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da "RASSEGNA PUGLIESE di Scienze, Lettere ed Arti"
(estratto)
RUGGIERO
ultimo conte normanno di Andria
di Riccardo Ottavio Spagnoletti (1829-1892)
AD ARCANGELO PROLOGO
storico di Trani
erudito e critico
come saluto di memore affetto
oltre alla tomba.
Poiché la carità del natio loco
Mi strinse, raunai le fronde sparte.
DANTE, Inf., Canto LXXIV.
Fra i cavallieri normanni venuti in Puglia, cercando fortuna, ricchezze e signoria,
oltre al conte d’Aversa, prevalevano i figli di Tancredi d’Altavilla e quelli d’Amico.
Questi ultimi erano due: Gualtiero e Pietro, o Pietrone, come lo chiamano i cronisti
(1).
Le due famiglie, quantunque strette in parentado
(2),
furono emule fra loro e Pietrone contrastò ai cugini il principato.
Pietrone venuto in fama
(3),
specialmente per le sue ricchezze
(4),
nella ripartizione delle terre, dopo le vittorie sui greci, ebbe per sua contea la città di Trani
(5).
Di certo non potè essergli data altrimenti, che come futura conquista,
essendo essa tuttavia suddita all’impero d’Oriente
(6).
Sfiduciato Pietrone d’ottenere da sè solo questa città, che tanto vigorosamente
avea resistito al blocco ed all’assedio, strettole intorno da Argiro e da tutte le forze normanne
(7),
stese invece il suo dominio nell’immensa campagna tranese. Su d’essa attese a fondarsi
una contea che fosse potuta valere anche come espediente strategico per facilitare
una volta o l’altra l’espugnazione di Trani. Raccolse quindi la popolazione campagnuola,
sparsa per colline, valli e pianure nelle quattro più grosse terre, Andria e Corato
verso le Murge e Barletta e Bisceglie ai fianchi di Trani sul littorale adriatico.
Trasformò queste quattro terre in città, alzando fortilizii a loro difesa
(8).
Ciò in parte manifesta, in parte, compiuto da altri documenti sincroni,
lascia intendere Guglielmo Pugliese in principio del secondo libro della sua epica narrazione.
Edidit hic Andrum, fabricavit et inde Coretum,
Buxilias et Barolum maris aedificavit in oris.
(9).
S’edificò in Andria anche un palazzo feudale, dove per circa un secolo e mezzo
(10),
salvo breve interruzione
(11),
abitò, signora del fendo, la famiglia dei conti normanni derivante da Pietrone.
Egli su Trani ebbe prima signoria nominale e dopo signoria reale, ma breve e fugace.
Questa città, sottratta ai greci, era da costoro riconquistata, finchà da ultimo
Roberto Guiscardo non l’annesse al ducato di Puglia, togliendola a Pietro II, figlio di Pietrone
(12).
L’ultimo e ‘l più illustre conte di quella famiglia, fu Ruggiero. Di lui ho preso a raccogliere
le notizie sparse qua e là negli scrittori, sincroni i più, per riuscire a delinearne la figura.
(NDR)
E comincio dalle fattezze fisiche.
La grandezza e robustezza della persona era in pregio in quei tempi di venture e conquiste,
quando la forza tenea luogo di dritto e di ragione. C’incontra di vedere nella storia di quei tempi,
che non ad altro, che all’organismo poderoso si affidassero a preferenza imprese alte e gravi.
E tanto per darne un esempio, ricordo che papa Benedetto VIII, visto la prima volta il normanno Rodolfo,
pugnae militari elegantissimum
(13),
che il de Blasiis traduce saggiamente in
aitante della persona
(14),
gli affidò l’impresa di vendicare sui greci le ragioni della Chiesa. Talvolta il poderoso
organismo spianava perfino la via del trono. Il re di Francia, richiesto dagli ambasciatori di Palestina,
designò in isposo a Maria, regina di Gerusalemme, Giovanni di Brenna, nobile cavaliere, ma spiantato.
Disse di lui, che gli storici dipingono come gigantesco della persona:
hominem aptum, in armis probum, in bellis securum: e come un dippiù
soggiunge da ultimo
in agendis providum
(15).
E Giovanni dal vento della fortuna fu balestrato al trono di Gerusalemme, e al tramonto
di sua vita al trono imperiale d’Oriente, per la maestà e ‘l vigore dello sue forme fisiche.
Pietro, figlio d’Amico, era stato chiamato Pietrone certamente per la singolare grandezza
e robustezza della persona. E il conte Ruggiero, suo discendente, non era dirazzato.
Egli per atavismo avea sortito da natura figura, colossale e guerresca.
Si può vederlo nella massa della sua persona fra le miniature di un codice membranaceo,
scoperto dall’Engel nella biblioteca di Berna, e da lui stesso pubblicato a Basilea nel 1740,
riproducendovi le miniature in accurati disegni
(16).
Nè le linee caratteristiche della miniatura, che rappresenta Ruggiero,
sono contraddette da ciò che è scritto di lui nelle poesie contenute nel codice.
Pietro, poeta e signore d’Eboli, chiama Ruggiero gigante (
ille gigas)
(17)
quando in uno dei suoi carmi lo contrappone a Tancredi, conte di Lecce,
cui strazia coi nomi di nanerottolo e scrignuto
(18)
E in un altro carme, lamentando la morte di Ruggiero lo chiama gigante maturo.
Hen! ubi tanta iacet maturi forma gigantis
(19).
La maestà della figura e l’incesso, pugnae militari elegantissimus, dovettero conferire
a render Ruggiero stimato e potente nel regno: egli fu contemporaneo a Giovanni di Brenna.
Nel R. Monetiere di Torino si osserva un bollo di piombo, il quale è di Ruggiero conte di Andria.
Il dritto e ‘l rovescio di codesto bollo sono uniformi:
in ambedue le faccie è la testa del feudatario e intorno ad essa la leggenda:
(20)
ROG FILIV RICC DI ET REGIA GRA COMES ANDRI
Rogerius, filius Riccardi, divina et regia gratia, comes Andri.
La testa del bollo presenta anch’essa i segni del vigore; ma a più giovanile ed anche sbarbata;
mentre la figura intera del codice di Berna è d’uomo maturo ed ha il volto barbato.
Questa differenza non può spiegarsi altrimenti, che tenendo conto del tempo,
in cui furono ritratte le due figure. Quella del bollo è anteriore di molto: riproduce
le sembianze di Ruggiero nel tempo quando rientrò nella sua terra natale e feudale,
divina et regia gratia. Allora avea rasa la barba e giovani gli anni. Invece la miniatura
del codice di Berna rappresenta Ruggiero, quando aspirava alla corona di Puglia.
Questa miniatura fu fatta col codice dopo la morte di Ruggiero d’Andria e di Tancredi di Lecce.
Difatto la narrazione poetica di Pietro d’Eboli si stende fino al 1195, quando Ruggiero
e Tancredi erano defunti. Le poesie, e poniamo che siano state scritte prima e poi,
a spizzico, non potettero essere raccolte in un volume, se non dopo il 1195,
cioè dopo che erano stati composti gli ultimi distici riguardanti il già defunto re Tancredi,
che con ispietato sfregio è paragonato ad Andronico. Dopo di che il poeta stesso
pone la data, se non al libro, certamente ai suoi carmi in due versi staccati:
cinque anni meno del mille duecento, egli dice:
Anno quinque minus numeratis mille ducentis
Coesar regna capit et sua nupta parit
(21).
Del resto comunque si voglia riguardarle, le due figure, compiute dai versi di Pietro d’Eboli,
indubitatamente ci mostrano in Ruggiero il vigore e la maestà della persona:
mostrano le forme colossali ereditate da Pietrone.
Considerate le forme fisiche, mette bene notare che di Ruggiero fu detto essere di sangue reale.
De sanguine regio lo disse il Guarna, anch’esso strettamente congiunto ai reali
di Puglia e Sicilia.
De sanguine regio lo disse in un discorso pronunziato
in forma uffiziale e solenne al cospetto di uomini eminenti, fra i quali
Papa Alessandro III e l’Imperatore Federico Barbarossa
(22).
E fu di sangue reale. Oltre al parentado antico che stringeva i figli d’Amico
ai signori d’Altavilla, v’era parentado posteriore per via de’ Bassavilla,
conti di Conversano. Giuditta, sorella di Re Ruggiero, la quale ebbe in dote
la contea di Conversano, fu data in moglie a Roberto di Bassavilla
(23),
detto Zamparone. Da essi nacque l’illustre Roberto II, che, oltre alla contea di Conversano,
ebbe quella di Loritello. Questi fu marito di Mabilia (Adelivia, secondo il Tarsia Morisco),
figlia di Re Ruggiero. Da Roberto II e Mabilia nacque Ruggiero che fu conte di Celano,
di cui una figlia andò moglie a Riccardo, conte di Andria: e questa fu madre di Ruggiero
(24),
Ecco come nelle vene di Ruggiero d’Andria fosse scorso il sangue dei reali di Sicilia.
Era sua bisava la figlia di Re Ruggiero e tritava la costui sorella.
Ed ecco a che metta capo il
de sanguine regio di Romualdo.
Dal bollo di Torino si desume che il padre del Conte Ruggiero sia stato Riccardo,
che sarebbe secondo di questo nome nella serie dei conti di Andria.
Di lui si sa solo che sia stato d’animo fiero e bellicoso: che nella guerra civile del regno
fosse rimasto ligio a Re Guglielmo I, onde gli accadde di fare una fine disgraziata.
Per dar lume a questo tetro episodio, bisogna rapidissimamente,
sulla scorta de’ cronisti sincroni, riandare un po’ la storia del regno in quel periodo.
Guglielmo I fu prode soldato
(25),
ma uomo di bieco animo e principe per quanto tirannico, altrettanto corto di mente e accidioso.
Avea a fianco e sopra di sè, cancelliere e supremo ammiraglio, un barese di potente,
ma cupido o malefico ingegno, Maione, figlio, come fu detto, d’un oliandolo
(26).
