di Annalisa Lomuscio
3.1 Nazareni e puristi: correnti artistiche e autori a confronto.
Lubecca e Ponza (oggi Arcinazzo Romano, godibile borgo a 80 Km dalla Capitale). Vienna e Roma. Inizio e fine del XIX secolo. Agiata famiglia luterana e formazione accademica per l’uno, origini semplici e studi nel Seminario di Subiaco per l’altro. Da una parte un temperamento anticonformista e ribelle, tanto da meritarsi l’espulsione dall’Accademia viennese, dall’altra un uomo descritto come modesto e buono (39), nonché profondamente devoto e stimato nell’ambiente ecclesiastico romano.Coordinate spazio-temporali e socio-culturali agli opposti. Eppure un filo rosso lega i due personaggi di cui parliamo, Johann Friederich Overbeck (1789-1859) e Tito Troja (1847-1916), i quali, nonostante le apparenze, molto hanno in comune: la vena pittorica, l’ammirazione e lo studio dei maestri della pittura medievale e, non ultima, la predilezione per soggetti sacri (40).Allievo di Johann Peroux, Overbeck si fa conquistare dalle opere di Giotto, Masaccio e Perugino, apprezzate inizialmente in incisioni. Nel 1806, trasferitosi a Vienna, frequenta per tre anni l’Accademia da cui viene allontanato per le sue idee artistiche contrastanti con il dominante classicismo dell’epoca, rappresentato da personalità autorevoli quali Mengs e Winkelmann. Overbeck, infatti, condivide con il connazionale Franz Pforr, anch’egli studente dell’Accademia, il progetto di tornare alla “primitività” religiosa del Medioevo germanico e della scuola italiana anteriore a Raffaello. Ulteriore punto del loro programma è l’interpretazione in chiave religiosa dello spettacolo della natura e del paesaggio, quale si concretizza nelle opere di un altro dei pittori di questa cerchia, Ferdinand Johann Heinrich Olivier (1785-1841).Nel 1809, animato da questi intenti, Overbeck fonda a Vienna, insieme a Pforr (sicuramente una delle figure più originali del gruppo) e ad altri quattro giovani pittori, la Confraternita di San Luca. Lascia Vienna per Roma nel 1810; qui, assieme ad altri, da vita al gruppo denominato dei Nazareni, che elegge come luogo di vita comunitaria il Convento di Sant’Isidoro al Pincio. Inoltre Overbeck, come altri compagni, si converte al Cattolicesimo, ricercando in esso le radici e i valori del Cristianesimo primitivo.Nel 1816, al fianco di Peter Cornelius, Wilhem von Schadow e Philipp Veit, realizza per Palazzo Zuccari a Trinità dei Monti, gli affreschi con Le Storie di Giuseppe in Egitto (conservate oggi agli Staatlischen Museum di Berlino), fonte di ispirazione per la pittura romantica tedesca. Nei dieci anni seguenti, al Casino Massimo, dipinge le storie di Olindo e Sofronia dalla Gerusalemme liberata, inserendoli sullo sfondo di paesaggi umbri di sapore peruginesco, avvolti da una luce quasi metallica. Dopo lo scioglimento del gruppo, Overbeck non abbandona le proprie convinzioni artistiche; nel 1863, a pochi anni dalla fine, stila il manifesto di un gruppo “purista” che si raccoglie attorno a lui. Anche se la sua fama è legata prioritariamente soggetti sacri e allegorici (fra cui il Trionfo della religione sulle arti, datato 1840, oggi al Museo di Francoforte), cui va chiaramente la sua predilezione, non mancano fra le sue opere pregevoli ritratti.In relazione sia con i Nazareni tedeschi che con i Puristi toscani, è il pittore Tommaso Minardi (1787-1871), uno dei più rappresentativi esponenti del Purismo romano. Il Minardi, che si mostra attratto dal colorismo veneto e dai maestri del Quattrocento, in particolare dal Perugino, dipinge soggetti sacri, soprattutto Madonne, la più celebre delle quali è forse la Madonna del