Nel 1042 i Normanni, riunitisi a Melfi, si elessero loro capo Guglielmo Braccio di Ferro, il più valente dei figli di Tancredi di Altavilla.
Nel 1043, invitato da Guglielmo, il Principe di Salerno Guaimaro V venne a Melfi. I Normanni lo acclamarono Duca di Puglia e di Calabria ed egli investì Guglielmo della Contea di Puglia, le cui terre furono distribuite fra i dodici capi: tanto quelle già conquistate, quanto quelle ancora da conquistare.
A Pietro, figlio di Amico, toccò Trani, caposaldo bizantino in una Puglia che, tra rivolte e sanguinose repressioni, stava solo cambiando padrone. La conquista non era facile: la città era cinta da valide mura e poteva resistere ad un lungo assedio, perché riceveva soccorsi in viveri ed armi sia dalla flotta bizantina, sia dalle milizie greche comandate da Argiro, il bizantino duca di Puglia, Teodoro Cano ed Eustachio Palatino.
Pietro, per bloccarla e crearsi nel contempo delle valide basi operative, la strinse entro un “quadrilatero” di centri fortificati: due sulla costa – Bisceglie e Barletta – e due nell’interno – Andria e Corato.
Fu allora che Andre da “villa” divenne “castrum/civitas” e si accrebbe della popolazione dei “loci” viciniori, che intese mettersi al riparo dalle scorrerie, dalle razzie, dagli incendi e dai saccheggi a cui i Normanni inevitabilmente assoggettavano le terre che conquistavano.
L’8 maggio 1046 Guglielmo Braccio di Ferro sconfisse i Greci sotto le mura di Trani. Forse solo allora la città fu assegnata al Conte Pietro di Amico, che o non vi prese possesso che di nome o, se l’ebbe, lo perse poco dopo (1).
Guglielmo moriva entro l’anno e nella Contea di Puglia gli succedeva il fratello Drogone, invano – a quanto pare – contrastato dal ricco e potente Conte di Trani.
Nel 1047, a Capua, l’Imperatore Enrico III riconobbe Drogone Conte dei Normanni e lo investì del Ducato di Puglia e di Calabria, tolto a Guaimaro V di Salerno. Ma quattro anni dopo Drogone morì assassinato e il supremo potere sui Normanni insieme col Ducato di Puglia e di Calabria passò nelle mani di Umfredo, un altro dei valenti figli di Tancredi di Altavilla.
Pietro d’Amico con i suoi cavalieri e vassalli combattè con le milizie che, guidate da Umfredo, da Riccardo di Aversa e da Roberto il Guiscardo, nel 1053 a Civitate sconfissero l’eterogeneo esercito papale: lo stesso Leone IX fu fatto prigioniero dai Normanni, che lo trattarono con riguardo e lo accompagnarono a Benevento. Poco dopo Pietro ed Umfredo vinsero i Greci di Argiro ai piedi del Gargano e nel 1054 i Normanni espugnarono Trani, Canosa ed altre città che, evidentemente, negli anni precedenti erano state riprese dai Bizantini. “È allora che dev’essere entrato in Trani il Conte Pietro, il quale a quelle due vittorie normanne (sull’esercito pontificio e sui Bizantini) aveva contribuito non poco” – commenta il Loffredo (2) –. “Incerto è invece, se la città sia rimasta nel possedimento del Conte Pietro e dei suoi figli Goffredo e Pietro II” (3).
Andria, Corato, Bisceglie e Barletta dovettero prendere l’assetto di “civitates/castra” nel decennio precedente al 1054. Certamente Andria era cinta di mura e munita di fortilizio nel 1059, perché Pietro se ne servì come sua estrema difesa, combattendo contro Roberto il Guiscardo che – morto Umfredo (1057) – egli s’era rifiutato di riconoscere Duca di Puglia e di Calabria.
Costretto ad abbandonare Melfi e Cisterna, di cui s’era impadronito, Pietro si rifugiò in Andria (4). Ma, vinto in uno scontro sanguinoso dal Guiscardo, cedette le armi e ne riconobbe la signoria.
Poco dopo, nel Concilio di Melfi, l’Altavilla riceveva dal papa Niccolò II l’investitura del Ducato di Puglia e di Calabria.