Codesto più che re, spadroneggiava nel reame, e ricambiava la fiducia di Re Guglielmo
con l’insidiargli il trono, vituperargli il talamo coniugale
(27),
ed inimicarlo, con perfido studio, al patriziato e più ancora al parentado.
Fra i congiunti lo rese massimamente odioso a Roberto di Bassavilla. Ed era assai agevole
il seminare odii implacabili fra i due cugini e cognati. Re Ruggiero avea designato
il Bassavilla ad erede della Corona nel caso che Guglielmo, suo figlio,
si fosse mostrato inetto a regnare
(28).
Ciò bastava per Maione ad invelenire l’animo di Guglielmo, e aver piena autorità
di oltraggiare, insidiare e vessare il Bassavilla
(29).
Questi, spazientito, ruppe a ribellione, traendosi appresso il più de’ baroni
(30),
oltre al Principe di Capua. Adriano IV, che avea rinfocolate l’ire
e già fulminato di scommuniche Re Guglielmo
(31),
partecipò alla insurrezione; cui l’Imperatore d’Oriente favorì prima con l’oro
(32)
e poi col naviglio
(33).
L’insurrezione trionfò: e i greci col Bassavilla s’insignorirono
de’ porti più importanti dell’Adriatico
(34).
In questa guerra civile Riccardo d’Andria restò fedele alla Corona.
Non piegò l’animo altero e bellicoso all’esempio di Roberto di Loritello, avo di sua moglie.
Invece raccolse fanti e cavalieri nelle sue terre, e accorse in aiuto de’ regii.
Questi furono disfatti e ripararono ad Andria, mentre Riccardo, non potendo raggiungerli,
si appostò nei pressi di Barletta, aspettando l’opportunità per battere in ritirata
senza pericolo. Ma greci e insorti, scopertolo, gli si strinsero addosso, ed impari,
com’era nelle forze, lo costrinsero a battaglia. Non potendo evitare lo scontro,
Riccardo si lanciò coi suoi disperatamente facendo prodigi di valore.
Ruppe l’avanguardia e poi il corpo comandato da Roberto. Da ultimo se gli spinse
contro la retroguardia. S’ingaggiò la battaglia con pari ardore da ambo le parti,
e già Riccardo accennava a prevalere anche questa volta; quando un prete tranese
gli scaraventò un sasso da farlo stramazzare con una gamba spezzata. Allora i suoi,
vistolo caduto e steso per terra, si perdettero d’animo, e quando doveano cogliere
la palma della vittoria si dettero a fuggire. Il prete quindi, vedendolo abbandonato
e senza difesa, seguitò a grandinargli sassi addosso, finchà non l’ebbe ucciso.
Di poi corse sul cadavere pesto, gli trasse le interiora, e con bestiale ferocia
gliele cacciò in bocca
(35).
Questa fine disgraziata toccò a Riccardo d’Andria, padre di Ruggiero:
a lui che fa prode ed audace capitano, ed ebbe fama d’uomo fiero e crudele.
Ma per riprendere a parlare di Ruggiero è necessario di continuare il cenno
rapidissimo degli avvenimenti di Puglia e Sicilia.
Non più tranquilla fu la Sicilia
(36).
Maione incitava a cospirare contro di Re Guglielmo: i conti invece
cospiravano massimamente contro di lui
(37).
Insorsero; ma l’insurrezione fu disfatta prima nell’isola e poi nel continente;
dove gl’insorti furono battuti e dispersi, rotti i greci, predato il loro naviglio,
e ‘l Papa, assediato a Benevento, fu costretto a subire accordi sgraditi
(38).
In seguito rinacque l’insurrezione in Puglia, ove vindici e pertinaci si riaffacciavano i fuorusciti
(39);
mentre nell’isola seguivano altre congiure e tumulti, e spargimento di sangue
(40).
Maione cadde sotto il ferro di Matteo Bonello
(41):
e per nuova cospirazione il Re fu imprigionato nella reggia, e ‘l figlio
giovinetto salutato suo successore per le vie di Palermo
(42).
Poi il Re prese il sopravvento: e dopo varie vicende, il Bonello, abbacinato
e segato ai garretti, perdè fra gli spasimi la vita
(43).
Così si svolse ed ebbe termine il regno breve e sciagurato di Guglielmo I.
Il dì 7 di maggio del 1176 morì di febbre emitritea, secondo la definisce Romualdo Guarna, suo cugino e medico
(44).
Dalla morte di Riccardo, Conte di Andria, non trovo ne’ cronisti fatta alcuna menzione
di suo figlio Ruggiero, nè della contea che gli toccava per eredita paterna.
Invece dalla morte di Guglielmo il malvagio, si vede senza signore Andria, e concessa,
per favore della regina, ad un giovine nipote di lei, venuto da Spagna.
È indubitato quindi che Ruggiero, figlio del prode e sventurato Riccardo,
sia stato spodestato da Re Guglielmo I. Ma per qual ragione? Dovè non ricalcare
le orme paterne, e, abborrendo dalla tirannide di Guglielmo e Maione, dovè mettersi
sotto alle bandiere insurrezionali di Roberto, suo bisavo materno? Dovè non piegare
l’animo onesto e altero al barese corruttore e cupido di regno? Questi dovè temere
dell’ingegno, del valore e della lealtà del giovine conte? Nel silenzio dei cronisti
non è illecito il ricorrere ad ipotesi non ripugnanti alla storia. Non è ipotesi però,
è storia documentata, che Ruggiero, nel regno di Guglielmo I, sia stato spodestato
ne’ suoi dritti feudali ereditarii, e Andria sia stata graziosamente
donata ad altro signore al cominciare del regno seguente.
È indispensabile intanto riandare a tratti larghi e rapidi la storia
del regno nel periodo posteriore a Guglielmo I.
Due giorni dopo la morte di Guglielmo I, lo stesso Arcivescovo Guarna
coronò Guglielmo II, fanciullo a 12 anni
(45).
La madre di lui, Margherita di Navarra, prese a regnare come tutrice,
portando talvolta il gabinetto dello Stato nell’alcova dell’amore.
Una fitta di avventurieri, cugini, o più larghi congiunti della regina,
da Spagna e Francia si riversò sul reame, soprapponendosi ai normanni.
La regina, a far dimenticare la torva tirannide del defunto consorte,
aperse il suo governo con la benignità e l’indulgenza. Ma potea ridare
le contee ai signori spodestati, quando avea bisogno di terre feudali
da concedere ai nuovi venuti? Ruggiero di Andria quindi non fu rintegrato
nei dritti ereditarii della sua contea. Questa invece fu data al giovine spagnuolo
(46)
Bertrando, o, come lo chiamano alcuni cronisti, Bertheraimo. Il costui padre,
Gilberto, era stato chiamato da Spagna da Guglielmo I, e messo Conte di Gravina
(47).
Margherita, nel 1167, nominò otto nuovi conti e fra essi Bertrando
(48),
cui dette la contea di Andria
(49),
così come al padre di lui, Gilberto, il comando militare di Puglia e
Terra di Lavoro, tanto per liberarsi dal nipote e più dall’incommodo cugino,
che ad ogni costo volea mettere le mani nel governo dello Stato
(50).
V’era un altro de’ cugini a ciò destinato: Stefano di Pertica, francese, giovane
che toccava appena ai dieciott’anni, e di molto gentile avvenenza.
Guglielmo di Tiro lo dice
adolescens … egregius forma
(51).
La focosa vedova, fra le dolci ebbrezze d’amore
(52).
gli affidò il regno del figlio. Fattolo poi consacrar prete dall’Arcivescovo di Salerno,
gli ottenne dal comizio ecclesiastico l’arcivescovado di Palermo, con la compiacente adesione del Papa
(53).
Ma il prevalere e prepotere de’ cugini non dovea essere sopportato a lungo. Ruppe in Sicilia una rivolta,
e l’eminente Adone mitrato, con dolore inconsolabile dell’angusta amante e cugina, fu bandito dal regno
(54).
Gl’insorti costituirono una Curia suprema, o, come si direbbe oggidì, un
governo provvisorio.
Questa Curia fu composta di conti e di prelati alti ed autorevoli, fra cui il Guarna.
Questa Curia ebbe per iscopo principale il liberare il regno dalla peste dei cugini,
spedendo costoro a Terra Santa
(55).
I primi fulmini della Curia toccarono a Bertrando, che da un anno avea la contea di Andria,
e a Gilberto, che, oltre al contado di Gravina, avea da poco ottenuto quello di Loritello
(56).
Gilberto tentò di resistere con le armi; ma egli e il figlio, odiati da tutti, furono abbandonati;
e stimarono prudente consiglio il rassegnarsi alla inesorabile sentenza dell’esilio.
Co’ loro tesori fecero vela per Palestina, lasciando vacanti le contee di Andria, Gravina e Loritello
(57).
Re Guglielmo II, libero di sè; prese a regnare di fatto e con quella saggezza e virtù di principe,
che gli procacciarono l’appellativo di Buono. Mite e generoso di animo,
perdonò ai ribelli, tolse il bando ai fuorusciti, e ridette le contee ai signori spodestati.
Pose in onore il valore e la probità, e i pubblici uffizii dette ai più abili e degni.
In questo regno di bontà, di saggezza e di giustizia, di tratto, e come inaspettatamente,
vediamo ne’ cronisti balzare decorosa e prominente la figura di Ruggiero d’Andria.
Quando gli fosse stato dato il suo feudo non dicono il Guarna e ‘l Falcando.
Si ha ragione a ritenere, nel loro silenzio, che ciò sia avvenuto nell’amnistia generale.
La prima manifestazione che Ruggiero fa di sè nella storia è sotto l’aspetto militare.
Si sa che fosse l’educazione militare fra i normanni, originarii della Scandinavia,
e solo da qualche secolo trapiantati nell’Europa meridionale. All’organismo nordico,
come di granito, aveano aggiunta la spigliatezza meridionale: all’astuzia aggiunsero
l’audacia impetuosa. Il coraggio guerresco era fra essi istinto di razza, virtù,
tradizione, patrimonio, leggenda e storia: era come tutta la loro vita.