Rosario (Roma, Galleria d’Arte Moderna). Redige nel 1834 un manifesto purista, firmato anche da Overbeck.Per i pittori della sua cerchia, alla imitazione dei classici, sinonimo di artifizio e falsità, andava sostituita una più semplice e chiara ispirazione alla realtà. Il movimento pittorico italiano, sulla scia dei Nazareni, propugnava anch’esso il ritorno a soggetti di ispirazione religiosa e la rivalutazione dei maestri del Trecento e del Quattrocento. In sintesi, i Puristi italiani, come i colleghi tedeschi, invitavano gli artisti al recupero dello schietto, cioè, puro, integro sentimento della natura degli artisti prima di Raffaello e del primo Raffaello (41).Alla scuola del Minardi apparteneva, tra gli altri, Luigi Fontana (1827-1908), un pittore molto stimato a Roma ed anello mancante della catena che ci conduce a Tito Troja. Infatti è proprio al Fontana che, secondo il Bruzzone (42), il Cardinale La Valletta presenta il nostro pittore, aprendogli la strada verso gli ambienti artistici vicini alla Curia romana e dando così una svolta decisiva alla sua carriera. Infatti, affiancherà il Fontana nella esecuzione degli affreschi della Basilica dei SS. Apostoli (1872), di S. Lorenzo in Damaso e di S. Salvatore in Lauro. Troja fa sue le istanze dei Puristi, traducendole in uno stile personale, essenziale e privo di orpelli. La sua predilezione va a soggetti di natura religiosa e devozionale, che erano poi quelli richiesti dalla sua particolare committenza, composta prevalentemente da ordini religiosi ed esponenti in vista del clero. Le sue capacità si dimostrano tali da meritargli la stima e l’apprezzamento dello stesso papa Leone XIII.Ciò che riesce particolarmente bene al Troja, è comunicare con uno stile semplice e spontaneo; il suo messaggio artistico e devozionale si manifesta chiaramente ai nostri occhi e può risultare comprensibile anche a persone fornite di scarsi strumenti culturali ed esegetici. Ci narra i momenti cruciali delle vite dei Santi e le loro esperienze mistiche con immediatezza, ricorrendo a colori che, se riportati allo splendore da un sapiente restauro, ci appaiono vividi al punto di farci quasi toccare con mano il sentimento di gioiosa e semplice religiosità che, a mio avviso, doveva costituire una non piccola parte del suo modo di sentire e di vivere. Ma non c’è solo questo: dai suoi dipinti traspare anche “l’attenta osservazione di Raffaello e dei Cinquecentisti, la conoscenza dei pittori Veneziani, la precisione del disegno, la vivace cromia…”, che sono elementi in comune con il Fontana e la sua scuola (43).Avendone già parlato N. Montepulciano non mi dilungherò nell’elencare le opere, talune ritenute pregevoli dalla critica, che il Troja dissemina sia in Italia - dalla Liguria alle Marche e all’Umbria fino al Lazio arrivando anche da noi in Puglia – sia all’estero, dove è forse più noto e stimato: sicuramente la sua fama oltreconfine è legata in particolare alla “creazione” dell’immagine devozionale di Santa Rita da Cascia. Realizza numerosi cicli di affreschi oltreché a Roma, in località minori del Lazio, quasi sempre in luoghi di culto legati alla presenza dell’ordine agostiniano o alla committenza di Leone XIII (44).Veniamo dunque ad Andria, dove nel Santuario della Madonna dei Miracoli, si contano ben sei tele a firma autentica del Troja che le realizza, tra il 1902 e il 1908, su commissione dell’allora Priore P. Cosma Lo Jodice. Gli vengono attribuiti anche due quadri presenti nella Basilica: un quadro è irreperibile e l’altro, che si trova in sacrestia, non è firmato (45).3.2 I dipinti di Tito Troja nel santuario della Madonna dei Miracoli.
