenue velo trasparente di Bari,
Monopoli e Brindisi, si dispiega tutto innanzi agli occhi dello spettatore.
In riva al mare è una lunga serie di città in parte antiche e famose,
le città marittime della Puglia, e poi quelle dell’interno, da Lucera sino a Canosa e a Ruvo.
Volgendosi dal lato della terra, stanno di contro le montagne di Basilicata,
tutte color porpora, col Vulture vulcano spento presso Melfi, dalle forme superbe;
mentre a destra si distende aspra e dirupata la catena delle Murge.
Indarno cercai nel castello iscrizioni del tempo degli Hohenstaufen.
Solo incastrate nelle pareti della corte ve n’ha alcune del tempo de’ Balzo o de’ Caraffa;
ma non si può più leggerle. Anche il busto in marmo di Pier delle Vigne
che una volta deve esservi stato, non mi riuscì scoprirlo in alcun luogo.
Lo stesso degli avanzi di una piccola statua in rilievo, rappresentante
l’imperatore Federico II, la quale Demetrio Salazaro ha di recente descritta
come opera eccellente.
(1)
Sull’alto di un muro nella corte, vi è soltanto un bassorilievo,
annerito e mutilato; ma non mi venne fatto distinguerne le figure.
Pure raffiguri una donna che timida sta innanzi ad un gruppo di guerrieri.
Vi è di sotto una enigmatica iscrizioni: sono sigle non decifrabili.
Si pretende che Castel del Monte, già innanzi di Federico II, fosse una fortezza.
Prima i Longobardi avrebbero qui costrutto una specie di osservatorio militare,
cui diedero il nome di Guardia Lombarda.
Poscia i Duchi normanni vi avrebbero edificato un castello, chiamandolo Bellomonte.
Stando a queste opinioni, che non hanno per sè alcuna autenticità,
l’imperatore Federico non avrebbe che abbellito il castello già elevato da’ Normanni.
Ma quale oggi esiste e ci sta dinanzi Castel del Monte è essenzialmente creazione
di un solo e stesso artista, lavoro di un solo e stesso tempo, e tutto di un getto,
tanto che, a parte pochi particolari secondarii, è impossibile scoprirvi
epoche diverse nella costruzione. Il tempo in che venne edificato, sembra essere l’anno 1240:
così almeno appare da un decreto di Federico, datato da Gubbio, il 29 gennaio
dell’anno medesimo. L’architetto della splendida opera e rimasto ignoto.
Se il suo nome fosse conosciuto, la classica creazione gli assicurerebbe l’immortalità.
Di edifizii circostanti non vidi traccia; ma che ve ne dovessero essere,
non è da porre in dubbio. Come e dove avrebbe altrimenti trovato ad alloggiarvi
tutta la servitù al seguito dell’Imperatore e gli attrezzi per la caccia e i cavalli?
Nel castello stesso non v’era posto. Certo, la sommità della collina non presenta
alcuna superficie atta ad edificarvi su. V’è pure che, circondato da altri edifizii,
il castello avrebbe in gran parte perduto il suo scopo e il suo effetto archotettonico.
Per tanto è da ritenere che quelli sorgessero giù, al basso della collina,
in un piccolo luogo chamato Casale di Castro, con una chiesa di Benedettini,
Santa Maria del Monte. Dal nome della chiesa il castello venne,
talvolta già al tempo di Federico, e sempre poi a partire da Carlo Angioino,
chiamato non Castrum Montis, ma Castrum Sanctae Mariae,
con e senza l’aggiunta del Montis.
Morto Federico, il castello come dominio della corona andò in eredità
al figliuolo Corrado. La tradizione in Andria afferma insino che proprio lassù
Corrado fosse nato, e la madre Jolanta vi fosse morta. Ad ogni modo,
da Barletta e da Trani. ove in modo autentico sappiamo che egli s’intrattenne
nell’inverno deil’anno 1252 e nel maggio del susseguente, Corrado IV
sarà certamente ito a visitare la tomba dell’Imperatrice in Andria
e il castello di suo padre. Reca veramente maraviglia che nessuno
degli Hohenstaufen abbia mai datato da Andria o da Castel del Monte
alcuno de’ suoi rescritti. Ciò mostra che il soggiorno in quei luoghi
o non fu mai lungo, o sempre scevro dalle gravose cure di Stato.
Più tardi per Manfredi la preferita fra tutte le ville fu il castello
edificato dal padre sul Lago Pesole; il che però non vuol dire
che egli non sia mai stato a Castel del Monte. E quivi appunto
i figliuoli di lui dovevano una volta languire e consumarsi fra le catene.
II
A me piace fermarmi a discorrere alquanto del
destino dell’infelice moglie di Manfredi e dei figliuoli:
è un racconto che in parte si connette col castello che abbianlo visitato
(2).
Caduto Manfredi sul campo di battaglia a Benevento, la moglie Elena fuggì
con i figli dalla fortezza saracena di Lucera, ove era rimasta,
prendendo la via del mare. Intenzione sua era d’imbarcarsi e cercar salvezza
presso i congiunti in Epiro. Sciaguratamente, venti contrarii impedirono
l’uscita delle galere dal porto di Trani; onde la regina, piena di fiducia,
si pose sotto la protezione del castellano della città. Ma l’inquieto
e pauroso uomo la consegnò, il 6 marzo 1266, ai cavalieri di Carlo Angioino
che la inseguivano. Essa fu in principio con i figli tenuta in custodia
nel Castello di Trani. I figli eran quattro: Beatrice, allora di sei anni,
Enrico di quattro, e i più piccoli Federico ed Enzo.
Un mese più tardi, il re Carlo si fece venire dinanzi Elena sul Lago Pesole
ove si trovava.
L’ordine di lui, mandato all’uopo di là il 5 aprile,
al Giustiziere di Terra di Bari, Pandolfo di Fasanella, si conserva ancora.
Non sembra verosimile ammettere che la prigioniera in questo angoscioso viaggio,
che doveva condurla alla presenza di colui che era cagione della rovina
di ogni felicità sua, fosse stata accompagnata da’ figliuoli.