Non sappiamo quando Pietro di Amico, conte di Trani più di nome che di fatto, finì i suoi giorni. In un atto di donazione dell’anno 1064, pubblicato da Giuseppe Crudo (5), il conte Goffredo, figlio “magni comitis Petroni”, dona al Monastero di Venosa una barca per pescare nel Mare Piccolo della città di Taranto e il conte Pietro, suo fratello, conferma e loda tale donazione “pro remedio anime (eius)”.
Il De Blasis, inoltre (6), afferma che “nel maggio 1063 Goffredo, figlio di Pietro, conte di Trani, s’insignoriva nuovamente di Taranto e Mottola”.
Pietro di Amico, quindi, morì negli anni tra il 1059 e il 1063. Il primogenito Goffredo resse la Contea di Taranto. Fedele a Roberto il Guiscardo, Goffredo si pose al suo servizio sia nella lotta contro i Bizantini – nel 1066 tentò persino uno sbarco in Dalmazia – sia nel domare i baroni normanni che tentarono di sottrarsi alla supremazia del Duca di Puglia. Durante il triennale assedio di Bari, che il 16 aprile 1071 cessava di esser “centro della resistenza bizantina” e cadeva definitivamente in potere dei Normanni, Goffredo lottò al fianco del Guiscardo e assalì Brindisi per mare con successo. Si ignora l’anno della sua morte. Si sa solo che Pietro II, il minore dei due figli di Pietro d’Amico, a cui era toccata la Contea di Trani, tra il 1071 e il 1072 fu anche signore di Taranto, in qualità di tutore di Riccardo, figlio di Goffredo, minorenne. Ce lo dimostra un diploma dell’archivio di Cava, citato dal Di Meo, in cui è scritto che il conte Pietro (II), con suo nipote Riccardo, concede all’abate Orso la chiesa di S. Giorgio in Taranto “anno IV Domini nostri Romani Diogeni St. Imp. nostro mense magio, Ind. X”, cioè nel mese di maggio del 1072.
A tal proposito, l’intitolazione del diploma all’imperatore di Bisanzio Romano Diogene V e il rifiuto di Pietro II di seguire Roberto il Guiscardo nell’impresa di Sicilia hanno indotto alcuni storici a ritenere che il nostro Conte si fosse posto sotto il patrocinio dei Bizantini, ma il De Blasiis lo esclude, perché “a quell’epoca Romano Diogene era probabilmente morto o non aveva più alcuna autorità” (7): sconfitto dai turchi a Manzikert nel 1071 e fatto prigioniero, una volta liberato, trovò il trono occupato dal suo figliastro Michele e, da lui accecato, poco dopo morì.
Del resto Trani nel 1072 dipendeva solo di nome da Costantinopoli e solo di nome ne era Conte Pietro II che, benché “dominator” del territorio in cui erano comprese le quattro città fortificate dal padre, non era ancora riuscito a sottometterla. Questi, del resto, già da un anno era coinvolto in un vasto moto di ribellione, promosso segretamente da Ildebrando di Soana contro Roberto il Guiscardo, a cui partecipavano Abagelardo ed Ermanno, i figli di Umfredo, di cui Roberto loro zio e tutore aveva usurpato le terre, Riccardo di Capua, Gisulfo di Salerno e Amico di Giovinazzo.
Il Guiscardo, conquistata Palermo, verso la fine del 1072 ritorna in Puglia per sedare la ribellione, convoca in Melfi l’assemblea e vi chiama i conti. Pietro II si rifiuta di parteciparvi, anzi – pare col segreto accordo di una parte dei cittadini – penetra con Ermanno in Trani e “nella ottava dell’Epifania del 1073 prende possesso ufficiale della citta”. Roberto allora, senza curarsi delle scorrerie degli altri congiurati, assedia Trani con l’esercito e con la flotta e dopo 15 giorni, il 2 febbraio, ne ottiene la resa. Pietro, Ermanno e le loro milizie, scesi a patti col Guiscardo e usciti liberi dalla città, si rifugiarono in Andria. Intanto si arrendono anche Bisceglie e Giovinazzo: solo Corato, con Andria, resiste ancora.