Il P. Lo Jodice descrive le tele in ordine di arrivo al Santuario, in appendice alla sua Monografia sui Beati Martiri Agostiniani del Giappone (46). Per una più semplice fruizione delle opere da parte dei visitatori, preferisco invece seguire l’ordine di collocazione all’interno della Basilica, partendo dall’ingresso e procedendo dalla prima tela della navata destra, per tornare indietro percorrendo la navata sinistra.I soggetti raffigurati traggono tutti ispirazione dalla vita di santi agostiniani o dalla storia dell’ordine monastico.1 La Beata Giuseppa Maria di Sant’Agnese (1625-1696).
La tela è collocata in corrispondenza del primo intercolumnio della navata destra; è firmata e datata 1908. Il formato si adatta perfettamente alla forma ed alle dimensioni della cornice di stucco che la inquadra (Fig. 11).La scena è costruita su tre piani. Nel primo, sulla sinistra, è raffigurata la Beata spagnola dell’ordine agostiniano, in abiti monacali, il volto estaticamente rapito dalla visione del Cristo, fra rovi e sassi nell’atto di accogliere, con le braccia aperte e i palmi rivolti verso l’alto, quasi in atteggiamento di preghiera, la croce che il Cristo, ritto al centro del dipinto, dalla destra, le porge. Sullo sfondo una processione di fedeli o, forse meglio, di anime che si dirigono verso la Luce. La scena in primo piano appare ben delineata nelle forme e nei colori; prevalgono le tinte scure dell’abito della Beata, del terreno e degli arbusti e tutto è reso con grande realismo. La figura di Gesù è invece avvolta in una luce chiarissima proveniente dalla destra in alto del dipinto; essa mette in evidenza la grande croce che divide diagonalmente la scena dandole profondità – in realtà la croce è, a mio avviso, l’elemento dissonante del dipinto, apparendo sproporzionata nelle dimensioni rispetto alle figure, in particolare a quella del Cristo che la sostiene. In questa parte della scena i colori sono chiari: verde per il prato, rosso per la veste di Gesù, giallo ocra per la croce. Alle spalle del Cristo, la scena racchiusa in un’aura dorata, presenta, avvolte da nubi, figure umane appena accennate (anime purgate?), definite più dalla luce che dal disegno; tutte abbracciano una croce e si dirigono in una lunga fila ordinata verso un passaggio luminoso collocato in lontananza: la porta del Paradiso (la scritta IANUA COELI che corona la porta è appena leggibile).La Beata Giuseppa era stata canonizzata nel 1888, appena vent’anni prima della realizzazione del dipinto, proprio da papa Leone XIII, il committente di tante opere del Troja. Di lei si racconta che pregava in particolare per le anime del Purgatorio, che era in continua contemplazione della Passione di Gesù e che durante le processioni penitenziali, procedeva a piedi scalzi, portando sulle spalle una croce, sul capo una corona di spine ed una corda al collo. Il Troja ha ben tradotto, nello spazio pittorico, questi aspetti dell’esperienza religiosa della Beata, confermando la buona vena narrativa che la critica gli attribuisce.2 La Madonna della Consolazione o della Cintura con S. Agostino e S. Monica.