La vedova di Manfredi apparve innanzi allo spietato vincitore in quel castello
medesimo che per lunghi anni era stato per lei e pel marito la più prediletta,
la più gioconda delle dimore. È difficile supporre che solo curiosità
o desiderio di godersi lo spettacolo della miseria inducesse Carlo
a far menare colà la prigioniera. Piuttosto è da ritenere che egli avesse
in vista un qualche scopo politico. Da lettere di poco posteriori,
tra il papa Clemente IV ed il Re, apparisce che si trattava allora
di unire in matrimonio l’infante Don Arrigo di Castiglia con una delle figlie
di Michele, despota dell’Epiro. E sembra fondata la congettura che appunto
con questo disegno di matrimonio si collegasse l’apparizione di Elena a Lago Pesole.
Don Arrigo, fratello di Alfonso il Savio, del re eletto de’ Romani
e stretto congiunto con Carlo Angioino, aveva fornito a quest’ultimo,
per la conquista nell’Italia del Mezzogiorno, ingenti somme, le quali però
non gli venivano rese. Il re Carlo voleva indennizzarlo per altra via, e soprattutto
sbarazzarsi del creditore che temeva veder presto venire da Tunisi in Italia.
Si studiò quindi tenerlo a bada con proposte di matrimonio e col fargli balenare
l’eventualità di una grande carriera in Oriente. Delle trattative corse
per dare sposa a Don Arrigo una figlia del despota Michele, padre della vedova
di Manfredi, non si può dubitare. Altrettanto indubitabile non pare
la recisa affermazione messa su di recente che si trattasse non di altra figlia,
ma di Elena stessa; affermazione nata dal fatto che nelle lettere
non è mai menzione del nome di battesimo della futura sposa.
Il voler unire in matrimonio la giovane vedova di Manfredi, che per ragion dotale
aveva diritto all’isola di Corfù e a parecchie altre terre in Epiro,
con l’ardito ed irrequieto Don Arrigo, progetto simile poteva per certi motivi
essere bene spuntato nel]a mente del Papa; ma, certo, non era tale da accordarsi
con le viste e con l’arte di Stato dell’Angioino. Il consentire a siffatta unione
sarebbe importato questo, che Elena, anche quando essa soltanto senza i figliuoli
avesse ottenuto libertà, avrehbe fatto sicuramente del secondo marito
un pretendente alla corona di Napoli; senza dire che Don Arrigo dal canto suo
avrebbe potuto contare per ciò sopra il forte appoggio di Castiglia non solo,
ma anche di altre potenze e de’ ghibellini d’Italia. de’ quali per giunta
il fratelio suo, Don Federigo, commilitone di Manfredi a Benevento, seguiva le parti.
Il divisato matrimonio sarebbe apparso di poco meno pericoloso, dove non Elena,
ma una terza figliuola di Michele fosse stata la destinata ad essere sposa dell’Infante.
Ma che questa terza figlia esistesse, non si sa. Sappiamo solo che Elena
aveva una sorella Agnese, la quale però era maritata con Guglielmo Villehardouin.
Dell’enigmatico incontro della sciagurata prigioniera con l’Angioino a noi
non è giunto più altro. Ignoriamo quindi di qual natura fossero le offerte
che a quella furono fatte. o le pretensioni che le vennero imposte
(3).
Se si vuol credere che le fosse realmente stata fatta la proposta di dar la mano
a Don Arrigo, mentre l’amato suo sposo, Manfredi, da un mese appena giaceva esanime
sotto il mucchio di pietre presso Benevento, il non essersi l’unione verificata
dà luogo a pensare che o Elena vi si rifiutasse sdegnosamente, ovvero,
quando non avesse avuto essa forza morale sufficiente a ciò, Carlo medesimo la sventasse.
La vista della bellezza, della gioventù e della infelicità della vittima
non valse a scuotere quel cuore di macigno. Il vincitore non mirava
che ad uno scopo solo: assicurarsi il trono col mettere tutti i pretendenti
di casa sveva nell’impossibilità di disputarglielo.
Presto si appropriò anche Corfù e gli altri paesi appartenenti ad Elena.
Neppure si sa dove la Regina, dopo l’incontro, fosse menata. Solo è assai verosimile
che da Lago Pesole la si traducesse direttamente nel castello di Nocera,
città tra Castellamare e Salerno. Il primo documento nel quale sia parola
della sua dimora colà, è
un rescritto di Carlo, datato da Capua, il 13 marzo 1267.
Egli vi nominava castellano di Nocera il cavaliero Radulfo De Faiello,
affidando in pari tempo a questi la custodia della vedova di Manfredi;
ma de’ miseri figliuoli non è menzione.
Qualcuno ritiene che Elena venisse da lor separata sin dal primo momento;
che Carlo facesse condurre i figli maschi di Manfredi prima nel castello di Canosa
e poscia a Castel del Monte; e che la principessa Beatrice fosse messa in prigione a Napoli
(4).
Crudeltà così diabolica di strappare alla madre i figliuoli in età tanto tenera,
si può ben supporla nel re Carlo, quando anche il fatto, almeno per l’anno 1266,
non possa dirsi incontrovertibilmente accertato. Non fu, del resto,
un sentimento ispiratogli dalla religione o dall’umanita, quello che indusse
l’Angioillo a risparmiare la vita de’ piccoli eredi di Manfredi.
Un suo cenno sarebbe bastato, perchè incogliesse loro la sorte medesima
de’ figliuoli di Eduardo: egli li lasciò in vita in sul principio,
perchè l’età novella li rendeva a lui innocui, e più tardi perchè,
per ragioni di Stato, ciò gli parve potergli tornare utile.
La regina Elena nel suo carcere di Nocera viveva ancora al tempo
del rapido successo e poscia della presta fine di quel Corradino,
cui il marito Manfredi aveva una volta tolta la corona del padre di lui, Corrado IV,
per cingersela egli stesso. Se il castellano fece giungere sino all’orecchio
di lei le notizie della spedizione vittoriosa di Corradino e dell’alleato suo,
Don Arrigo di Castiglia, come non dovette essa sentirsi addentro rimescolar
tutta per speranza e timore insieme! All’appressarsi del giovane Hohenstaufen
parecchie città di Puglia si erano levate in suo favore.
Anche Andria, la fedele, spiegò la bandiera di casa sveva,
e cacciò via la guarnigione angioina che dovette riparare a Castel del Monte.
Ora, se sul campo di battaglia presso Tagliacozzo, il battuto fosse stato
non Corradino ma Carlo, Elena e i figliuoli avrebbero potuto riacquistar libertà,
ma avrebbero potuto pure, per un ordine subitaneo cader morti,
prima che i liberatori venissero a picchiare alle porte delle loro prigioni.
Senonchè Corradino pagò col capo la sua impresa; e il vincitore, satollo di sangue,
lasciò in vita i figli di Manfredi, dai quali oramai non aveva più nulla da temere.