I nomignoli stessi, di che si ricambiavano, appartengono alla loro storia militare.
All’uno dettero il nome di Braccio di ferro, e all’altro quello di
Guiscardo, che nella loro lingua originaria significava astuto.
Guglielmo Pugliese disse:
Cognomen Guiscardus erat, quia calliditate
Non Cicero tantæ fuit, aut versutus Ulisses
(58).
Fra questa gente, per venire in fama ed essere preminente negli ordini militari del regno,
bisognava dover aver toccata la perfezione in ogni virtù militare: bisognava essere
eccellenti nella robustezza, nella disciplina, nell’audacia e nel senno militare.
E tale fu Ruggiero se ebbe la preminenza in Puglia e Sicilia sull’aristocrazia militare
che costituiva l’assetto politico del regno a tempo dei Normanni.
Egli di tratto fu capitano dell’esercito, avendo talvolta a compagno quel Tancredi
di Lecce che dovea essergli emulo funesto. D’entrambi, dice Pietro d’Eboli, ambo duces equitum
(59):
e ‘l Troyli
(60)
e ‘l Ciarlante
(61)
pongono l’uno e l’altro fra gl’illustri capitani del regno di Guglielmo II.
E l’uno e l’altro al 1176 capitanarono l’esercito appulo-siculo: e con esso, ai confini degli Abbruzzi,
tennero fronte all’esercito del Barbarossa, capitanato da Cristiano, Arcivescovo di Magonza.
Cristiano voleva entrare nel regno espugnando il fortilizio di Celle, cui avea stretto d’assedio.
L’anonimo Cassinese, all’anno 1176, parla dell’assedio di Celle, e soggiunge:
Comes Rogerius Antri/aelig et Comes Tancredus cum aliis comitibus contra eum perrexerunt illuc.
La cronaca di Fossanova dice che ciò seguì ai 10 di marzo. La Cassinese nulla dice
sul risultato della battaglia: invece la cronaca di Fossanova ci fa sapere che l’esercito alemanno
fuit super eos (sugli appulo-siculi)
et plerosque cepit atque in fugam verterunt.
I nostri furono disfatti: di essi altri furono presi, altri messi in fuga.
Il Capecelatro dice il contrario: «E Tristano (Cristiano) suo cancelliere, ch’era venuto
con un altro esercito ad assalire il reame ed avea campeggiata la terra di Celle,
essendogli gito all’incontro Tancredi, Conte di Lecce, ch’era stato già ricevuto in grazia del Re,
e Ruggiero, Conte di Andria, con molti altri baroni e buona mano di soldati regnicoli,
ributtato da loro, se ne ritornò anch’egli addietro senza fare effetto alcuno»
(62).
Quasi le medesime parole ripete il Giannone
(63).
Il Muratori dice l’opposto: «Ruggiero, Conte d’Andria, e il Conte Roberto (com’entra Roberto!)
messo insieme un copioso esercito, andarono per isloggiarlo di là. V’ha chi scrive (il Capecelatro),
che venuti a battaglia coll’armata imperiale, ne riportarono vittoria.
Tutto il contrario sembra a me di leggere nella cronaca di Fossanova»
(64).
Il Muratori, non istimando d’importanza storica quest’azione guerresca, non la considera
con la sua solita diligenza. Vi passa sopra con leggerezza, fino a scambiare Tancredi di Lecce
con Roberto. Eppure, scrivendo, avea sott’occhio la cronaca Cassinese! Il Muratori si tiene
alla lettera della cronaca di Fossanova; mentre il Capecelatro, traendosi appresso il Giannone,
ha cercata la verità storica al di là, delle parole del cronista. Il Capecelatro sostiene
che l’insuccesso fosse toccato all’Arcivescovo di Magonza, piuttosto che ai nostri conti.
Ed è appunto cosa. Lo scopo dei conti pugliesi, accorsi a Celle (e lo dice lo stesso Muratori),
era quello di
sloggiare di là i Tedeschi; in quella guisa che costoro aveano
in animo di sforzare i confini del regno per invaderlo. Fu possibile che i nostri avessero
pagata l’impresa a largo prezzo di sangue, che avessero avuto prigioni e fuggitivi;
ma si deve dire che avessero vinto, se lo scopo fu conseguito, essendo i Tedeschi andati
via da Celle. Che se fosse vero che i Tedeschi avessero disfatto l’esercito nostro,
o perchè non l’inseguirono nella sua fuga? Perchè per via degli Abbruzzi non invasero il regno?
Non era questo il proposito dell’Arcivescovo Cristiano? E se non era questo, perchè trasse
il suo esercito sino a Celle? Perchè non restò in Lombardia, dove il Barbarossa sostenea
una lotta titanica contro la lega lombarda; dalla qual lotta sovente uscì disfatto ed umiliato?
Convien dire dunque, che ai Tedeschi sia venuto meno lo scopo, e che i conti pugliesi
avessero conseguito il loro. La vittoria fu dunque di questi, benchè forse fosse stata aspra,
difficile e sanguinosa. Ciò m’induce a credere che nell’
in fugam verterunt della cronaca
di Fossanova debba esservi l’omissione di altre parole per parte del copista.
E mi conforta in questo sospetto l’erronea sintassi del periodo.
Ma sia che si voglia, è certo che Ruggiero fosse stato capitano in quella impresa.
Se lo soprapposero ad altri pur prodi e degni, vuol dire che avessero avuta grande stima
del suo valore e della sua espertezza militare. E ponghiamo che fosse stato disfatto,
si sa che la vittoria non sempre fa fede del valore: talvolta deriva dalla fortuna.
In seguito vediamo Ruggiero assunto a Gran Contestabile del regno. Era questo il principale
e più eminente ufficio che troviamo nelle costituzioni normanne. Con questo ufficio,
in quello stato tutto bellicoso, si sopraintendeva agli ordinamenti militari, e in campo
s’aveva il supremo comando dell’esercito.
Magno Comestabulo dice di lui il Guarna
(65).
La fiducia del Re e degli ottimati dovè essere larghissima nel suo valore, nella sua competenza,
e nella sua fede di leale cavaliere. D’altra parte le sue virtù e la mitezza del suo animo
lo resero caro all’esercito. Ciò si desume da una miniatura del codice di Berna.
In essa è rappresentato l’esercito, che, morto Re Guglielmo, proclama e sostiene Ruggiero
per candidato alla Corona. L’esercito, di cui era duce supremo, ne avea sperimentate
le nobili virtù, e gli dava testimonianza di riverente affetto.
Ma ben altro richiedeano dal suo valore, dal suo ingegno, e dalla sua probità
il Re e lo Stato. La custodia dell’integrità del paese non era tutto il compito
di Re Guglielmo e dei suoi consiglieri e ministri. Dopo l’infame sgoverno
di Guglielmo I e Maione, dopo il prepotere dei cugini, dopo le feroci e dissolventi
guerre civili e l’anarchia e le confische e il sangue, bisognava che fosse apparsa
intera un’iride di pace e di giustizia: bisognava che sotto l’ali della pace,
rese inviolabili da una severa e come paterna giustizia, prosperassero l’agricoltura,
l’industria e ‘l commercio, e rifiorisse l’agiatezza fra i cittadini di ogni classe,
in modo da rendere sempre più potente il regno. E il regno fu tale.
I legati lombardi lo proclamarono il più giustamente e civilmente retto e governato
(66).
Secondo il loro giudizio, passato oramai nel dominio della storia, si era meglio
sicuri nelle boscaglie dell’Italia meridionale, che nelle civili città delle altre nazioni.
E a Gran Giustiziere del Regno fu eletto Ruggiero di Andria, che uni in sè
i due eminenti ufficii della guerra e della giustizia. Egli, che custodiva
la integrità territoriale e i dritti politici e le istituzioni della nazione,
custodiva anche la giustizia e la rettitudine, specialmente nelle attinenze
de’ cittadini fra loro, e de’ cittadini verso lo Stato e gli stranieri che venivano
d’oltremonte e d’oltremare per commerciare, o divotamente pellegrinare.
Nè il cumulo dei due supremi uffizii suscitò scontento, o mosse invidia fra i conti:
tutti doveano riconoscere le eccellenti attitudini di Ruggiero a degnamente sostenerli.
In opposto non avrebbe avuta quella universale autorità, ch’è impossibile
senza la stima universale. Che abbia avuta grande e universale autorità è attestato
da Riccardo di S. Germano nella sua cronaca.
[Erat ea tempestate (1190)
in Apulie finibus Roggerius quidam Andrie comes, qui se non reputabat
dicto rege inferiorem, cum tempore memorati regis Guillelmi] totius Regni, dice Riccardo,
Magister Justitiarius fuerit et in Apulia plenum tunc dominium exerceret
(67).
Ed andò anche oltre per l’abile e prode Ruggiero la fiducia del re. Ardeva da anni
guerra feroce fra l’imperatore di Germania e la Lombardia, le cui città si costituivano
in liberi comuni, stretti in lega fra loro. Ardeva egual guerra fra l’imperatore
e ‘l pontefice, che favoriva e sostenga la lega de’ comuni. Federico Barbarossa a scopo politico
(68)
avea fatti contrapporre a Rolando Bandinelli da Siena, che, messo papa, avea assunto
il nome di Alessandro III, tre consecutivi antipapi, Ottaviano, Guido da Crema e
Giovanni di Struma; ondechè nella cristianità ferveva fiero scisma. Guglielmo II
un po’ per mitezza d’indole e pietà d'animo e più per ragione di stato, era entrato
in lega col papa e i comuni lombardi. Egli lealmente e con animo deliberato tenea fede
ai suoi alleati, resistendo alle seduzioni di Federico, sino a rifiutare la mano
offertagli della figliuola di lui e respingere qualsiasi accordo
non fosse in comune col papa e le città lombarde
(69).
Così papa Alessandro alla sua volta non avea voluto piegare a transazioni,
che non riguardassero tutti gli alleati
(70).