La tela, firmata e datata 1902, è collocata sulla parete sinistra della Cappella di San Benedetto (Fig. 6). Inserita entro una semplice cornice lignea, occupa uno spazio che doveva essere pensato per un altro dipinto, di forma diversa e di dimensioni maggiori. La sintassi è complessa e articolata: la scena ha una struttura piramidale e una prospettiva centripeta. Al vertice della composizione è posta la Vergine con il Bambino, assisa su un alto trono di legno dorato, intagliato a volute. Il trono con cartiglio centrale, su cui si legge l’intitolazione MATER CONSOLAT(ionis), è posto sulla sommità di una base lignea scandita in tre gradoni decorati con motivi classicheggianti di lesene e rosette, al centro è stesa una passatoia verde bordata di rosso che ricopre in parte anche il pavimento ricoperto di petali e foglie. La Madonna, scalza, indossa una veste rossa stretta alla vita da una sottile cintura; il capo è coperto da un leggero velo turchese come il mantello che ne avvolge la figura, lasciando libere le braccia con cui, da un lato, da la cintura a S. Agostino mentre dall’altro sorregge il Bambino, semicoperto da un panno bianco e seduto sul suo ginocchio sinistro, raffigurato nell’atto di porgere la cintura a S. Monica, che la bacia. I due Santi, inginocchiati, sono in posizione simmetrica e i loro sguardi rapiti tracciano due linee ideali: l’una congiunge gli occhi di Sant’Agostino a quelli della Vergine, l’altra quelli di Santa Monica con quelli del Bambino. Accanto al Santo, sul primo gradino, è poggiato un libro che sembra quasi uscire dal piano verso lo spettatore, dando il senso della profondità. Ai piedi della Santa, un gruppo di cinque putti, tre dei quali sono disposti a formare un triangolo. Quello biondo, al centro, seduto sul secondo gradino, è dipinto frontalmente ma ha il capo piegato all’indietro e guarda con intensità la Madonna alla quale, con la mano destra, porge un cuore fiammeggiante, mentre con la sinistra aiuta l’angioletto seduto sul gradino più in basso -a sinistra di chi osserva- a sorreggere un grande foglio. Questo secondo angioletto, bruno e riccioluto, panneggiato in un morbido drappo rosa trattenuto sulla spalla da un nastro rosso, ha lo sguardo fisso sullo spettatore, regge nella mano sinistra un grande foglio e impugna con la destra una penna d’oca con cui sta terminando di scrivere la frase Cingulo suo confortavit nos. Sulla destra di chi osserva è invece il terzo: biondo e seminudo, indossa una cintura che gli blocca alla vita un panno celeste, il quale ricade fino ai suoi piedi lasciandogli scoperta la gamba sinistra. Dipinto di tre quarti, volge lo sguardo verso l’alto, alla Madonna e al Bambino, offrendo loro un mazzolino di fiori. Un pò defilati rispetto alla composizione principale e meno definiti nei contorni e nei colori, altri due piccoli angeli bruni, di cui quello in primo piano reca nelle manine giunte un altro mazzetto di fiori. Sullo sfondo giallo oro, dietro le figure principali della Vergine e di Gesù Bambino, compare una folta schiera di Angeli, la maggior parte dei quali appena abbozzati, in atteggiamento di preghiera; anche nei loro abiti predominano il rosa e il celeste. Ne spicca uno che porge alla Madonna un vassoio su cui sono poggiate delle cinture. La scena culmina in una folla di teste angeliche, alcune delle quali si dispongono in cerchio sopra al capo di Maria.Dice testualmente Padre Lo Jodice: “Questo quadro è sul tipo di Raffaello e tutta di lui sembra la testa della Madonna”. A mio modesto avviso, sono raffaelleschi l’impianto complessivo del dipinto, oltreché l’atteggiamento e i colori delle figure principali, soprattutto quelli della Vergine, di Gesù Bambino e dei puttini; i volti più riusciti sembrano, invece, quelli di Sant’Agostino e dell’Angioletto in primo piano al centro; di quest’ultimo colpisce lo sguardo sereno, ma al tempo stesso “saggio” e penetrante.3 Il Beato Clemente presenta a Papa Nicolò IV e alla Corte Pontificia il Beato Agostino Novello.