Un paio d’anni ancora la povera Elena languì nel carcere di Nocera,
dove le veniva misurato con lesinerìa il sostentamento. Pure, esagerano quei
che pretendono averla Carlo d’Angiò fatta trattare come mendica.
La somma di quaranta once d’oro, quante erano annualmente destinate al mantenimento di lei
e della sua servitù, poteva certamente bastare appena al più stretto necessario;
nulladimeno, alla vedova di Manfredi era stato per lo meno consentito
avere de’ servi ed usare una parte del suo corredo.
Intorno al tempo in che la morte scese pietosa a trarla dalle sue sofferenze,
ci porge in fine lume un rescritto di Carlo I. Datato da Sutri nell’Etruria romana,
l’11 marzo dell’anno 1271, e indirizzato al castellano di Nocera,
è concepito in questi termini: «Noi ti ordiniamo, al giungerti del presente,
di lasciar liberamente uscire con le loro cose dal castello di Nocera le damigelle
(
domicellas) e l’intera famiglia della fu Elena, la sorella del Despota,
senza recar loro offesa o molestia di sorta. Farai soltanto dal Maestro
Niccolò Buczelus prender nota del loro nome e cognome, affinchè egli provvegga
le damigelle di una scorta sicura che le accompagni colà, dove desiderino andare
(5).»
Questo rescritto ci rende certi che Elena, nell’anno 1271, viveva sola nella prigione,
separata per la barbara crudeltà di Carlo da’ figliuoli.
La famiglia, onde nel rescritto è parola, s’intende agevolmente che fosse,
secondo l’antico uso italiano, la famiglia erano tutti i servi,
i famigli di una stessa casa. A costoro, per esser morta la prigioniera regina,
era concesoo libero il passo dal castello. La vedova di Manfredi morì di ventinove anni,
negli ultimi del febbraio o ne’ primi del marzo 1271, e dovette aver sepoltura
in qualcuna delle chiese di Nocera. Ma riuscirono inutili le mie indagini colà
per raccogliere alcuna notizia intorno al luogo, ove venne sepolta:
nessuno a Nocera seppe dirmene il minimo che.
Anche il castello sul monte che soprasta la città, e che fu il luogo di prigionia di Elena,
è già da tempo diruto; e de’ vecchi castelli in rovina è ora uno fra’ più belli d’Italia.
L’inventario della mobilia lasciata dalla defunta porta la data del 18 luglio 1271.
Venne d’ordine sovrano compilato dal castellano di Nocera, Enrico Di Porta,
e trasmesso alla Camera Regia in Napoli. In questo documento troviamo indicato
ciò che ancora rimaneva di tutto quello che era stato permesso alla Regina
di prender seco nella prigione: ornamenti muliebri, perle e pietre preziose,
servizio da tavola d’argento, bronzi, un forzierino d’avorio, la guardaroba,
con l’osservazione alla più parte degli oggetti vetus et consumptum,
tappeti, mantelli, abiti di broccato d’oro: logori avanzi di una passata grandezza!
Al lettore curioso non sarà discaro poterlo scorrere intero questo inventario:
Unum vetus segium de panno ad aurum consumptum et vetustum.
Item mantellum unum de biuctoo infodratum de minuto vairo.
Item tunicam unam de eodem panno.
Item supertunicale unum de eodem panno infodratum de minuto vairo.
Item carrafiam unam argenteam sine coperculo.
Item chifum unum argenti deaurati cum pede, ponderis unius marce et quinque unciarum.
Item VI scutelle de argento planas sine signo, ponderis undecim marcarum.
Item duo barrilia de argento, quorum unum est fractum, ponderis VII marcarum, et sex unciarum.
Item unum caldarium de brunzo.
Item candelabrum unum de argento sine signo ponderis II marcarum.
Item pottum unum de brunzo.
Item tappetum unum de Romania vetus et consuptum.
Item concam unam de brunzo depictam.
Item bacile unum de argento cum anulo argenti, ponderis V marcarum, VI unciarum, XIV sterlingorum et demidii.
Item cafariam unam de argento fractam ponderis VI marcarum et unius uncie.
Item carpitam unam vergatam veterem et consumptam.
Item duas bunettas magnas da burello.
Item capam unam ad manicas infodratam cendato celesti.
Item duo scrinea rubea.
Item duo aurifrisia.
Item scrineum unum de ebore.
Item cappulas duas ad aurum.
Item corrigatam unam ad argentum ponderis unius marce.
Item cippum unum virgatum ad duo capita orenczatum cum seta rubea.
Item zippas quinque ad aurum cum seta alba.
Item garlandam unain cu1n XX petiis de auro cum smaragdis et pernis.
Item peciam unam que vocatur supercendatum rubeum munitum pernis et aqnilis de auro cum smaragdis, pernis et smaltis in quibus consistunt triginta tres saffiri.
Item octo pecias cum pernis et esmaltis in quilbus consistuntt triginta tres saffri.
Item origentales tam parvi quam magni et XX balesii.
Item XL granatas et VIII safiri de pondio et CXXIII grossi perni.
Item duo scrinea nigra.
Item sambucam unam de samito rubeo infodratam cendato ialino dependentem a sella cohoperta aigentea et munita pernis, in quam erant pectoralia de argento et streugue in cujus pectorale defciunt campanelle VIII.
Item duo bocaria di ere.
Item sedile unum.
Item duos urceolos argenti, quorum unum ponderat VIII marcas et alium VII marcas et dimidie.
La morte della madre non segnò per gli sventurati figliuoli che il cominciamento
di un periodo di maggiore miseria. Di essi i più innanzi negli anni erano già grandi
tanto da potersi render conto intero del destino loro.
E quant’orribile questo fosse, non vi sono parole per dirlo. Dove, a quel tempo,
i tre giovani principi si trovassero, s’ignora. Anche la loro sorella Beatrice
era stata tolta alla madre, poichè del soggiorno di lei a Nocera non s’incontra mai traccia.
Solo il 5 marzo 1272, vale a dire un anno dopo la morte di Elena,
la troviamo nominata come
prigioniera nel castello di San Salvatore a Mare in Napoli,
oggi Castel dell’Ovo.
Bentrice sembra essere stata colà trattata con dolcezza, o almeno con riguardo.