Federico intanto, disfatto dai lombardi nella gloriosa battaglia di Legnano, scemato d’uomini,
d’armi e danaro, impotente a scompigliare comechessia la triplice alleanza,
fu costretto a piegare l’animo superbo e l’ingegno astuto. Mandò tre suoi prelati
ad Anagni a chieder pace al papa e preliminarmente discuterne con lui le condizioni
(71).
Queste furono dibattute per quindici giorni e possono leggersi nel Sigonio e nel Pagi.
Dopo gli accordi preliminari i legati imperiali tornarono presso l’imperatore,
aspettando il papa, i legati di re Guglielmo e quelli de’ comuni lombardi
per una discussione plenaria e diffinitiva a Bologna. Re Guglielmo fu quindi invitato
a scegliere i suoi plenipotenziarii. Egli valutò l’importanza della pace d’Europa
e della cristianità: valutò le gravi difficoltà, che doveano sorgere dai lombardi
e la malagevolezza di tener fronte alle astuzie del Barbarossa.
Ad ambasciatori conveniva scegliere uomini d’alto e pronto ingegno, d’animo vigoroso,
di virtù sperimentata e di somma autorità. E non gli parvero degni del grave mandato della Corona,
che Ruggiero, conte d’Andria, e Romualdo Guarna, arcivescovo di Salerno,
zio dello stesso re Guglielmo e uomo di varia e non ordinaria coltura
(72),
che nelle sue cronache descrive, fin troppo per minuto, le vicende di quelle memorande
trattative diplomatiche, seguite nel 1177. I due ambasciatori normanni
col papa ‘l seguito entrarono in mare a Viesti
(73)
con undici galee il dì 9 di marzo 1177
(74).
Le trattative furono lunghe, stentate ed indirette. L’imperatore ottenne
che la riunione plenaria non seguisse a Bologna, città molto ostile all’arcivescovo Cristiano.
Intanto egli giuocava d’astuzie, ciurmando talvolta fin gli stessi suoi ministri.
Il papa dal canto suo, stanco di lotte religiose, politiche e personali,
desideroso di pace, si rendea flessibile: i lombardi invece si teneano duri
e indeclinabili. Concitati dalla lotta, esasperati dalle patite sventure e inorgogliti
dalla vittoria memoranda di Legnano, come per felice vaticinio, anticipavano
il linguaggio dell’Italia, che dovea essere futura ad essi.
Non si possono leggere senza legittimo orgoglio nazionale i nobili
e fieri discorsi di quei lombardi, dal Guarna giudicati
in bello strenui et ad concionandum populo mirabiliter eruditi
(75).
In tanta tempesta di opposte idee ed aspirazioni, fra ‘l decoro o la vanità offesi,
rischiavano d’affogare i pacifici intendimenti. Ma equanimi, freddi e
spassionati gli ambasciatori del re di Sicilia scongiuravano i pericoli,
rincuorando il pontefice e rabbonendo gli animi de’ lombardi.
Andavano così le cose e le rappresentanze degli alleati erano col papa a Venezia
e Federico era a Chioggia. Questi macchinava d’entrare in Venezia come di straforo
col favore della plebe veneziana, da lui fatta sollevare a suo vantaggio.
Il papa in nome di se stesso e degli alleati dichiarava di non poter consentire
che lo svevo entrasse in Venezia, innanzi che al cospetto delle rappresentanze
degli alleati non avesse giurato quello che si era stabilito e principalmente
la pace con la Chiesa, quindici anni di pace con re Guglielmo e sei anni di tregua coi lombardi
(76).
Federico, che molto sperava dal tumulto plebeo, si mostrava maravigliato
delle parole pace e tregua, come se nulla finallora fosse stato discusso e conchiuso
(77).
La plebe veneziana, sobillata abilmente, ruppe in tumulto, reclamando dal doge Ziani,
che senz’altro indugio fosse stato invitato l’imperatore ad entrare in Venezia,
non ostante la violazione della fede ospitale data da lui stesso in nome della repubblica.
I lombardi, udito ciò, s’imbarcarono per Treviso
(78);
e il papa restò ancora, ma temendo per sè e pel papato tutto il possibile danno.
Ruggiero d’Andria e l’arcivescovo Guarna lo rincorarono e gli offersero quattro galere regie,
dichiarandosi pronti a trarselo via di Venezia; anche malgrado la plebe
(79).
Indi tennero al doge linguaggio nobilmente fiero e minaccioso, rinfacciando
alla repubblica l’amicizia e i benefizii del re e del regno. Dissero che non avrebbero
aspettato l’ingresso dello Svevo in Venezia: avrebbero fatto vela, riservandosi
a pensar dopo come vendicare l’ingratitudine, la rotta fede e l’oltraggio arrecato al re,
loro signore. Soggiunsero in tono reciso e significativo, che non a parole,
ma co’ fatti si sarebbero vendicati pienamente
(80).
Indi fecero allestire le galere e dar nelle trombe e apparecchiar tutto per la partenza.
Le bieche minaccie non caddero a vuoto: i Veneziani le valutarono e capirono
che erano annunzio di grave iattura per Venezia e specialmente pe’ veneti,
che per ragione di commerci abitavano sul littorale di Puglia e Sicilia.
Mutarono contegno: corsero al doge scongiurandolo a non lasciar partire cos� corrucciati,
com’erano, i plenipotenziarii di re Guglielmo: scongiurasse il danno che era per venirne.
Il doge deputò quanti patrizii potè a recarsi dal papa per ottenere da lui perdono
alla città e per implorare la sua potente parola presso il conte di Andria
e l’arcivescovo di Salerno da indurli a non partire e placarne lo sdegno.
Alessandro III li accolse benignamente e indulse alla città por quanto lo riguardava
personalmente; ma circa gli ambasciatori di re Gugliemo disse: Come potrò io costringere
uomini così cospicui e potenti a perdonare? Potrò solo pregarli
(81).
Ad ottenere il possibile mandò coi patrizii veneti in suo nome Ruggiero da Pisa
agli ambasciatori regii per disasprirli ed indurli a smettere dal proposito di far vela.
Gli ambasciatori risposero: non maravigliare se il capo supremo della cristianità
avesse piegato l’animo ad indulgenza e volesse disprezzare i pericoli e affrontare
insidie e frodi. In quanto ad essi, ambasciatori di re Guglielmo, essere tutt’altro:
non potere essi lasciare lo loro persone a libito della plebe, rischiando
che in essi fosse oltraggiato il principe augusto del loro stato.
Penserebbe il potente monarca di Sicilia e Puglia a rispondere alla ingratitudine veneta.
Venezia innanzi alla cristianità ed alla storia sarebbe mallevadrice
delle rotte trattative, delle speranze di pace andate in dileguo.
Ciò non per tanto volendo rendere ossequio ai miti desiderii del pontefice,
prorogavano pel giorno seguente ogni loro determinazione. In ogni caso avrebbero preso
consiglio da sua Beatitudine, tenendo conto del contegno che assumerebbe il popolo veneziano.
Le quali parole udite, il doge fece rigorosamente bandire che a niuno fosse lecito di parlare
comechessia della venuta dell’imperatore in Venezia: la città, non potere accoglierlo
senza il consentimento del pontefice e degli alleati. Federico, saputo ciò ch’era seguito
e il mutato animo de’ veneziani, vedendo andato a vuoto ogni suo disegno, si raumiliò
(
humiliter inclinat) e deposta la fierezza del leone, si rese mansueto come agnello:
leonina feritate deposita, ovinam mansuetudinem induit
(82).
Disse essere pronto alla pace in conformità delle condizioni stabilite preliminarmente:
e spedì a Venezia il conte Enrico di Dessa a giurare per l’anima del suo imperatore
al cospetto del pontefice e degli alleati ossequio agl’impegni assunti verso la Chiesa,
il re di Sicilia e la lega lombarda. Così la pace fu potuta conchiudere mercè il contegno
decoroso ed abilmente fiero tenuto dal Guarna e da Ruggiero d’Andria.
Ai quali massimamente si deve se cessò quella guerra di distruzione e quello scisma
ecclesiastico, politicamente tanto disastroso. Assenziente il pontefice e gli alleati,
con sei galere venete Federico fu rilevato da Chioggia e, assolto dalle censure pontificie,
pervenuto alla porta della Basilica di S. Marco, si tolse di dosso il manto imperiale
e si stese per terra ai piedi del papa:
Totum se extenso corpore inclinavit
(83).
Alessandro III, commosso fino alle lagrime, lo rialzò, lo abbracciò e lo benedisse,
mentre i tedeschi festeggiavano la pace col canto ambrosiano:
Quem Alexander papa cum lacrymis benigne elevans, recepit et benedixit
(84).
Ecco il racconto veridico di quanto seguì a, Venezia con scrupolosa esattezza e minuzia
di cronista narrato dal Guarna e confermato da lettere di papa Alessandro e da tutti i cronisti sincroni
(85).
Ne’ secoli posteriori fu data la stura a menzogne inverosimili, e invereconde.
Adulterando perfino i caratteri storici, fu blatterato che Alessandro III ponesse il piede
sul collo di Federico, dicendo il motto del salmo LXVIII:
Super draconem et basiliscum ambulabo et conculcabo leonem et draconem:
e che di sotto al piede del papa lo Svevo mormorasse:
Non tibi, sed Petro: e che il papa rispondesse:
Et Petro et mihi.
Furono ridette fino alla nausea queste ciancie e agevolmente sbugiardate dalla critica storica.
Non le avrei rilevate, essendo esse come un fuor d’opera in questo mio lavoro,
se non le avessi sentite tuttavia ripetere con sciocca vanteria.
La pace fu un fatto compiuto e celebrato con pompa liturgica ne’ giorni seguenti.