Il dipinto, firmato e datato 1904 (47), è inserito in una cornice curvilinea in stucco, sulla parete fra il quarto e il quinto pilastro della navata destra (Fig. 8). A differenza dei due precedentemente descritti, si tratta di una scena di interni. Siamo alla corte papale, l’atmosfera è solenne e raccolta; fra una schiera di porporati, il Pontefice, assiso in trono, riceve la visita dei due Beati. La sala è tappezzata di rosso cupo alle pareti, mentre il pavimento e i tre scalini che portano al trono sono rivestiti di un tappeto verde scuro. Il Papa indossa talare e cotta bianca in pizzo, mantelletta e camauro in velluto rosso bordato di ermellino bianco, stola in seta finemente ricamata; dall’orlo della veste si intravedono le punte delle scarpe, anch’esse rosse. Le braccia sono protese in un gesto di benevola accoglienza verso il Beato Agostino Novello, che, ritto dinnanzi a lui, con la gamba destra flessa e il piede poggiato sul primo gradino, porta la mano destra al petto mentre la sinistra è portata in avanti, con il palmo verso l’alto. Alle sue spalle si erge l’imponente figura di un Cardinale, in mozzetta e mantelletta, indossate sopra talare e cotta in pizzo, con il capo leggermente chino in avanti, in atteggiamento reverenziale e raccolto, il braccio sinistro lungo il corpo e la mano destra che stringe un libro. Altri due Cardinali sono rappresentati di tre quarti alla destra del Papa. Al centro della scena, alla sinistra del trono pontificio, è ritratto il Beato Clemente, pressappoco nello stesso atteggiamento del confratello. Alla sua destra ed alle sue spalle altri membri del collegio cardinalizio. In questo dipinto è notevole il realismo dei volti dei Cardinali, tanto da farmi azzardare l’ipotesi che il Troja si sia ispirato ai tratti di membri della corte papale di Leone XIII, a lui ben noti.4 Santa Chiara della Croce di Montefalco.
La tela, firmata e datata 1902, si trova nella navata destra, all’altezza del presbiterio, in prossimità della prima rampa della scalinata che conduce al soccorpo (Fig. 7). Sembrerebbe essere stata malamente adattata alla cornice curvilinea in stucco, simile a quella che ospita gli altri dipinti (fatta eccezione per quello della cappella di San Benedetto); in alternativa, la tela potrebbe essere stata preparata in base a misure errate, forse a causa della difficoltà di rilevare una cornice molto articolata e posta a quella altezza sulla parete. La scena presenta, a destra, in primo piano la Santa, in vesti monacali, il velo appena mosso da un alito di vento, inginocchiata al cospetto di Gesù. Le sue braccia sono protese in avanti, i palmi delle mani rivolti verso l’alto, in atteggiamento di preghiera e di offerta; lo sguardo è estaticamente rapito dalla visione del Cristo, mentre dal cuore al centro del petto, partono raggi di luce, ognuno dei quali si indirizza verso uno dei simboli della Passione, sorretti da una schiera di Angeli. Nostro Signore, appare dalla sinistra, in tunica e mantello bianchi, ritto davanti alla Santa, su una grande nube sospesa da terra, e protende la mano destra verso di lei; il suo volto si staglia di profilo su un’aureola dorata. Alle spalle del Cristo e di Santa Chiara, sono raffigurati due Angeli. Quello biondo dietro la Santa, rivolto allo spettatore, è vestito di bianco con una cintura rossa che gli cinge la vita; sospeso anch’egli su una nuvola, ha le ali spiegate e da quasi la sensazione di voler avvolgere Chiara in un abbraccio, mentre nella destra regge un mazzetto di gigli bianchi. Quello ritratto di tre quarti, alle spalle di Gesù, bruno e vestito di rosa, ha sguardo e braccia sollevati verso l’alto. La composizione è equilibrata, giocata sulla sapiente alternanza di colori chiari e scuri e le figure sono ben distribuite nello spazio, senza dare la sensazione di affollamento; l’immagine del Cristo è, senz’altro, quella più riuscita sia per il colore e il panneggio del mantello sia per il volto, bello e solenne.5 Gli undici Beati Martiri del Giappone.