Pel suo mantenimento riceveva due tarì d’oro al giorno, e per assisterla
e servirla le si era data una donzella. Accanto a lei,
nel castello medesimo, era tenuta prigione la figlia dello zio di Manfredi,
il conte Giordano Laucia. Questi, una volta potente e magnifico signore,
era stato fatto prigioniero presso Benevento. Evaso da un orrido carcere
in Francia, era stato poscia ripreso; in conseguenza di che gli vennero,
per ordine del Re, cavati gli occhi e mozze le mani e i piedi;
ed egli, a porre termine a sì tremendo martirio, si lasciò morir di fame.
Castel dell’Ovo era allora prigione di Stato ed insieme, per la sua
incantevole posizione sul mare, un luogo di delizia assai amato dagli Angioini.
Nel tempo appunto in che Beatrice vi giaceva, giovani principi e principesse
della casa reale andavano a farvi soggiorno. E, per strano caso,
in un altro sotterraneo del castello era allora rinchiuso un uomo che si era dato
pel re Manfredi, e fu preso nell’anno 1273.
Più tardi questo pseudo-Manfredi fu mandato prigione a Castel del Monte.
Infrattanto de’ fratellini di Beatrice non si ha nuova nè novella.
Intorno ad essi non s’incontra mai motto ne’ registri di casa angioina,
durante tutto il regno di Carlo I. Evidentemente, desiderio del Re era
che pigliasse piede la credenza, che fossero morti.
Ed anche sotto il regno del figliuolo e successore suo, Carlo II,
il primo indizio dell’esistenza loro non va più in là del 1291,
quando, come appare da documenti, i tre principi erano a Castel del Monte.
Pure, rimane ignoto dove passassero un sì lungo periodo di anni.
In documenti dell’anno 1284, riguardanti Castel del Monte e i prigionieri di Stato
che vi eran tenuti, non è la bencbè minima parola di loro.
Però codesto silenzio aveva i suoi motivi; onde non è lecito argomentarne
che i figli di Manfredi non si trovassero allora per anco rinchiusi in quello
che fu il castello di delizia degli antenati loro.
Piuttosto nulla contrasta con la supposizione ch’essi vi stessero già da molti anni.
Intanto scoppiò la grande catastrofe, il Vespro Siciliano, che,
come giudizio della Nemesi vindice ed inesorabile, venne repente a colpire
il tiranno angioino. Gli eroici Siciiiani insursero nell’anno 1282.
La corona del loro paese diedero a Don Pedro d’Aragona, marito di Costanza,
figlia questa di Manfredi, natagli dalla prima moglie Beatrice di Savoia.
Così gli Hohenstaufen, sotto le vesti della casa regnante aragonese,
apparvero di nuovo in Sicilia. Due anni più tardi, il 5 giugno 1284,
il principe ereditario, figlio di Carlo I, alla battaglia navale nel golfo di Napoli
fu battuto e fatto anche prigioniero. Il vincitore Roggiero di Loria,
ammiraglio de’ Siciliani, si presentò immantinenti innanzi a Castel dell’Ovo,
e con la forza ottenne che gli si consegnasse la figlia di Mlanfredi.
Per tal guisa, dopo una prigionia durata non meno di diciotto anni,
la principessa Beatrice venne liberata, condotta in trionfo a Messina,
e colà festosamente accolta dalla sorellastra, la regina Costanza.
E poco di poi andò sposa di Manfredi, figliuolo del Marchese di Saluzzo.
De’ figli di Manfredi Beatrice fu l’unica che ricuperasse la libertà.
È evidente intanto che a quel tempo, nel giuguo del 1284, i fratelli suoi
non si trovavano insieme con lei in Castel dell’Ovo. Se vi fossero stati,
Beatrice, anzicchè uscire di prigione senza di loro, avrebbe, di certo,
preferito di continuare a rimanervi. L’ammiraglio, ad ogni modo,
avrebbe appunto in questo momento dovuto domandare anche la lor liberazione
e consegna, facendo tacere le ragioni di Stato aragonesi, le quali,
più tardi, consigliarono di non più farlo.
Morto Corradino, i figli di Manfredi erano gli unici eredi legittimi
de’ diritti degli Hohenstaufen. Per questo nè Loria pensò allora ad esigere
che fossero scarcerati dalla fortezza lontana da Napoli ove trovavansi,
che non sappiamo quale propriamente fosse; e vi pensò ancora meno Don Pedro,
tuttochè la vita e la morte del principe ereditario Carlo stessero in sua mano.
Ma l’esser questo principe prigioniero valse almeno a salvare la vita di quelli.
Carlo I non poteva osare di farli uccidere allora. Il feroce tiranno morì,
in preda al furore e alla disperazione, a Foggia, il 7 gennaio 1285.
Solo nel novembre 1288 il successore suo, Carlo II, potè ottenere di esser liberato
dalla prigionia in Catalogna, grazie specialmente all’intercessione del re di Inghilterra.
Però fra le condizioni poste alla sua liberazione non ve n’è alcuna che riguardasse
la sorte de’ figli di Manfredi. Don Giacomo, figlio del re Don Pedro,
morto nel 1285, e di Costanza, venne riconosciuto signore di Sicilia;
ma i figliuoli di Manfredi furono lasciati a giacere nella tetra oscurità del carcere.
Per questi primi Aragonesi di Sicilia è un obbrobrio incancellabile l’aver
così abbandonato i parenti, senz’aiuto, alla loro sorte miseranda.
La sorella stessa, la regina Costanza, non fece nulla per loro.
Nell’anno 1297, essa andò a Roma; e quivi le due case nemiche, l’angioina e l’aragonese,
fecero pace e si legarono insino con vincoli di parentela.
La figlia di Manfredi diede in isposa la propria figlia, Violanta, a Roberto di Napoli.
Fra i rumori delle feste per la riconciliazione non fu pensato ai poveri figli di Manfredi,
consumati dalla fame. O vi si pensò solo con freddezza e indifferenza,
forse non più di quanto fosse necessario ad attutire la voce della coscienza:
qualche istanza perchè i patimenti fossero alleggeriti, e poi null’altro.
Eppure la regina Costanza, che aveva preso l’assoluzione per mano del Papa,
era diventata bacchettona da non si credere; e, come tale, morì a Barcellona, l’anno 1302.
A scusarla in parte, vogliamo bene ammettere che essa si sentì inetta,
impotente a vincere le rimostranze che il Papa, Napoli ed Aragona le opponevano.
Oltraggio, la religione de’ grandi della terra giunge sin lì,
dove la ragion di Stato comincia: più in là, religione equivarrebbe a follia!