Il pontefice, i lombardi e l’imperatore ebbero parole di alta stima pe’ nostri ambasciatori,
che sottoscrissero anch’essi il memorando trattato di pace, memorando nella Storia d’Italia
e della cristianità. Di Ruggiero disse il Guarna nel discorso pronunziato al cospetto
del pontefice e dell’imperatore:
Comiti Andriæ Magno Comestabulo et Magno Iustitiario
totius Apuliæ et Terræ Laboris: e poi:
Comitem Rogerium virum utique
providum et discretum et de sanguine regio ortum
(86).
Cosi ebbe termine lo scisma, se non interamente suscitato, certamente alimentato
e sostenuto per ragione politica dal Barbarossa
(87).
I due nostri plenipotenziarii il giorno 15 d’agosto partirono da Venezia e ‘l 24
sbarcarono a Barletta, ove presero stanza nel palazzo di Ruggiero d’Andria.
E qui è opportuno di dire che Ruggiero avea un suo proprio palazzo a Barletta.
Carlo d’Angiò, secondo afferma Filiberto Campanile, ne fece dono a Filippo Santacroce
con Montemilone, Candela e alcuni oliveti nelle campagne di Molfetta
(88).
A Barletta Romualdo e Ruggiero d’accordo compilarono un minuto rendiconto della loro missione
politica e lo spedirono al re in Sicilia. Dopo partirono, Romualdo per Salerno e Ruggiero per Andria
(89).
Il re, saputo della pace e del come era stata condotta, chiamò a Palermo i due benemeriti
plenipotenziarii. V’andarono entrambi a 6 di novembre e furono accolti a festa e con onore
dalla corte e dal patriziato. Al dì seguente nella reggia narrarono al re per minuto
la storia delle pratiche e dello lotte sostenute per cinque mesi e gli lessero
il
Privilegium imperiale riguardante il regno di Puglia e Sicilia o che trascrivo
in appendice, desumendolo dalla cronaca del Guarna. Udita la narrazione e letti i documenti,
il re, visto che la pace e le forme, con cui era stata conchiusa, superavano le sue previsioni
e le sue speranze (
præter spem et opinionem)
(90)
considerando l’onore e l’utile, che gliene derivava (
ad honorem suum et comodum)
(91)
rese giusto tributo di onore e gratitudine alla prudenza, all’abilità ed allo zelo del conte
di Andria e dell’Arcivescovo di Salerno: e volle che essi stessi fossero stati presenti
al giuramento che in nome dal re si sarebbe dato nella reggia di Palermo ai legati dell’Imperatore.
Questi indugiarono a recarsi in Sicilia: e ‘l conte Ruggiero, aspettatili fino al carnevale
dell’anno seguente, ripartì per Andria, restando d’ordine del re a Palermo il Guarna.
Il quale chiude questa narrazione dichiarando che le cose narrate sono scrupolosamente vere
ed esorta i lettori a non averne alcun dubbio; dacchè chi le narra è Romualdo II,
arcivescovo di Salerno,
qui vidit et interfuit: et sciatis quia verun est testimoniun eius
(92).
Trascorsero undici anni. Ruggiero avea avuta sempre la stessa fiducia del re e degli ottimati
e la stessa fama popolare. Nulla però che lo riguardi trovo nei cronisti, o in antichi diplomi,
ch’io sappia, durante questo periodo di undici anni. Sappiamo però dai cronisti narranti
avvenimenti posteriori, che egli, durante questo periodo, seguitò a sostenere
degnamente gli uficii eminenti di Gran Contestabile e Gran Giustiziero.
Venne il novembre del 1189, oltre al consueto uggioso e triste per le Sicilie.
Guglielmo, il re buono, pianto universalmente, in quel novembre
(93)
scese nel sepolcro senza figli, ma non senza erede. Avendo data sua zia, Costanza,
in moglie ad Enrico VI svevo; figlio del Barbarossa, già avea fatto da tutti i conti del regno,
raccolti a Troia, giurar fede a costei ed al marito, come a futuri eredi della Corona
(94).
Ma morto il re, ben pochi tennero fede ai giuramenti di Troia: era fra i pochi
l’arcivescovo di Palermo, Gualtiero. Un re tedesco non trovava favore nel popolo:
e il papa, naturalmente, timido e geloso dell’impero d’Occidente sotto mano facea esasperare
le avversioni popolari. Dei signori, parecchi ambivano al trono e i più cercavano futuri vantaggi
e fortune presso i candidati, parteggiando per loro. Ondechè, secondo narra poetando
Pietro d’Eboli, in Sicilia e in Puglia divampò la guerra civile,
nella quale largamente fu sparso sangue cittadino
(95).
Ma infine, messe da parte le meno ragionevoli ambizioni, due soli candidati restarono
l’uno a fronte dell’altro: Tancredi, conte di Lecce e Ruggiero conte di Andria.
Tancredi era nato da un’avventura amorosa del duca Ruggiero, figlio di re Ruggiero
(96).
Il duca Ruggiero, mandato dal padre a Lecce a studiar lettere presso di Roberto,
conte di quella città, innamorò della costui figlia e la rese due volte madre.
Tancredi fu uno dei figli nati da codesti amori furtivi. Perlochè, figlio al primogenito
di re Ruggiero, quantunque bastardo, pretendeva al trono. All’incontra Ruggiero d’Andria,
come il più benemerito cittadino, il più prode ed autorevole conte dello Stato,
credeva d’avervi maggior dritto. La cronaca cassinese, sotto all’anno 1190,
ha parole severe contro di Tancredi, che pretendea al regno, obliando i giuramenti
dati a Troia. Loda invece Ruggiero d’Andria, che memore della fede giurata,
insorse contro di Tancredi in servigio di Costanza e dello avevo, consorte di lei.
Al contrario Riccardo di S. Germano sotto allo stesso anno dice, che,
non la religione de’ dati giuramenti, ma l’invidia (
telo percussus invidiæ)
spinse Ruggiero contro Tancredi. Fra i due cronisti entrano di mezzo i distici
di Pietro d’Eboli a dar piena luce alla storia e mostrare che l’un cronista e
l’altro dicono il vero, ma incompiutamente. Ruggiero cominciò con l’aspirare
alla corona e mettersi emulo di Tancredi. Dopo, sopraffatto dal suo rivale,
non punto più meritevole di lui, ma soltanto più fortunato e meglio promettente
per chi volea regnare di fatto in nome di lui, insorse prima per conto proprio
e poi in servigio di Costanza ed Enrico, per demolire il bastardo, suo rivale.
Prima l’impopolarità d’una candidatura tedesca al trono, gli solleticò
una ragionevole ambizione e gli fece mettere da parte i giuramenti di Troia:
dopo, visto favorito dalla fortuna e dagli artificii il men degno di lui,
accese la sedizione e la guerra civile.
La sua candidatura era sorta spontanea nell’esercito. Ciò, come ho già notato innanzi,
si desume da una miniatura del codice di Berna. In essa si vede il volgo volubile
e vendereccio favorire Tancredi e l’esercito parteggiare per Ruggiero d’Andria.
Pietro d’Eboli. in uno dei suoi carmi mette in azione Matteo,
vice-cancelliere del regno e trapotente
(97).
Costui timido della burbanza e dell’indole tirannica di Enrico VI avevo e dell’ingegno,
del valore e del carattere di Ruggiero d’Andria, si dette a combattere la loro candidatura
al trono di Sicilia e Puglia. Invece si adoperò a propugnare quella di Tancredi,
uomo che egli giudicava maneggevole e commodo; confidando che gli avesse lasciato
facilmente nel pugno il timone dello Stato. Il poeta riproduce Matteo nell’atto
di persuadere l’arcivescovo di Palermo a mettere da parte la candidatura di Costanza
e a non assumere quella di Ruggiero d’Andria. In favore della prima
non può negare di trovare la legge e il dritto
(98);
ma chiede che si tenga conto dell’iracondia di Enrico VI, suo consorte
e dell’oltracotanza furibonda del tedeschi
(99).
Risparmia, dicea Matteo all’arcivescovo Gualtiero, risparmia la tua veneranda canizie.
A guisa di bimbo dovrai studiare come rendere barbaro il tuo linguaggio
(100).
Detto d’escludere Costanza pel consorte, Matteo s’industria a trovar ragioni
per escludere anche Ruggiero d’Andria. E per isforzarsi che faccia non può
mettere innanzi che due solo ragioni e quasi frivole, che riserbo a dire subito dopo.
Fatte le due suddette esclusioni, non restava che Tancredi. E propone di fatto Tancredi
a re, affaticandosi ad attenuare ogni avversione per la sua origine bastarda
e fin por la sua corta o tozza figura e mostrarlo, se non più degno,
certamente più utile e commodo. È bastardo? egli dice. Or bene lo riabiliti
il favore del popolo: la corona di re nasconda l’onta della sua origine illegittima.
Che se monterà in superbia, ricordando il padre, si umilierà, volgendo
il pensiero al fallo della madre, nel quale fu concepito
(101).
È corto di statura? E non è forse l’onda più scarsa quella che lascia vedere nel fondo?
Piccola nave è quella che più va a libito del marinaro
(102).
Questo era il linguaggio di Matteo: e in quella guisa che s’adoperava a convertire
alla sua opinione l’arcivescovo di Palermo, s’adoperà anche a rendere accetto al clero,
agli ottimati e alla plebe il conte di Lecce, nato dagli amori furtivi del giovinetto
erede di Re Ruggiero e della bella e fresca cugina di lui.
Ma quali furono le ragioni che il cancelliere Matteo pose innanzi per escludere la candidatura
di Ruggiero d’Andria? In tanta povertà di notizie biografiche intorno a codesto feudatario
e cittadino di Andria di tutto mi è necessario tener conto per delineare
il meglio che sia possibile la sua nobile figura.
Matteo accusa Ruggiero d’essere spendereccio e per dippiù rotto a lascivio,
oltre alla decenza di gentile cavalliero. Messo re costui, egli dicea,
dissiperebbe le ricchezze dei principi normanni.
Absit ut æra ducum spargat aperta manus. E appresso soggiungea:
Tolga Dio, che la lussuria contamini la reggia:
Absit ut incestus Regum mœchetur in aula!
