di Vincenzo Zito
Agli inizi del ’700 il santuario doveva avere ancora un aspetto rinascimentale medievaleggiante, con le pareti affrescate e le superfici lapidee dipinte, così come riferisce il Pacichelli in occasione del suo terzo viaggio in Puglia nel 1686 (1) e com’è riscontrabile dai saggi effettuati e dai risultati delle demolizioni effettuate a partire dal 1911 (2) (Figg. 1-3).Con l’affermarsi anche in Puglia dei modelli artistici del barocco, al quale successivamente fu data ingiustamente un’accezione negativa, anche per il nostro santuario fu avviato un programma di interventi volti ad adeguare l’edificio religioso al nuovo gusto estetico.Un primo intervento fu opera del marmoraio napoletano Ferdinando de Ferdinando che nel 1720 realizzò l’altare centrale, oggi non più esistente (3).Alla prima metà del ’700 si può ascrivere la sopraelevazione del secondo livello e della guglia del campanile, che sarebbe opera di un tale architetto Finelli (4).Verso il 1745 furono collocati gli altari delle cappelle del Crocifisso e di S. Benedetto, opere di un altro marmoraio napoletano, Domenico Troccoli (5).Dopo una pausa decennale fu la volta di un intervento di più vasta portata. Le pareti interne della chiesa superiore e di quella inferiore furono rivestite con stucchi e cornici. Questo intervento ha conferito l’aspetto generale baroccheggiante della basilica tutt’ora visibile e che, forse, ha avvalorato l’errata attribuzione dell’opera a Cosimo Fanzago (6). I lavori, e questa è una notizia inedita, furono eseguiti tra il 1753 ed il 1754 dallo stuccatore beneventano Nicolao Galante (7), secondo un “disegno” approvato che si conservava nel monastero e che, probabilmente, è andato perduto insieme all’archivio. Oltre ai lavori di stuccatura propriamente detti il Galante eseguì anche lavori extracontrattuali, tra i quali la demolizione delle pitture che decoravano le pareti (ad ulteriore conferma che la chiesa era tutta dipinta), la scalpellatura dei capitelli di pietra delle colonne, la formazione dell’ossatura del cornicione (forse quello della navata centrale), dell’ossatura di quattro altari e di alcune finte delle colonne. Nel contempo non furono eseguiti altri lavori previsti nel contratto relativi a due cappelle da realizzare a sinistra ed a destra dell’altare [maggiore]. Dovendo regolare i rapporti economici per le opere extracontrattuali e per quelle non eseguite, furono nominati i periti muratori Nicolò Antolino e Vito di Jeva, come risulta da un atto notarile del 1° marzo 1755, risolutivo di una controversia tra il Galante ed i benedettini (8).La decorazione delle pareti della chiesa superiore era completata, sulle pareti non interessate da altari, da sei cornici identiche, evidentemente destinate ad ospitare altre tele. Ogni cornice delimita una specchiatura che misura cm 155 x 200, con due lobi alle basi, formati da segmenti circolari aventi la base di cm 130 e raggio diverso. Il lobo superiore presenta un’altezza di cm 46 con raggio di cm 70 ed è rivolto all’esterno della specchiatura. Il lobo inferiore ha un’altezza di cm 30 e raggio di cm 80 ed è rivolto all’interno della specchiatura. Le cornici si presentano sotto forma di medaglioni sospesi ad una cornice che delimita la parete di ciascun intercollumnio. L’attacco dei medaglioni alla cornice è identica per cinque di esse, mentre si differenzia quello posto nella prima campata della navata di sinistra.Nella cappella di S. Benedetto le pareti laterali portano altre due cornici quadrate, della misura di cm 250 x 250 circa, impreziosite con articolate rientranze alla base inferiore e sporgenze su quella superiore. Anche queste cornici dovevano essere destinate ad ospitare altre tele.Appena conclusa l’opera del Galante, sulle “ossature” da questi realizzate furono montati i quattro altari in marmo delle navate laterali, attribuiti al napoletano Giuseppe Bastelli (9). Contemporaneamente nel coro dietro l’altare maggiore furono collocate le tele della Natività di Maria e della Nascita di Gesù, almeno