Traditi in ogni speranza che gli avvenimenti, in seguito al Vespro Siciliano,
avevano dovuto loro svegliare addentro, l’unico avvenire che i figli di Manfredi
potessero oramai aspettarsi era un’eterna prigionia, lo stesso destino
subìto già dal loro nobile zio, Enzo, altro figliuolo naturale di Federico
e re di Sardegna, che fu tenuto prigione da’ Bolognesi per non meno di ventidue anni.
In Castel del Monte erano anche in quel tempo altri prigionieri illustri,
vecchi ghibellini, amici o congiunti alla stirpe degli Hohenstaufen.
Vi era, dall’anno 1267, 1’infante Don Arrigo di Castiglia, ex-Senatore di Roma,
il più fiero nemico di Carlo d’Angiò. V’era pure Corrado, figlio del conte
Riccardo di Caserta e di Violanta, figlia naturale dell’imperatore Federico lI.
I due nobili uomini, stati commilitoni di Corradino, furono dopo la battaglia
di Tagliacozzo tradotti prigionieri nel castello di Canosa, città a due ore da Andria,
visibile dall’alto di Castel del Monte, e resa celebre da Beomondo, l’eroe normanno.
E colà restarono insino a’ primi dell’aprile 1277.
Poscia, per un ordine di re Carlo I, datato da Bari il 28 marzo di quell’anno,
furono trasportati a Castel del Monte.
A motivo di Donna Bianca, madre di Carlo, l’Infante era a costui stretto congiunto.
Solo questa relazione di famiglia, come pure l’essere egli imparentato
con altri potenti sovrani, gli avevan fatto scampare la morte.
Però nessuna intercessione, per premurosa che fosse, de’ monarchi di Spagna,
di Francia e d’Inghilterra potette smuovere il Re a render la libertà al cugino suo.
Gli archivii ci hanno serbato alcune risposte di Carlo a siffatte istanze e preghiere.
E vi sono anche rescritti i quali permettono, usando però ogni possibile precauzione,
di visitare il prigioniero a persone mandate specialmente dalle Corti aragonese
ed inglese per informarsi dello stato dell’Infante.
Don Arrigo, come il Conte di Caserta, riceveva pel mantenimento giornaliero tre tarì d’oro,
e a sua disposizione stavano pure due servi. Per ciascuno de’ figli di Manfredi
non v’era invece che la meschina somma di cinquantaquattro grani per giorno,
e di servi per loro non si fiata neppure.
Infine agli sforzi del re Eduardo d’Inghilterra riuscì di ottenere la liberazione dell’Infante,
che era fratello carnale di sua moglie, Donna Eleonora di Castiglia.
Il 5 luglio 1291, Carlo II ordinò al suo luogotenente, il Conte d’Artois,
di lasciare uscire Don Arrigo da Castel del Monte.
Così lo sventurato Infante potè ricondursi nella patria sua, in Castiglia;
ed ivi morì, non affranto da’ patimenti, non abbattuto dal fiero destino,
e circondato di stima e considerazione, nell’anno 1304.
Corrado, il suo compagno di sventura, l’ultimo dell’antica casa de’ Conti di Caserta,
restò in Castel del Monte insieme con la moglie Caterina di Gebenna,
sino a che anche ad entrambi non fu, nell’anno 1304, accordata libertà.
Solo pe’ figli di Manfredi non vi fu alcuno che sentisse pietà.
Come lo abbiamo notato, si trova fatta menzione di loro, e precisamente
quali prigionieri in Castel del Monte, soltanto in un rescritto reale dell’anno 1291.
Dovremo noi raffigurarci alcuna delle sale del castello al pianterreno
o al piano di sopra, come il luogo destinato alla custodia degl’infelici?
Certo, un castellano non chiuso a sensi di umanità lo avrebbe ben concesso
ai nipoti di un imperatore, ai figli di un re. Io credo però che anche Carlo II
avrà trovato quegli spazii pe’ figli di Manfredi troppo grandi e troppo belli;
onde li avrà fatti tenere rinchiusi nelle stanzucce delle torri.
Imperocchè questo medesimo sovrano, il quale pure aveva saggiato
l’amarezza della prigionia, sebbene in un luogo di custodia ben altrimenti
decente e degno, e per uscirne fuora aveva implorato l’intercessione
di tutte le potenze d’Europa, fu tanto crudele da far rimanere sempre in catene
quei principi che di tutti i suoi prigionieri di Stato erano i più innocenti.
Fra le catene essi erano venuti su e s’eran fatti grandi.
Da bambini diventando giovanetti, e da giovanetti uomini, avevano potuto misurare
il crescere de’ lor corpi e de’ lor patimenti dal mutarsi e dal sempre crescente
appesantirsi dei ceppi cui erano avvinti, sempre vestiti e nudriti da pezzenti.
E di sicuro fu con deliberato animo voluto che ignoranza e miseria facessero
di loro degli idioti. Notizie di un tempo posteriore ci fanno sapere
che li avessero accecati e mutilati. Però la verità di tali asserzioni sfugge
ad ogni apprezzamento, e vi hanno rescritti reali che le rendono non degne di fede.
Il 18 giugno 1295, Carlo II ordinò da Anagni al figlio Carlo,
che teneva le sue veci nel Regno, che gli fossero senza remora mandati i figli di Manfredi.
Il rescritto suona così: «Vi sono in questo momento motivi i quali rendono assai opportuno
il liberare dalIa prigionia Enrico, Federico ed Enzo, figli di Manfredi
del fu principe di Taranto, che trovansi rinchiusi nel nostro castello di Santa Maria del Monte.
Noi ti ordiniamo adunque di mandare a noi senza dilazione e sani e salvi
il nominato Enrico e i fratelli suoi, di farli uscire dalla prigione del castello
e sotto legale e sicura scorta venire immediatamente a noi.
Intanto comandiamo al tempo stesso con altre lettere al castellano, cavaliero
Stormito De Guagnonville, di consegnare al nostro messo i prigionieri.»
Per rendersi conto di ordine sì inopinato bisogna sapere, che a quel tempo
papa Bonifazio VIII, presso del quale il Re di Napoli si trovava, s’era fatto
mediatore di pace tra costui e Giacomo d’Aragona, figliuolo di Costanza.
In conseguenza dell’accordo il re aragonese, messo allora in condizioni assai difficili,
rinunziò al possesso della Sicilia; la qual cosa, per altro, non andò ai versi de’ Siciliani.