E poi: Non accada che la regina, offesa nei suoi dritti di moglie, empia di querele la reggia:
e non si veda lo scandalo che il re debba punire negli altri le medesime sue colpe:
Absit ut eveniens uxor de Rege quæratur.
Absit ut alterius vindicet acta reus!
(103)
Si vede che Matteo era corto a ragioni ed argomenti contro di Ruggiero.
Non avendo alcun che di rilevante da imputargli, si accende di zelo pel patrimonio
dei re normanni e scrupoleggia per la castimonia della vita. Chè del resto, tolta
di mezzo la prodigalità e la lascivia, egli stesso giudicava Ruggiero degno del principato:
Ad salium regni Comitem gerit Andria dignum.
Ma
… … … Mores et sua facta negant.
(104)
I cronisti intanto ci scrissero che stinco di santo fosse stato Matteo, discepolo e amico
di Maione da Bari. Più di tutti ce lo descrive Pietro d’Eboli e specialmente per costume.
Pietro lo chiama prete da due mogli. Ed è il meno turpe che dica di lui.
Risparmio al lettore il leggere turpitudini abbominevoli. Ora è proprio codesto bigamo
e lercio chiercuto, che fa implicite prediche di costumatezza e lancia accuse di lascivia
a Ruggiero d’Andria! Fra tanto nè Pietro d’Eboli, nè alcun cronista parlano
di qualsivoglia lascivia di Ruggiero: non lasciano neanche lontanamente supporre in lui
qualsiasi abitudine lussuriosa. Ed io penso quindi che il prete bigamo, intento
a farlo scadere nella pubblica opinione, o abbia inventate di conio codeste lascivie,
o abbia messo capo a qualche episodio amoroso dell’adolescenza rigogliosa dell’illustre cavaliero.
Pietro parla solo della sua prodigalità; ma afferma non essere stata viziosa prodigalità;
quindi non punto prodigalità, sibbene larghezza nobile e generosa.
Mettendo Ruggiero a riscontro di Tancredi, dice del primo :
Hic dator: e dell’altro:
Ille tenax.
(105)
In un altro carme spiega poi il senso del dator, quando dice che
il Conte d’Andria era prodigo col merito, sino a prevenirne i desiderii.
Prodigus … … … …
Prævenit meritum semper aperta manus.
(106)
È chiaro che il bigamo (così di consueto Pietro d’Eboli chiama Matteo) inventava
o esagerava fatti di lascivia e gabellava di vizii le virtù più nobili e generose.
E confermano questo giudizio la giusta riputazione in che fu tenuto Ruggiero
d’Andria da Re Guglielmo, dall’Arcivescovo Guarna, dalla Corte e dal popolo
e gli ufficii eminenti, a cui fu preposto nell’onesto regno di Guglielmo II.
E il bigamo tonsurato trionfò nei suoi disegni: e Tancredi, da lui chiamato in Sicilia
nel febbraro, non senza la connivenza della curia pontificia, fu coronato re in Palermo.
Ruggiero, deluso nella sua legittima ambizione, offeso gravemente nel suo amor proprio,
sdegnando di trovarsi suddito di un bastardo del suo parentado
(107),
ribellò, confidando nel suo valore, nelle sue passate benemerenze pubbliche e nella sua larga popolarità.
Ma Tancredi lavorò di corruzione, sparse a larga mano le ricchezze che trovò nella reggia,
e disseppellì tesori che i re predecessori aveano nascosti
(108).
Ed oro a gran copia spedì a suo cognato Riccardo, Conte d’Acerra,
perchè lo diffondesse a conquistargli i ribelli a lui
(109).
Cosi furono tratti alla obbedienza del nuovo re la Terra di Lavoro e i Principati
(110).
La qual cosa vedendo Roffredo, abate di Montecassino, s’indusse anch’egli
a seguire le parti di Re Tancredi e giurò per lui
(111).
Ruggiero, vinto non per forza d’anni, ma di larga corruzione, sdegnoso, fremente,
sfiduciato, ricorse ad un estremo espediente: invocò i già sfatati giuramenti di Troia,
e inalberò la bandiera della insurrezione in nome de’ dritti di Costanza.
Scrisse ad Enrico IV di Svevia, incitandolo a scendere in Puglia per sostenere
con l’armi le ragioni ereditarie dell’angusta sua sposa sul regno
(112):
troverebbe uomini ed armi e lui Ruggiero, Conte d’Andria, e Riccardo, Conte di Calvi,
contro del bastardo Tancredi, usurpatore del trono di Re Ruggiero, padre di Costanza.
Enrico fu irresoluto e l’indugio nocque non poco. Si dette tempo a Riccardo della Cerra
a rendersi più forte e potente, ed occupare militarmente Terra di Lavoro
per impedire una invasione tedesca, più agevole per quella via.
Finalmente lo Svevo s’indusse a spedire con poderoso esercito Enrico Testa, maresciallo dell’impero
(113).
Il Testa, non potendo per Terra di Lavoro, entrò in regno per gli Abbruzzi e si unì
a Ruggiero di Andria, col quale imprese la campagna. I cronisti dicono di speciale,
che abbiano preso il casale di Corneto, terra dell’abbate di Venosa
(114),
il quale parteggiava per re Tancredi. Ne mandarono via gli abitanti
e lo lasciarono saccheggiare ed adeguarlo al suolo
(115).
I regii con prudente strategia si fortificarono su Ariano e vicini castelli,
evitando una battaglia campale. Enrico Testa coi suoi e Ruggiero co’ ribelli li assediarono:
ma l’esercito tedesco, saettato dal solo di state in campo aperto,
tribolato da penuria di viveri e fors’anche decimato dal miasma palustre,
spazientito, sciolse l’assedio ed usci dal regno
(116).
Ruggiero di Andria restò solo nella lotta e anche senza alcun vigore, sostenendo
egli una causa impopolare, cioè il conferimento della corona di Sicilia e Puglia
ad Enrico VI. Ciò non per tanto non, si perdè d’animo. Fortificò S. Agata e
lasciatovi alla difesa suo figlio, che Riccardo di S. Germano chiama Roberto
di Calagio, s’affrettò a chiudersi in Ascoli Satriano
(117),
aspettando più propizia fortuna.
Riccardo della Cerra lo strinse d’assedio e, facendogli larghe promesse, l’incitava ad arrendersi.
Nulla valse a piegare l’animo fiero e indomabile di Ruggiero. Riccardo,
disperando di espugnare per forza d’armi la città; ricorse alla frode.
Richiese a Ruggiero un colloquio per mettergli innanzi e discutere possibili proposte di pace.
Ruggiero, fiducioso, nella lealtà cavalleresca, accolse l’invito, e per andare al convegno stabilito,
uscì da Ascoli. Allora Riccardo d’Acerra, infamando in perpetuo nella storia
il suo nome di prode guerriero e la fama di Tancredi, lo fece proditoriamente
assalire da scherani che aveva fatti appostare. Così fu tratto in prigione
l’illustre uomo e lasciò la vita gloriosa su patibolo infame.
Proditorie cœpit, dice Riccardo di S. Germano,
et miserabili morte damnavit
(NDR_2).
O Andria, esclama Pietro d’Eboli, ti contristò la fede, che pose in altrui
il tuo conte iniquamente ingannato dallo spergiuro! Ahi! Dove ora giace
la persona gigantesca del reggitore di giustizia! Indi conchiude:
Hunc aliosque viros intoxicat anguis,
In quibus apparet Cæsaris esse fides.
(118)
Roberto di Calagio, figlio di Ruggiero, aspettava tempi migliori per vendicare
sui vigliacchi traditori la morte del padre. Per circa tre anni si tenne chiuso
nel fortilizio di S. Agata, che pare abbia strenuamente difeso.
Dopo circa tre anni quel fortilizio dovè anch’esso soggiacere a re Tancredi
(119).
Nulla di più dicono di Roberto i cronisti. E assai probabile che sia anche a lui
toccata la sorte disgraziata del padre.
Così si estinse la stirpe nobilissima e prode de’ conti normanni di Andria:
quella stirpe che cominciò con Pietrone, che dette ad Andria l’essere e le forme di città
e terminò con Ruggiero, che onorò col braccio, con l’ingegno e le virtù
dell’animo sè stesso, la sua stirpe e la sua terra natale.
Egli chiuse nel lutto e nella gloria il periodo normanno della storia di Andria.
APPENDICE
DOCUMENTO I
DOCUMENTO II
[testo di R. O. Spagnoletti,
estratto da “RASSEGNA PUGLIESE di Scienze, Lettere ed Arti”,
ed. Valdemaro Vecchi, Trani, 1890, vol. VII, pag. 23-27, 39-43, 61-65]
(1)
Leo Ost. (Pertz). Filii Amici Gualterius et Petrones.
(2)
Guil. Ap., L. II — Petrus consanguinitate propinquus (
agli Altavilla).
(3)
Id. Ib. Fama super comites alios escreverat huius.
(4)
Id. lb. Ditior his Petrus.
(5)
Amato, II. 28 — Leo Ost. II. 67.
(6)
Am. Ib.... Le terre, tant de celle acquistèe, quant de celle qu’il devoient acquester.
I documenti dell’Archivio ecclesiastico tranese pubblicati dal Prologo,
ora immaturamente tolto agli studii ed alle Puglie, mostrano che Trani
seguitò ancora a far parte del
tema greco in Italia.
(7)
Chr. Barens. ad ann. 1042.
(8)
Secondo il computo del Di Meo, la trasformazione di Andria in città seguì nel 1046.
(10)
Circa un secolo e mezzo e non due secoli, coane dice il Gregorovius nel suo libro IN PUGLIA.
Andria divenne città nel 1046: e da quest’anno al 1190, anno della morte di Ruggiero,
ultimo conte normanno di Andria, corrono 144 anni, cioè circa un secolo e mezzo.
(11)
Dirò in seguito di codesta interruzione.
(12)
Guillermi Apulensis, Gesta Roberti Wiscardi, L. III.
Dux per legatos quos miserat ille relegat,
Ut sibi cum Trano castellum donet Ameto:
No dabit ista, frui non pace merebitur eius.