Il dipinto, firmato e datato Roma 1904, si trova nella navata sinistra, all’altezza del quinto intercolumnio, esattamente di fronte a quello dei Beati Clemente e Agostino Novello (48); anch’esso non appare perfettamente corrispondente alla cornice in stucco, che lo ospita (Fig. 9).In primo piano, a terra, fra vegetazione e pozze di sangue, sono accatastati l’uno sull’altro, i corpi con le mani legate di tre Martiri; le teste mozzate giacciono poco distante. Dietro di loro, altri tre confratelli inginocchiati attendono l’esecuzione, in atteggiamento di preghiera e di composta rassegnazione; accanto a loro, ritti e in abiti sontuosi, tre dignitari imperiali -uno armato a destra dello spettatore e altri due alla sua sinistra- e il boia con la scimitarra sguainata. Spostati al margine sinistro del dipinto, in posizione più defilata altri esponenti della corte osservano da lontano la scena; uno di essi in sella ha alle spalle un servo che gli protegge il capo con un ombrellino. Sullo sfondo, una catena di monti, ai piedi dei quali un folto gruppo composto di monaci che attendono il supplizio, mentre dei servi alimentano il fuoco acceso in una grande catasta di legna dalla quale si leva una scia di fumo bianco e denso. Dalla destra in alto scendono su di loro, sospesi su una nuvola, quattro figure angeliche: quella più grande, vestita di rosa stringe nella mano sinistra la palma del martirio mentre con la mano destra indica il Cielo; dei tre cherubini, due hanno fra le manine altrettante corone ed uno una piccola palma nella destra. La scena drammatica e composta al tempo stesso, è resa con grande realismo e ricchezza di dettagli: in particolare l’autore si sofferma sulle vesti, sulle calzature, sui copricapo orientali dei carnefici e della folla astante.6 Il beato Alfonso de Orozco.
La tela è collocata nel primo intercolumnio della navata sinistra, specularmente a quella della Beata Giuseppa Maria di Sant’Agnese, con cui ha in comune dimensioni, datazione e modalità di acquisizione (49), oltre al fatto che entrambe rappresentano due esponenti dell’ordine agostiniano di origine spagnola (Fig. 10). Il Beato Alfonso, lo sguardo devotamente rivolto alla Vergine, è in ginocchio dinanzi a lei, ritta su una nuvola bianca. Attorno a lei cinque Angeli: delle tre figure più grandi, vestite rispettivamente di rosso, di verde e di bianco, una, a sinistra in basso di chi guarda, è impegnata a respingere il serpente con una lancia, un’altra, al centro del dipinto fra la Madonna e il Beato, porge a quest’ultimo una piuma d’oca, la terza infine ha le mani giunte e lo sguardo adorante rivolto verso Maria; delle due più piccole la prima, al centro in basso, regge un libro aperto, la seconda, ai piedi della SS. Vergine, le offre dei gigli. Il libro e la penna potrebbero alludere alla fama di Alfonso quale scrittore e abile predicatore. La Madonna ha lunghi capelli biondi, coronati da un’aureola di piccole stelle; indossa una tunica bianca ed un manto celeste, il braccio destro è sollevato e portato in avanti ad indicare il Beato, il sinistro è ripiegato sul petto. Sullo sfondo della composizione principale, avvolti in un’aura dorata, schiere di Angeli, alcuni dei quali appena accennati, contemplano la scena. Si noti il contrasto tra la parte destra del dipinto, ove prevalgono le tinte scure e quella sinistra, avvolta in una vivida luce che entra dall’alto, ove vi è grande varietà di colori.