E l’ordine di Carlo II era l’adempimento di una condizione posta dalla Corte aragonese.
A questa le pretensioni degli eredi legittimi di Manfredi non potevano dare più ombra,
una volta che s’induceva a rinunziare alla Sicilia.
Se e in qual misura e guisa al rescritto di re Carlo fosse stata data esecuzione,
noi non sappiamo. Che i tre principi fossero stati lasciati a piede libero non è da pensare.
Anche rimossi per un momento dal loro carcere, Carlo II fece continuare a tenerli
quali ostaggi in custodia, sino a che i patti della pace non ebbero ottenuto
la loro pratica effettuazione. Senonchè questa appunto venne meno, mentre Don Federigo,
fratello di Giacomno d’Aragona, sconfessando la vigliacca politica di costui
e fatta parte per sè, si fece già il 25 marzo 1296 incoronare a Palermo.
Così, anche questa volta traditi nelle loro speranze, i figli di Manfredi restarono
a Castel del Monte, ovvero, dopo aver per breve tempo mutato luogo, vi furono ricondotti daccapo.
Infatti a Castel del Monte li troviamo di nuovo nell’aprile dell’anno 1297.
Il 25 di questo mese Carlo II mandò al castellano il seguente rescritto, datato da Napoli:
« Noi vi ordiniamo col presente di togliere immantinenti le catene ad Enrico,
Federico ed Azzolino, i figliuoli del fu principe Manfredi, che sono tenuti incatenati costì,
in codesto castello, e di trattarli onorevolmente come lor si conviene.
E poichè si dice che uno di essi è malato, così voi dovete, per quanto le circostanze lo esigano,
lasciar entrare qualche persona che lo curi. Noi permettiamo pure che fra Matteo
da Matera dell’Ordine de’ Minori Osservanti abbia libero accesso presso i nominati fratelli.
Nulladimeno, è vostro debito il tenerli sempre sotto scrupolosa custodia. »
Anche quest’ordine era un risultato delle trattative di pace tra Napoli ed Aragona,
al quale uopo i principi contraenti eran convenuti in Roma. Infatti a Roma trovavasi già,
sin dagli ultimi del marzo 1297, il re Giacomo; ed a lui aveva tenuto dietro
Donna Costanza con la figlia, la quale veniva in Roma come promessa sposa
al principe di Calabria, Roberto. Lo stesso Don Federigo, col quale la madre s’era rotta,
per aver egli virilmente continuato la guerra contro il fratello Giacomo,
dovette ora mostrarsi disposto a più miti consigli e a cedere con un trattato di pace
la Sicilia a Napoli. Si vede quindi che il piccolo alleviamento della dura condizione
de’ prigionieri era tutto ciò che la sorella Costanza aveva allora osato impetrare per essi;
e queste misere stille di compassione parvero a lei probabilmente di un peso
e di una portata enorme. Come non avrebbe dovuto sentirsi oppressa dalla vergogna,
pensando ad Eleonora di Castiglia, il cui coraggio non si stancò mai
sino a che non ebbe visto libero il fratello Don Arrigo;
mentre essa invece lasciava i suoi languire fra le catene!
Ma Federigo finì per tenere per sè la Sicilia, e i figli di Manfredi rimasero nel carcere.
Quando però quel Re ebbe, nell’anno 1302, concluso in effetto pace con Napoli,
perchè mai ai disgraziati non fu data libertà? Questo perchè ci è ignoto o,
per dir meglio, lo conosciamo assai bene: niente altro che ragioni di Stato!
Rimangono poi un paio di rescritti ancora, de’ quali gli sciagurati sono oggetto.
Il 5 maggio 1298, quando avevano gia passato nel carcere non meno di trentadue anni,
Carlo II si ricordò a un tratto che non farebbe onore alla sua maestà regale,
dove i figliuoli di Manfredi avessero a morire di fame.
Ordinò quindi al castellano di meglio nudrirli. È impossibile difendersi
da un impeto di sdegno, leggendo codesto rescritto reale, che prelude così:
« Rispetto ai figli di Manfredi, del fu Principe di Taranto, e a Corrado,
un tempo Conte di Caserta, che trovansi carcerati nel castello di Santa Maria del Monte,
non sarebbe un onore dove per insufficiente sostentamento ch’essi per mezzo tuo
giusta le disposizioni della Curia hanno a ricevere, dovessero morir di fame
(fama peribunt); mentre pure l’essere rinchiusi in carcere
e il macerarvi (maceratio) da sì lungo tempo, dev’essere abbastanza per loro. »
Un anno più tardi s’incontra l’ultimo de’ rescritti dello stesso Re che sia giunto sino a noi.
Il 25 giugno 1299, il Re fece pervenire al cavaliero Guglielmo De Ponciac l’ordine seguente:
«Con altro scritto abbiamo comandato al cavaliero Giovanni Picicco, nostro castellano
a Santa Maria del Monte, di liberare, senz’altro, dietro tua requisizione i figli di Manfredi,
del fu Principe di Taranto, incarcerati nel detto castello e di liberamente consegnarli a te.
Epperò ti ordiniamo, al ricevere del presente, di richiedere a quel castellano
di rilasciarti i prigionieri. A ciascun di essi farai fare un vestito conveniente,
e poscia sotto la scorta di un cavaliero o di altra persona adatta li manderai a noi,
dopo averli forniti di cavalli su’ quali verranno cavalcando, condotti però per la briglia,
e provvisti del danaro necessario perchè giungano sino a noi qui, in Napoli. »
Il lungo tragitto a cavallo da Castel del Monte a Napoli, attraverso il bel paese
de’ padri loro e loro proprio e legittimo retaggio, sotto la sferza dei calori estivi,
non dovette essere per i poveri prigionieri poco tormentoso, tuttochè allora,
per la prima volta, dopo che durante quasi tutta una vita d’uomo erano stati rinchiusi
fra le tetre mura del carcere, fosse loro concesso di godere per più lungo tempo
dell’aria e della luce. Se cercarono conforto al grande tormento con la speranza,
che in fine l’ora della liberazione era prossima a scoccare e che il Re
li avrebbe consegnati ai loro parenti aragonesi, il disinganno che li aspettava
giunse tanto sollecito quanto amaro. Imperocchè Carlo II li fece rinchiudere
in Castel dell’Ovo, nel luogo medesimo ove già innanzi per anni parecchi
era stata prigione la sorella Beatrice.