Mentre il Duca si accinge ad assediarla, in una scaramuccia fra Andria e Trani, Ermanno e Pietro sono fatti prigionieri e gettati in carcere, Ermanno a Rapolla, Pietro a Trani.
Con la resa di Corato e di Andria la ribellione in Puglia fu sedata, anche perché Riccardo di Capua, che aveva occupato Canne l’abbandonò e si ritirò nella sua Contea. Solo Cisterna, una città del Melfese che ora non esiste più – è strano come alcuni storici, anche fra i maggiori, l’abbiano confusa con l’odierna Cisternino in provincia di Brindisi – oppose una tenace resistenza al Guiscardo, perché vi si era asserragliato un presidio di ribelli. Il fortilizio si arrese solo quando l’Altavilla, ricorrendo ad un singolare stratagemma, mostrò agli ostinati difensori il conte Pietro legato su un graticcio di rami contesto di giunchi (8).
Roberto si mostrò abbastanza indulgente verso i suoi vassalli ribelli: ad Abagelardo diede in feudo Bari. Pietro, liberato, perse solo Trani, che divenne demanio del Duca, e mantenne la signoria del territorio delle città ereditate dal padre col titolo di Conte di Andria, che perciò divenne Contea nel 1073 (9).
Vinto, ma non domato, l’irriducibile figlio minore di Pietro di Amico perseguì una politica antirobertiana fino al punto di stringere alleanza con l’Imperatore di Bisanzio, che lo riconobbe signore delle sue terre e gli concesse il titolo di “Imperialis Vestis” (10).
Si spiega così il suo spregiudicato rifiuto di unirsi agli altri conti normanni nel fare atto di vassallaggio ed offrire un “donativo” al Guiscardo, quando nel 1078 a Troia si celebrarono gli sponsali della di lui figlia Eria con Ugo, figlio di Azzo II, marchese d’Este.
L’anno seguente, poi, i baroni pugliesi, sobillati da papa Gregorio VII – che in rotta col Guiscardo l’aveva scomunicato per ben due volte – e da Giordano, Principe di Capua, si sollevarono. Pietro rientra in Trani, grazie all’amicizia con l’imperatore di Bisanzio Michele e si allea col cugino Amico, privato dal Guiscardo della Contea di Giovinazzo, e con il conte di Bari Abagelardo. Tutta la Puglia è in armi: rimane fedele all’Altavilla solo Giovinazzo, saldamente in mano a Guglielmo di Ivone. In soccorso dei giovinazzesi, assediati dalle milizie di Pietro, Abagelardo ed Amico accorre Roberto (11). La notizia del suo arrivo improvviso getta lo scompiglio fra gli assedianti che si ritirano a difendersi nelle loro città. L’anno seguente il Guiscardo ritoglie Bari ad Abagelardo che va in esilio a Costantinopoli dove finirà i suoi giorni. Poi, mentre egli assale e occupa Taranto, sua moglie Sichelgaita pone l’assedio a Trani e costringe Pietro alla resa. Anche questa volta il Duca di Puglia si mostra abbastanza generoso con Pietro e gli lascia le sue terre, pur ritogliendogli Trani e Taranto.
Dopo il 1079 non si hanno più notizie certe di Pietro II. Il nostro Conte – a quanto pare – divenne un vassallo disciplinato del Guiscardo, che il 29 giugno 1080, a Ceprano, si riconciliò col pontefice Gregorio VII e ne fu reinvestito di tutte le terre del Ducato di Puglia e di Calabria.
C’è chi – come il Palumbo – (12) sostiene che il Conte di Andria partecipò alla spedizione che Roberto il Guiscardo allestì contro l’imperatore di Bisanzio Alessio Comneno e, partito da Brindisi con la flotta normanna, sbarcò a Valona e prese parte all’assedio di Durazzo.
Il Palumbo non dice da quale fonte attinse queste notizie sul nostro Conte, che addirittura sarebbe morto a Farsaglia,
nella battaglia tra i Normanni del Guiscardo e i Greci dell’Imperatore Alessio e terminò con la disfatta di quest’ultimo.