una datata 1755 e firmata da Alessio D’Elia (1718 – dopo il 1770). Nella cona del secondo altare nella navata di destra fu collocata la tela di S. Nicola, che anch’essa sarebbe firmata dal D’Elia e datata 1755. Alla stessa data ed al medesimo artista sono state attribuite le altre tele del Crocifisso, di S. Benedetto, di S. Michele Arcangelo, di S. Mauro che soccorre gli appestati e del Martirio di S. Placido, poste nelle cone degli altari delle cappelle e delle navate laterali (10). Allo stesso periodo dovrebbe anche appartenere la grande tela di Giuda Maccabeo vincitore di Nicàmore, collocata sulla retrofacciata del santuario. Anche questa tela, priva di data e firma, è stata attribuita allo stesso A. D’Elia (11).Infine verso il 1757, come risulta dalle incisioni poste sulle transenne marmoree in corrispondenza delle scale, il presbiterio fu circondato da una balaustra di marmo bianco.Il grandioso progetto di ammodernamento iconografico dei benedettini fu purtroppo interrotto dalla soppressione dell’Ordine e del monastero, avvenuta nel 1807 per ordine di Gioacchino Murat (12). La chiesa per molti anni rimase incustodita e fu addirittura privata di alcuni elementi. Tra questi si ricorda il coro ligneo e la tela di Giuda Maccabeo, ora rispettivamente nel coro della cattedrale di Bisceglie e sulla retrofacciata della chiesa di S. Nicola di Andria (13).Con la venuta degli Agostiniani calzati nel 1838, la Basilica fu finalmente riaperta al culto quotidiano (14). I nuovi custodi, nel riprendere l’opera di “ammodernamento” iniziata dai benedettini, si occuparono anche di riparare ai guasti seguiti alla soppressione francese ed al lungo periodo di abbandono. Nel 1849 rivestirono la facciata della grotta con una nuova facciata, poi rimossa nel 1911, impreziosita con la installazione di un organo (15), opera del napoletano Michele Sessa. Successivamente, nel 1853, fecero eseguire sulla retrofacciata della chiesa l’affresco di S. Agostino che sconfigge gli eretici, opera del pittore foggiano Ernesto Affaitato. L’affresco andava a riempire il vuoto lasciato dalla grande tela di Giuda Maccabeo trasferita nella chiesa di S. Nicola. Si occuparono anche, ad opera del medesimo organaio Michele Sessa, della ricostruzione dell’organo della chiesa superiore, distrutto al tempo della soppressione francese, per la cui realizzazione la civica amministrazione andriese contribuì con un contributo di £ 200 (16). L’arredo della chiesa si arricchì anche di una serie di otto quadri del pittore settecentesco Francesco Robortelli (17), che rappresentano scene della vita di Gesù, donate nel 1843 dalla baronessa di Romagnano (con l’Unità divenuto “Romagnano al Monte”), città in provincia di Salerno (18). Queste tele, che al tempo del Merra adornavano gli spazi vuoti sulle pareti delle navate laterali della chiesa superiore, oggi sono esposte nella ex sala capitolare (19). Purtroppo l’opera di arredo della chiesa fu nuovamente interrotta nel 1866 perché con l’Unità d’Italia si giunse ad una seconda soppressione degli ordini religiosi e il Santuario fu definitivamente privato del monastero (20).I frati, dopo diverse vicissitudini, solo in un secondo tempo e con grandi sacrifici, nel 1886 dettero inizio ai lavori di un nuovo monastero (21), dove attualmente alloggiano, e non potettero occuparsi del completamento della chiesa.Soltanto con l’approssimarsi del 1907, cinquantenario dell’incoronazione della Vergine a patrona di Andria, e grazie all’impegno del P. Lo Jodice, fu possibile finalmente portare a compimento il progetto iconografico avviato nel 1753. Per tal fine importante è stata l’opera di Tito Troja.
[tratto da “Le tele di Tito Troja nel Santuario della Madonna dei Miracoli d’Andria” di A. Lomuscio, N. Montepulciano, L. Renna, V. Zito, estratto dalla "Rivista Diocesana Andriese" Anno LV - n. 3 - Settembre/Dicembre 2012, pagg. 158-162; Anno LVI - n. 1 - Gennaio/Aprile 2013, pagg. 178-179] (*)
[nelle seguenti pagine del sito potranno essere letti gli altri capitoli dello"studio":]