Gli accordi e le nuove relazioni stabilitesi fra le potenze e le dinastie che,
venute su di recente, s’erano impadronite del mondo, non seppero
per gli ultimi eredi legittimi di Federico II trovare altro posto se non il carcere,
nel quale dovettero morire. Nè Aragona, nè l’Imperatore tedesco della casa degli Habsburg,
che la maestà dell’Impero ebbe vilmente assoggettata al dispotismo autoritario della Chiesa;
nessuno, insomma, si curò mai di strappare le vittime dalle mani del loro carnefice.
Già Rodolfo di Habsburg aveva dovuto solennemente proclamare che egli giammai
non farebbe vendetta degli Hohenstaufen ai danni del re di Napoli;
e dopo di lui anche Alberto fu costretto a rinnegare ogni pensiero
che in modo pratico accennasse a simile vendetta. Neppure un papa
fece mai sentire la sua voce in pro dei derelitti. Senza alcuna compassione,
con quel freddo, calcolato ed altero compiacimento, tutto proprio ai preti,
nel riguardare il compimento casuale delle loro scomuniche e maledizioni,
la Chiesa lasciò che la stirpe di Federico II sino all’ultimo rampollo perisse
e scomparisse intera. Non l’aveva essa forse scomunicata codesta stirpe,
dal primo sino all’ultimo de’ membri suoi, qual covo di vipere, sature di veleno?
I figli di Manfredi furono dal mondo assolutamente abbandonati e dimenticati.
Intorno alla lor fine corsero racconti leggendarii parecchi, ma non fondati
sopra alcun dato di fatto. Gli uni pretendevano che nel Duomo di Canosa,
non lungi dalla tomba del principe Beomondo, due pietre indicassero
la sepoltura di Federico ed Enzo. Altri invece affemavano che
il primo di questi due fosse addirittura riuscito con la fuga a scampare in Egitto.
Se non che Giuseppe del Giudice, nel suo eccellente lavoro, "
La famiglia di re Manfredi",
ha provato con l’aiuto di documenti che Federico ed Enzo o Azzolino
morirono a Napoli in Castel delI’Ovo tra il 1300 e il 1301;
per lo meno 1’8 di ottobre di quest’ultimo anno non erano più in vita.
Ed egli ha mostrato altresì che la morte non venne a liberare il misero Enrico
da’ suoi tormenti nel carcere medesimo prima del 31 ottobre 1318.
Sicchè Enrico viveva ancora quando Dante compose il luogo famoso del Purgatorio,
ove fa parlare Manfredi. Il giusto ed immortal poeta ignorava che allora
in uno de’ sotterranei di Castel dell’Ovo giaceva ancora un discendente di Manfredi
(6).
Tale il destino de’ figli di Manfredi. E un misfatto orribile, che pesa sugli Angioini,
su questi, in veste di picchiapetti e baciapile, mercenarii crudeli de’ preti:
un misfatto dal quale deriva per loro vergogna ben altrimenti maggiore
che non sia l’aver fatto decollare Corradino!
III
Mi è già occorso di dire che Castel del Monte, dagli Angioini in poi,
fece parte della contea di Andria. Carlo I lo fece meglio fortificare
che prima non fosse, e lo provvide di una guardia di trenta uomini.
Le opere di fortificazione saranno consistite in mura e in fossi,
de’ quali oggi è scomparso ogni vestigio. Il castello venne poscia
in possesso de’ Balzo, degli Aragonesi, de’ Caraffa.
Per lungo tempo ancora si mantenne in condizioni abitabili.
Da documenti ci vien fatto apprendere che il re Ferdinando I di Aragona,
neil’anno 1459, allorchè si fece incoronare a Barletta,
soggiornò non meno di un mese a Castel del Monte.
Sembra che il castello non sia più stato abitato dopo il saccheggio di Andria
per opera di Lautrec. I primi a devastarlo devono essere stati allora i Francesi.
Se la cosa sta realmente così, il vandalismo onde si mostrarono animati
ad Eidelberga, sarebbe anche raggravato per le gesta compiute a Castel del Monte.
Pare nondimeno che i Caraffa lo abbiano fatto restaurare, e se ne siano serviti
ancora come luogo di villeggiatura o come castello di caccia.
Il fatto è che nell’anno 1656, all’infierire della peste in Andria,
tutta la famiglia de’ Caraffa cercò rifugio in Castel del Monte,
e vi stette un mezzo anno.
Il tempo del completo abbandono non è possibile indicarlo con precisione.
All’abbandono successe in fine la devastazione senza riguardo nè pietà.
Nessun custode fu messo a proteggere le magnifiche sale contro le bestiali incursioni
e distruzioni di campagnuoli e pastori. La corte, la cisterna,
le stanze furono rovistate e messe sossopra in cerca di nascosti tesori.
Le lastre di malmi preziosi onde le pareti erano rivestite, furono mandate in frantumi.
Anche malandrini e masnadieri fecero del castello di Federico II il loro nascondiglio.
Solo la circostanza di non essere un bene senza padrone, ma proprietà de’ Duchi d’Andria,
lo scampò dall’estrema ruina. Infatti i Caraffa continuavano a portare
il titolo di principi di Castel del Monte; e il titolo rimane ancora oggi,
qual distintivo del primogenito della casa. Tutte le loro possessioni
in quelle contrade furono dai Caraffa alienate: il solo castello ritengono,
forse a causa del titolo che ne dipende, forse pure per l’impossibilità
di trovare compratori di una ruina che non produce alcun frutto.
Al castello non è annessa neppure una zolla di terra:
il principe di Castel del Monte non possiede qui altro che le nude pareti.
Il sindaco di Andria mi disse che questo singolarissimo monumento dell’epoca
degli Hohenstaufen si potrebbe averlo per poche migliaia di lire,
e che v’era qualche speranza che il Comune di Andria s’indurrebbe a farne acquisto.
Io scongiurai lui non solo, ma anche altri influenti signori,
a voler per questa via e col concorso dell’amministrazione provinciale
di Terra di Bari provvedere alla conservazione del monumento.
Esso non è per anco diruto a segno che l’impiego di spese e di sforzi
all’uopo abbia a riuscire oneroso oltre misura. Neppure il volerlo ridurre
al pristino stato sarebbe impresa troppo difficile a realizzare.
In fine l’edifizio intero in tutte le sue parti essenziali è ancora lì, in piedi.