Il suo racconto si conclude con queste parole:
“Dov’era stata più furiosa la mischia sul terreno coverto di lance e di scudi spezzati, tra i corpi pesti dai cavalli,
di soldati feriti o ammazzati, fu rinvenuto trafitto da una freccia il conte Pietro II, che teneva nella mano agghiacciata
stretto ancora il dardo da cui era stato trafitto, ed invano s’era sforzato di trarre dalla ferita:
gli occhi erano rivolti al cielo con pietosa espressione”
(13).
Mi si consenta di rilevare non tanto la singolarità di certi particolari sulla morte di Pietro II, che richiamano alla mente la fine di Epaminonda tebano e di Catilina romano; quanto l’errore storico in cui incorre il Palumbo, che fa morire Pietro II a Farsaglia, nella “battaglia dell’Imperatore”; questa in realtà si combatté il 18 ottobre 1081 a nord di Durazzo, mentre i Normanni tenevano stretta d’assedio la città illirica (14).
È certo, però, che Pietro non compare fra i Conti che nell’aprile del 1082 misero in tali difficoltà Ruggero Borsa – rimasto in Puglia a tenerli a bada – che il Guiscardo fu costretto a lasciare l’esercito nelle mani di Boemondo per sedare l’insurrezione che metteva in pericolo l’esistenza stessa del suo Ducato. La campagna fu più dura del previsto, anche perché la ribellione, capeggiata da Giordano di Capua e dai figli di Umfredo, Ermanno ed Abelardo, era alimentata dall’oro bizantino.
Solo il 10 giugno 1083, conquistata la roccaforte di Canosa, difesa da Ermanno, il Guiscardo poté definitivamente ristabilire il suo dominio in Puglia.
* * *
Pietro II è l’unico “Conte di Andria” del casato di Amico, di cui abbiamo notizie certe fino ad un ventennio dallo scadere dell’XI secolo.
I nostri storici locali sostengono che successore di Pietro II nella Contea di Andria fu Riccardo, figlio (fratello (sic!) secondo il D’Urso) di Goffredo, Conte di Taranto. Riccardo, essendo minorenne quando morì suo padre, non poté subentrargli nella successione, sicché Pietro II, il suo zio - tutore, resse non solo la Contea di Trani, ma anche quella di Taranto, finché nel 1079 non gliele tolse entrambe il Guiscardo che – come ho già detto – gli lasciò solo la Contea di Andria, cioè il territorio delle quattro città fortificate da Pietro I.
Su questo fantomatico “Riccardo Conte di Andria”, il D’Urso – che inspiegabilmente ritiene secondogenito di Pietro I e titolare della Contea di Andria per nomina del padre (sic) – (15) “affaccia due memorie”. “La prima – egli spiega – ci viene dal grande Archivio della Regia Camera di Napoli, dove trovasi un processo tra l’Abate Mansorio e l’Università di Genzano, e suo Conte. In questo nel foglio 680.a ter. avvi un privilegio de’ frati Bantini colla data del 1065. Si fa menzione in esso di Roberto Conte di Loretello, di Arrigo Signore di Giovinazzo e di Molfetta, di Goffredo Conte di Conversano, di Riccardo Conte di Andria, di Pietro Conte di Lesina, di Roberto Conte, e figlio di Guglielmo Conte di Vibone, i quali anche a persuasiva di Papa Alessandro II, e ad istanza degli Arcivescovi di Bari e di Acerenza, e del Vescovo di Terracina, accordavano al Monastero Bantino per rifarsi dalle sofferte perdite a motivo delle passate guerre, poter girare pe’ luoghi de’ loro dominii; ed occorrendo anche a fabbricarvi delle Chiese” (16). In calce, poi, annota: “Notizia attinta dal manoscritto del Prevosto Pastore”.
Entrambe queste “memorie” del D'Urso — accettate senza riserva dall’Agresti e da altri nostri storici locali — sono in netta antitesi con alcuni dati di fatto che ci rivengono da fonti affidabili e incontrovertibili.
Il Riccardo, Conte di Andria del “privilegio bantino” è senz’altro un anacronismo. Nel 1065 era ancora vivo suo padre Goffredo, Conte di Taranto e suo zio Pietro II governava la Contea di Trani, sicché non Riccardo, ma Goffredo e Pietro compaiono nella “donazione venosina” del 1064, l’uno come “d(ei) g(ratia) comes”, l’altro come “providentia dei inclitus comes”.