Petrus … (
Pietro II, figlio di Pietrone. Pietrone era già morto fin dall’aprile 1063, secondo si desume dal Chr. Brev. Norm, ad ann.).
Petrus ………………………………
Tradidit et Tranum, Ducis ut sibi gratia detur,
Efficiturque suus iuranda iure fidelis.
(NDR)
Carlo Alberto Garufi, curatore dell'edizione del 1938 della "
Chronica" di Riccardo da San Germano a pag. 9, anno 1190 scrive:
«Ruggiero conte d'Andria, figlio forse di Riccardo, spunta la prima volta nel 1176 al comando dell'esercito
normanno insieme con Tancredi. Cf.
Annales Casinenses, ed. cit., p. 312;
Annales Ceccanenses, M. G. H. SS.,
XIX, p. 286. Più tardi insieme con Romualdo arcivescovo fu scelto da Guglielmo II come suo rappresentante
alla pace di Venezia; di ritorno a Palcrmo rimase presso la corte, fino al 22 febbraio 1178, quando ottenne
il permesso di ritirarsi. Pare ch'egli nell'ufficio di "Magister comestabulus et magister iustitiarius totius
Apulie et Terre Laboris„ sia succeduto a Tancredi, quando questi ebbe aflidata la spedizione in Grecia.
Questa circostanza, sfuggita allo Spagnoletti,
Ruggiero ultimo conte normanno di Andria, Tranl, 1890, e
recensione in
Archivio Storico delle Province Napoletane, XV, Napoli, 1890, p. 691, si desume
dalla donazione di "Amerusius regius baronus et loci Triviani dominator„ fatta nel 1187 e transuntata nel
1228 da Marino Arcivescovo di Bari, "consilio et auxilio domini Rogerii Dei et regia gratia illustrissimi
comitis Andrie....„. Cf.
Codice Diplomatico Barese, I, Le pergamene del Duomo di Bari (952-1264), Bari,
1897, pp. 174, 175. Per il resto cf. pure Toeche,
Kaiser Heinrich VI, Leipzig, 1867, p. 140 e sg.; E. Winkelmann,
Acta imperii inedita, Innsbruck, 1880, I, 66, 88 riporta le conferme fatte dall'imperatrice Costanza e da
Federico II di due donazioni fatte da Ruggiero conte d'Andria, l'una all'ospedale di S. Giovanni di Gerusalemme,
1'altra al monastero di S. Maria della Grotta in Monte Drogo. Di lui si conserva anche un suggello
illustrato dal Promis,
Notizie di una bolla in piombo del sec. XII, in
Atti della Reale Accademia delle
scienze di Torino, v. IV, p. 670.»
(13)
Glaber (Pertz) Hist., III.
(14)
De Blasiis —
Insurr. Pugl., v. I, p. 79.
(16)
Samuele Engel scoprì nella biblioteca di Berna l’unico codice, che sia noto,
de’ Carmi di Pietro D’Eboli. Pregevole assai è il codice anche sotto all'aspetto artistico,
sino a farlo supporre destinato ad essere offerto in dono dal poeta all’Imperatore Enrico VI.
L’Engel lo pubblicò a Basilea nel 1740 co’ disegni delle miniature.
Pietro D’Eboli visse tra ‘l XII e ‘l XIII secolo: fu quindi contemporaneo di Ruggiero d’Andria,
cui sopravvisse. Al 1225 vivea ancora: Riccardo di S. Germano lo ricorda giustiziere in Terra di Lavoro.
Altra volta lo ricorda delegato a riscotere 1300 oncie dai monaci di Montecassino.
(17)
Petr. D’Eb. Adversa et Diversa etc.
(18)
Pietro D’Eboli faziosamente devoto ad Enrico VI, esagera persino i difetti fisici di Tancredi e non gli risparmia ingiurie ed oltraggi.
(19)
Petr. D’Eb. Spuriosa unctio Regis.
(20)
Promis — Notizia di una bolla di piombo del secolo XII.
(21)
Il NUPTA PARIT
accenna alla nascita di Federico II a Iesi. Ei pare quindi che Pietro D’Eboli
fosse di coloro che cominciavano l’anno dal 25 di dicembre, da mettere la nascita di Federico al 1195.
Federico nacque a 26 di dicembre dell’anno 1194. Vedi Riccardo di S. Germano,
le lettere d’Innocenzo III e ‘l costui biografo anonimo e le considerazioni
fatte in proposito dal Muratori (Annali d’Italia), e dal Troyli (Storia)
(22)
Rom. Salern. ad ann. 1177.
(24)
Tarsia Morisco — Mem. Stor. di Conversano, con le note di Sante De Simone.
Lettera indirizzatami, poco innanzi alla sua morte, dal rimpianto Arcangelo Prologo.
(25)
Romualdo Salern. ad ann. 1166
(26)
Ug. Falc. 288 — Maionem quoque barensem humili ortum genere.
E a 284 —
Ut cuius pater oleum Bari vendere consueverat: sic enim dicebatur.
Luigi Volpicella prese a sostenere che Maione sia stato figlio di magistrato.
Con un documento, tratto dalla R. Basilica di Bari, dimostra che il padre di Maione
abbia tenuto a Bari ufficio di magistrato. Che maraviglia che Maione possa aver trasformato
in magistrato l’oliandolo suo padre! Non dispensò forse a larga mano altri uffici
nel suo parentado? Non dette l’ammiragliato a Stefano suo fratello, e ‘l giustizierato
di Puglia a Simone, suo cognato? Di questo parere è anche il Del Re nelle note
al Falcando, e ‘l Petroni nella sua Storia di Bari.
Il Falcando (pag. 288). chiama Maione monstrum quo nulla pestis immanior,
nulla ad regni perniciem ac subversionem poterat efficacior inveniri.
(27)
Ug. Falc. 302. Eamque (
la regina) Maioni putabant inhonesti contractu fœdere obligatam.
(28)
Ug. Falc. 290. Eo quod Rogerius Rex, avunculus eius, in quodam testamento
suo praecipisse diceretur ut si quidem Guilielmus eius filius inutilis et parum idoneus
videretur, Robertum Comitem, cuius virtus haud dubia erat, regno praeficeretur.
(29)
Vedi il Falc. a p. 290 e seguenti.
(30)
Rom. Salern. ad ann. 1154. Multi etiam de Baronibus Apuliae rebelles effecti guerram maximam in Apuliam excitaverunt.
(31)
Anon. Vit. Adr. IV — Guil. Tir., L. 18, c. II.
(32)
Rom. Salern. ad ann. 1154 — Costantinopolitanus imperator … Paleologum …
cum multa pecunia ad Comitem Robertum et Barones transmisit, ut de ea …
Guilielmo Regi guerram inferrent. —
Ug. Falc., p. 292. Imperator …
nobilissimos ac praepotentes viros cum maxima pecunia misit Brundisium.
(33)
Rom. Salern, 96. Misit etiam Cominianum Sebastum … cum suo stolio.
(34)
Id. Ib. Brundusium coeperunt … Barum autem et reliquae civitates maritimae graecis et Roberto Comiti adhaeserunt.
(35)
Petr. St. di Bari, v. I, pag. 287.
(36)
Rom. Salern. ad ann.
(37)
Vedi il Falcando che narra ciò diffusamente.
(44)
Rom. Salern. ad ann. Emitritea illum febris invasit et invalescente passione mortuus est.
(45)
Rom. Salern. ad ann. 1166.
(46)
Il Promis (Notizia di una bolla di piombo del secolo XII), dice Bertrando francese,
mentre il Falcando, parlando del padre di Bertrando, lo dice fatto venire di Spagna.
Nè è il solo errore in cui cade il Promis, che perfino ignorò i carmi di Pietro D’Eboli
o non se ne ricordò. Egli, parlando di Andria, non andò di la del Di Meo.
Non curò rispetto ad Andria di riscontrare i dizionarii geografici: ed è così che afferma
Andria essere TUTTORA PICCOLA CITTÀ, mentre questa è la pia grossa città del continente
meridionale d’Italia, la prima dopo Napoli e Bari per popolazione. Al 1869, quando
il Promis scrivea la sua memoria, Andria contava realmente 40 mila abitanti,
e ufficialmente poco meno. Ora ne conta 52 mila.
(47)
Ug. Falc. 303 — Et comes Gilbertus, consanguineus Reginae,
cui Rex nuper ex Hispania vocato, Gravinae dederat comitatum.
(48)
Id. 354 — Octo Comites … creaverat: Riccardum Mandrensem, Bertrannum, Comitis Gravinensis filium etc.
(49)
Id. 350 — Bertranno, cui nuper Comitatus Andriae datus fuerat.
(50)
Id. 349 — Interea Regina … occasionem … desiderabat ut Gilbertum Comitem
a Curia removeret … Igitur Apuliae, Terraeque Laboris Capitanus constitutus, cum filio
suo Bertranno, cui nuper Andriae Comitatus datus fuerat Pharum transiit et in Apulia reversus est.
Oltre al Falcando, a Romualdo Guarna e all’Anonimo Cassinese, che affermano
d’essere stata data a Bertrando la contea di Andria, viene ciò confermato dal Catalogo
de’ feudatarii e suffeudatarii di Puglia, che sotto il regno di Guglielmo II
contribuivano per la Crociata. Questo Catalogo trascritto da un antico esemplare,
si conserva nell’Archivio di Stato. Lo pubblicò il Borrelli nel 1657 nel libro
VINDEX NEAPOLITANAE NOBILITATIS, Lo ripubblicarono nel 1787 il Fimiani nel trattato
DE SUBFEUDIS, e ‘l Del Re nel 1845. Do in appendice la parte di questo Catalogo,
riguardante le Contee di Andria e Conversano.
Non voglio chiudere questa nota senta rilevare, a proposito di codesto Catalogo,
un anacronismo in cui cadde l’illustre Giuseppe Maria Galante nella dotta sua opera
DESCRIZIONE GEOGRAFICA E POLITICA DELLE SICILIE. Al t. I, p. 109 della sua
seconda edizione (1793), dice che codesto Catalogo riguardi la spedizione
a Terra Santa del 1187. Il Catalogo è di molto anteriore a quel tempo.