Qualora Castel del Monte, un monumento che, come nessun altro, in modo così puro,
così schietto, così vivace rappresenta un’epoca grande per questo paese,
col non metter fuori, sia per sordida avarizia, sia per balorda indifferenza,
la meschina somma di poche migliaia di lire, dovess’essere condannato
alla totale distruzione, il danno e la vergogna sarebbero tutti della Puglia.
Imperocchè scomparirebbe con esso non solo il ricordo monumentale
del maggior potentato che il medio evo abbia visto, ma un edifizio nel quale
l’architettura profana prima di Bramante toccò l’estremo culmine di una classica altezza.
Essa infatti, passata l’epoca sveva, comincia a dar giù e decade.
La conservazione de’ monumenti storici, per chi guardi la cosa in modo pratico,
non può essere oggi devoluta che alle cure de’ Comuni e delle Province,
nel cui territorio quelli son situati; anzi, più che un ufficio,
è questo un rigoroso dovere. Ciò, non ha guari, han mostrato di comprendere
Ferrara e la provincia ferrarese, le quali acquistarono per proprio conto
il celebre castello degli Este che il fisco aveva messo all’incanto.
Non v’ha paese al mondo dove la ricchezza in fatto di monumenti storici
abbondi così come in Italia. Di qui l’impossibilità per lo Stato di considerarli
tutti come proprietà nazionali, sopraccaricando le già stremate finanze
della spesa occorrente alla loro mautenzione. Il fisco li espone in vendita,
perchè a lui che cosa importa de’ monumenti della storia? Allorchè il castello
d’Astura, ove l’ultimo degli Hohenstaufen che avesse diritti regali, Corradino,
nella sua fuga fu catturato da’ Frangipani e consegnato a Carlo d’Angiò,
veniva dal fisco esposto venale al maggior offerente sul prezzo di lire cinquemila,
io m’impegnai a Roma perchè la fiscale misura fosse revocata, ed ebbi infatti
le più confortanti, le più liberali assicurazioni. Nondimeno, più tardi,
Astura non fu risparmiato. Il castello è stato comprato dal principe Borghese,
però sotto alcune condizioni, che egli, cioè, non vi possa fabbricare
nè fare scavi senza il consentimento del Governo
(7).
Il nostro ritorno a cavallo a Palese si chiuse con un banchetto casalingo e paesano
di una profusione degna de’ Feaci. Pesci eccellenti del vicino Adriatico in varie guise ammanniti;
pezzi di carne di grandezze che ricordavano le omeriche; ghiottonerie appetitose
di latticinii delle Murgie; olive e altre frutta; in fine vini poderosi
in alti recipienti di vetro; tutto ciò, insomma, che di più squisito, di più delicato
il paese produce, era quivi imbandito. I nostri gentili ospiti ci assicurarono
che non v’era nel desinare nulla che oltrepassasse la misura ordinaria,
essendo così a un di presso tutti i giorni. I Pugliesi non mangiano che una volta al giorno.
Io colsi l’occasione per osservare che se i Tedeschi hanno appo gl’Italiani
voce di grandi mangiatori—i Tedeschi lurchi dice Dante— e non del tutto senza fondamento,
perchè in fine mangiano parecchie volte al giorno, pure tutti i pasti giornalieri
di una famiglia borghese in Germania, messi insieme, non sono da paragonare,
per quel che vi si consuma, con l’unico desinare, ogni ventiquattr’ore,
di una famiglia pugliese.
La sera, il signor Marchio volle accompagnarci ad Andria. Ivi il sindaco,
signor Leonetti, fu di nuovo a riceverci, per quindi il mattino susseguente
farci compagnia sino a Trani. Così prendemmo commiato da questo bel paese,
portando con noi il più gradito de’ ricordi: quello di una ospitalità veramente splendida.
... ... ... ... ... ... ...
NOTE
(2)
Ad eruditi napoletani, segnatamente al Forges Davanzati,
al Del Giudice e al direttore del grande Archivio di Napoli, Camillo Minieri Riccio,
del quale ci tocca rimpiange la perdita recente, si devono la ricerca
e il ritrovamento nell'Archivio di Stato degli Angioini de' documenti
che spandono luce su' casi della regilla Elena e de' suoi figli.
(3)
Del Giudice, il benemerito ricercatore della storia di Napoli del periodo
onde qui si discorre, nel suo scritto "
Don Arrigo Infante di Castiglia" (Napoli, 1875),
è di opinione che Carlo nell’incontro con Elena non le tenesse mica proposito
del progettato matrimonio; ma la richiedesse solo, benchè indarno,
di rinunziare a Corfù e ad altri diritti. Intanto il medesimo Del Giudice
ha dato fuori a Napoli ne] 1880 un altro scritto "
La famiglia di re Manfredi",
narraziione storica di alto pregio, ricca di impoltantissime notizie,
cavate tutte dagli archivi angioini. Peccato che l’edizione sia stata
di non più di cento eselnplari!; numero, in vero, insufficiente troppo
per le richieste deg1i studiosi della storia.
(4)
Così il MINIERI RICCIO nel suo scritto: "
Alcuni fatti riguardanti Carlo I d’Angiò",
Napoli, 1874, pag. 10. Ed anche DEL GIUDICE nel "
Codice diplomatico degli Angioini", I, 124,
fondandosi su di un rescritto reale del 2 luglio 1269, concernente il mantenimento di Elena,
e nel quale neppure si parla de’ figliuoli, giunge alla stessa conclusione,
che la madre dovess’essere allora già separata.
(5)
Il rescritto è stato pubblicato da DEL GIUDICE, "
Apologia al Codice diplomatico",
e più recentemente dal MINIERI RICCIO, "
Il regno di Carlo I d'Angiò negli anni 1271 e 1272",
Napoli, 1875. Del Giudice nota che Elena vi è chiamata sorella del Despota, il padre Michele
essendo morto, e dalla fine del 1267 regnando in Epiro il fratello di lei.
(6)
Vedi DEL GIUDICE, op. cit., pag. 321.
(7)
A mia grande sorpresa e con mio vivo compiacimento il Governo Italiano si è pure indotto,
in sullo scorcio del 1875, a comprare Castel del Monte per la somma di ventimila lire.
Così adunque il castello di Federico II vien conservato pei presenti e pei posteri.
[tratto da "Nelle Puglie, con notarelle di viaggio del traduttore“ di Ferdinand Gregorovius, traduzione di Raffaele Mariano, Ed. G. Barbera, Firenze, 1882]
- testo pubblicato anche nella Biblioteca digitale odeporica del sito: http://www.viaggioadriatico.it/ViaggiADR/biblioteca_digitale