Conclusa la descrizione dei sei dipinti autografi del Troja, rimangono sul tappeto numerosi dubbi e alcune considerazioni o, meglio, alcuni spunti di riflessione. È evidente che la presenza delle tele di Tito Troja nel santuario non è casuale ma frutto di una volontà ben precisa di restituire lustro e bellezza ad un edificio di culto che da non molto tempo era stato acquisito dagli Agostiniani e che, rimasto incompleto nelle opere di arredo, aveva anche subito notevoli danni e spoliazioni. La chiesa nel 1907, sotto il pontificato di Pio X, viene elevata a Basilica, e i dipinti vanno proprio dal 1902 al 1908; nella scelta dei soggetti, vi è inoltre un evidente progetto di celebrazione dell’ordine agostiniano, nuovo proprietario dell’immobile.Un dubbio è legato al particolare che, su cinque tele – escludendo quella della Vergine della cintura - solo due, quelle datate 1908, hanno una forma perfettamente aderente alla cornice di stucco in cui sono inserite, mentre tutte le altre, a prima vista, appaiono quale più quale meno riadattate o risagomate, alcune volte anche in maniera approssimativa. Almeno in un caso – quello della tela con i martiri del Giappone – ciò sembra aver comportato il “taglio” di alcuni soggetti, messi ai margini della tela. L’inconveniente potrebbe essere dovuto ad un errore nelle misure, cosa evitata solo nelle due tele più recenti. Ci sarebbe poi da appurare se i dipinti siano stati realizzati interamente dal maestro o se egli, dopo aver creato il disegno generale dell’opera, si sia dedicato alle figure principali lasciando ad altri gli aspetti secondari e la cura dei dettagli.Ancora, i dipinti del Santuario furono pagati, all’epoca, tra le 200 e le 500 lire; al cambio attuale fra gli 800 e i 2000 euro circa; ebbene, ho trovato, nel sito di una casa d’aste (50), un olio su tela intitolato La fondazione della Cattedrale di Foligno firmato Tito Troja e datato 1891 (cm75x100, quindi circa la metà dei nostri), che partiva da una base d’asta di 3.500 euro. Quotazioni così basse confermerebbero la poca considerazione (51) - che da poco alcuni critici e storici dell’arte lamentano - nei confronti di un pittore così valente e stimato ai suoi tempi e che forse ha pagato con la scarsa notorietà la “colpa” di aver operato soprattutto su committenza ecclesiastica, ma ancor più, di aver rivolto la sua attenzione a soggetti prevalentemente sacri, in un momento in cui i tempi e con essi le tendenze artistiche, al di fuori di Roma e del conservatorismo dell’ambiente cattolico, andavano in tutt’altra direzione. Anche solo “parlare” di Fede, nella crisi di certezze di fine Ottocento poteva sembrare, se non anacronistico, almeno fuori moda.Mi ripropongo di approfondire, nel prosieguo degli studi, il nesso tra il gusto pittorico del Troja e gli ambienti culturali contemporanei, per sottolineare che non solo la pittura dei Nazareni e dei Puristi, ma anche parte della letteratura, in quegli anni, guardava a modelli ispirati, almeno nelle tematiche e nei valori, al Medioevo e al primo Rinascimento.Inoltre è mia intenzione individuare fra le opere dei maestri della pittura, italiana in particolare, quelle che fornirono spunti al Troja o furono per lui veri e propri modelli.Mi riprometto infine di confrontare l’esperienza e le opere dell’artista di Arcinazzo con quelle di altri pittori suoi contemporanei di area centro-meridionale: penso, solo per fare un esempio, al lucano Michele Tedesco (1834-1917), nelle cui opere di ispirazione sacra sembra di poter ritrovare la luce dorata -la stessa dei Nazareni- e il purismo presenti nei dipinti di Tito Troja, conservati nella Basilica della Madonna dei Miracoli ad Andria.
[tratto da “Le tele di Tito Troja nel Santuario della Madonna dei Miracoli d’Andria” di A. Lomuscio, N. Montepulciano, L. Renna, V. Zito, estratto dalla "Rivista Diocesana Andriese" Anno LVI - n. 1 - Gennaio/Aprile 2013, pagg. 162-173, 179-183] (*)
[nelle seguenti pagine del sito potranno essere letti gli altri capitoli dello"studio":]