Difatti Gilberto e Bertrando sono segnati l’uno Conte di Gravina, e l’altro
Conte di Andria nel Catalogo, mentre l’uno e l’altro erano stati esiliati dal regno
nel 1168 (vedi il Guarna, il Falcando e l’Anonimo Cassinese). Deve quindi essere
stato compilato quest’atto di censimento feudale certamente innanzi al 1168
ed anche innanzi al conferimento della contea di Loritello a Gilberto,
trovandosi questa nel Catalogo sfornita di feudatario proprio.
(51)
Stefano era figlio ad un conte del Percese. Il Brequigni dice che andando in Sicilia contasse 18 anni.
(52)
Il popolo credea che la Regina si desse per cugina di Stefano nel fine di giustificare
la troppa famigliarità e nascondere l’amore.
Ug. Falc., 360 — Nimis ei familiariter colloqui et velut rapacibus oculis intueri,
verendum ne sub nomine propinquitatis amor illicitus occultaretur.
(54)
Id. alle seguenti pagine.
(56)
Id. Ib. Decernitur in primis uti Gilbertus, Comes Gravinensis cum filio suo Bertranno Comite pellatur e regno.
(57)
Id. Ib. - Rom. Salern. ad ann. — Chr. Cass. ad ann.
Il mite Guarna dice che sbanditi dal regno Stefano di Pertica e Gilberto, tornò la pace.
Postquam autem Cancellarius et Comes Gilbertus de terra exierunt, terra in pace et tranquillitate remansit.
(59)
Petr. D’Eb. Adversa et diversa, etc.
(60)
Troyli. v. IV, parte III, p. 330.
(61)
Ciarlante St., v. IV, p. 70.
(62)
Capecelatro. L. III. P. 161.
(63)
Giann. St. Civ., L. XIII, c. I.
(64)
Murat. All’anno 1176.
(65)
Rom. Salern. ad ann. 1177.
(67)
Rich. de S. Germ. ad ann. 1190.
(68)
Rom. Salern. ad ann. 1160.
(69)
Rom. Salern. ad ann. 1174. Suadens et postularis ut ipse Imperatoris filia
in uxore accepta, cum eo pacem perpetuam faceret et ipsi se amicabiliter couniret
… Rex Guilielmus … Imperatoris filiam in usorem et eius pacem recipere noluit.
(70)
Card. Arag. Oportet ut ampliatoribus nostris et maxime Regi Siciliæ
Lombardis et Imperatori Costantinopolitano integram pacem pariter tribuat.
(71)
Rom. Salern. ad ann. 1177.
(72)
Rom. Salern. Ib. Rex autem Guilielmus Romualdo, Salernitano Archiepiscopo
et Rogerio Comiti Andriæ, Magno Comestabulo et Magno Iustitiario totius Apuliæ
et Terræ Laboris per literas suas dedit in mandatis ut honorifice præparati simul cum papa
in Lombardiam pergerent et pro parte Regia componendæ pacis cum Imperatore tractatui interessent.
(73)
A Viesti e non a Vasto, come dice il Muratori. Romualdo, testimone e partecipe di quella spedizione, dice:
Dehinc per Troiam et Sipontum ad Vestam venit.
(74)
Rom. salern. ad ann. Nono scilicet die intrante mensis martii cum undecim galeis.
(77)
Id. Ib. Cœpit cardinalibus de verbo pacis quasi novum esset et sibi incognitum respondere.
(80)
Id. Ib. Domini Regis iniuriam, non verbis, sed operibus vindicare curabimus.
(81)
Id. Ib. Viros nobiles et potentes rogare quidem valeo, sed invitos detinere non potero.
(82)
Id. Ib. Dal Guarna ho tolta tutta codesta narrazione.
(85)
Bull. Rom., T. 1, p. 72 e 73. — Chr. di Fossan. ad ann. Goffr. Vors. ed altri molti.
(88)
Campanile- Dell’Armi ecc., p. 239.
(93)
Rich. de S. Germ. ad ann.
(94)
Aquin. Cronogr. apud Pagi ad ann.1189 — Hæredem regni designat Henricum Regem —
Rich. de S. Germ, ad ann. Omnes regni Comites sacramentum præstiterint.
(95)
Petr. D’Eb. Adversa et Diversa ecc.
In sua versa manus præcordia sanguinis hausit
Urbs, tantum quantum nemo referre potest.
(96)
Rich. de S. Germ. ad ann. 1190. Tancredus iste Ducis Rogerii filius fuerat naturalis.
(97)
Petr. D’Eb. Suasio Vicecancellarii, etc.
(98)
Id. Ib. … Constantia regnet,
Sic lex exposcit, .sic sua iuta volunt.
(99)
Id. Ib.Disce prius mores Augusti, disce furorem
Theutonicam rabbiem quis tollerare potest?
(100)
Id. Ib.Parce tuis canis, pueri tibi more licebit
Discere barbaricos barbarizzare sonos.
(101)
Id. Ib.Quamvis fama sibi, quamvis natura repugnet
Natura redimet gratia, crimen honor.
Qui quanto Duce patre superbiat, hic quoque tanto
Ex merito matris mitior esse potest.
(102)
Id. Ib.Non abet ut timeas dubium brevis unda profundum,
Quo vis defertur remige parva ratis.
Fin dal tempo dei normanni c’era il ruffiancsimo elettorale, oggi mestiero de’ più proficui.
(105)
Id. Adversa et Diversa, etc.
(106)
Id. Spuriosa Unctio Regis.
(107)
Rich. de S. Germ. ad ann. 1190 — Andriae Comes, qui se non reputabat dicto
Rege infcriorem … Hic telo percussus invidia … sibique subesse dedignans,
contra ipsum seditione facta … [
vedi nota de redattore NDR_2]
(108)
Id. Ib.Regales effudit opes et diu servatas est ausus frangere gazas.
(109)
Id. Ib.Hic Richardo Acerrarum Comiti, cuius soror sua coniux erat …
auri talenta plurima expendenda transmisit.
(110)
Id. Ib.Quibus omnes de Principatu et Terra Laboris eidem Regi contrarios, flexit ad mandatum ipsius.
(114)
Rich. de S. Germ. ad ann. — Chr. Cass. ad ann. Nel Catalogo de’ Baroni v’è:
Abbas Venusii tenet Cornetum quod est feudum.
(115)
Rich. de S. Germ. e Cron. Cass. ad ann.
(117)
Rich. de S Germ.— Andriae comes in Apulia remanens, firmata Roccha Sanctae Agatae,
quae tunc ipso tenebat … se in Asculo recipit contra Regem.
(NDR_2)
Scrive Riccardo da S. Germano nella sua "
Chronica":
MCXC. Tancredus iste ducis Roggerii filius fuerat naturalis, cuius pater Roggerius
primus in regno Sicilie regis sortitus est nomen, et hac de re quia hunc habebat titulum quod
de stirpe regia descendisset, inter alios regni Comites est electus in regem.
Qui postquam assumptus est laboravit pro viribus qualiter regni fines in pace
disponeret et sibi, rebelles et adversarios subiugaret.
Et primum quidem quinque Sarracenorum Regulos (I cinque Regoli Mussulmani ... vuol
dire uomini di nobil sangue, non marabutti fanatici), qui ob metum
christianorum ad montana confugerant, de montanis ipsis Panormum redire coegit invitos;
atque ut ceteros regni Comites et barones ad suam fidelitatem converteret et mandatum,
regales effudit opes, et diu servatas est ausis frangere gazas (tesoro pubblico).
Hic Ryccardo Acerrarum comiti, cuius soror sua coniux erat de qua geminam
susceperat prolem, auri talenta plurima expendenda transmittit, quibus omnes
de Principatu et Terra Laboiis eidem regi contrarios flexit ad mandatum ipsius.
Tunc etiam Roffridus Casinensis abbas ipsi regi iuravit.
«Erat ea tempestate in Apulie finibus Roggerius quidam Andrie comes, qui se non reputabat
dicto rege inferiorem, cum tempore memorati regis Guillelmi totius regni magister
Iustitiarius fuerit, et in Apulia plenum tunc dominium exerceret.
Hic telo percussus invidie de Tancredi comitis promotione in regem,
sibique subesse dedignans, contra ipsum seditione facta, turbare
ad eum conversos pro viribus cepit misitque concito ad Henricum Alamannie
regem, quod veniret vel mitteret regnum Sicilie sibi iure uxoris pertinens, quod
Tancredus comes Licii usurpaverat recepturus.
Qui absque more periculo quendam Henricum Testam imperii Marescalcum
cum multitudine gravi mittit in Regnum.
Et veniens in Apuliam nullo obstante ad ipsum Andrie comitem, primum casale quoddam
quod Cornetum [Corneto, circondario di Bovino, in prov di Foggia] dicitur,
ad abbatiam Venusii pertinens, pro eo quod abbas loci ipsius in partem cesserat
dicti regis, hostiliter intrans cum predicto comite, suis dedit in direptionem et predam;
et que potuit dicti regis parti faventibus mala irrogans, tandem cum minorificato exercitu
in Alamanniam reversus est.
Dictus vero Andrie comes in Apulia remanens, firmata rocca Sancte Agathe quam tunc
ipse tenebat, de suis confisus viribus, se in Asculo recipit contra regem.
Quem dictus Acerrarum comes intus circumposita obsidione coartans, cum flectere illum precibus et promissis
non posset, vocatum ipsum ad colloquium quadam die proditorie cepit et miserabili morte dampnauit.»
(119)
Rich. de S Germ. ad ann. 1193.— Tancredus … Vi cepit etiam Roccam Sanctae Agatae [Sant'Agata dei Goti]
quam quidam Robertus de Calagio dicti Comitis Andriae filius [Roberto di Calazzo figlio di Ruggiero Conte d'Andria] contra eum tenebat.