Né meno anacronistica è la “seconda memoria del D'Urso”: il Richardus, “vir” della “comitissa” Emma, anagraficamente non può essere il figlio di Goffredo, che il D’Urso — con uno svarione filologico — scambia per suo fratello.
Per il D’urso (18) — e per chi altro anche? — “soboles fraterna” è diventata “fraterna lege”. È vero che il verso, metricamente, non ne ha sofferto — donde il sospetto di un’interpolazione —; ma l’espressione ne è riuscita stravolta ed illogica.
Che Pietro succedesse a suo fratello Goffredo, in qualità di tutore di Riccardo, “soboles fraterna” (cioè figlio del fratello), finché questi non fosse giunto “ad etatem dominandi legibus aptam”, cioè alla “maggiore età”, che pare fosse quella dei 14 anni, è spiegabile logicamente e giustificabile storicamente e giuridicamente. Anche Roberto il Guiscardo, era successo a suo fratello (o fratellastro) Umfredo, come tutore del di lui figlio Abelardo, di pochi mesi: anche se poi da suo “tutore” divenne “usurpatore dei suoi beni”.
Ma ha un senso dire che la successione di Pietro a Goffredo sarebbe durata finché Riccardo “fraterna lege” (cioè in nome della legge che riguarda i fratelli — e di qui il D’Urso deduce che Riccardo era "fratello" di Goffredo! —) fosse giunto all’età di governare stabilita dalle leggi?
Una legge “che riguarda i fratelli” nel diritto alla successione è ovvia e, direi imprescindibile, perché alla morte del primogenito o del fratello maggiore, se questi non lascia figli, diventa erede dei suoi beni il fratello minore; ma la stessa non può essere applicata a regolare i rapporti “successorii” tra fratelli entrambi viventi e condizionare la durata della successione del fratello maggiore all’ingresso nella maggiore età di quello minore.
Comunque, Pietro successe a Goffredo nella Contea di Taranto e Riccardo, una volta “maggiorenne” sarebbe divenuto signore della Contea di Taranto, non di quella di Andria, che — come ho mostrato precedentemente — iniziò ad esistere storicamente dal 1073, quando la costituì Roberto il Guiscardo e la affidò a Pietro II, dopo avergli tolto Trani.
Un’altra grave difficoltà interpretativa insorge se si vuol determinare chi sia la “comitissa Emma” dell’iscrizione su riportata.
L’interpretazione dell’Arcivescovo Mastrilli — fatta propria dal D’Urso — che, cioè, si tratti della figlia di Goffredo, conte di Conversano non sembra accettabile: tra i figli di Goffredo, conte di Conversano — vissuto tra la seconda metà dell’XI e il primo decennio del XII secolo — c’è una sola donna: Sibilla. Una contessa Emma, invece, nella stessa epoca fu moglie di Rodolfo Maccabeo, fratello di Goffredo di Conversano (19).
Stando così le cose, mi sia consentito di affacciare l’ipotesi che il Riccardo della “seconda memoria” del D’Urso, cioè il “vir” della “comitissa Emma”, abbia retto la Contea di Andria sotto il regno di Guglielmo I il Malo, intorno alla metà del XII secolo, e che la “nobilis Emma” sia stata la nipote di Roberto II di Loretello, cugino di Re Guglielmo, e quindi di “sanguine regio”. Di Riccardo “comite de Andro”, “advocatus” dell’Abate Elia, si parla nella presunta donazione di “Rogerius dux” del “locus qui vocatur Sancta Maria de Fovea” alla chiesa di S. Nicola di Bari, con investitura dello stesso Abate. Ma Francesco Nitti di Vito è convinto che il documento è una falsificazione (20).
Tuttavia, se fosse vera la notizia pervenuta al D’Urso dall’Archivio della Cattedrale di Melfi, che Riccardo, Conte di Andria, nel 1094 fece da testimone in un istrumento, in cui Ruggero Borsa, duca di Puglia, residente in Melfi donava “un podere suburbano arbustato a favore di quella Chiesa” (21); si potrebbe concludere che negli anni ottanta, l’ormai maggiorenne Riccardo, morto Pietro II suo zio, e perduta la Contea paterna di Taranto nelle contese tra i figli del Guiscardo Ruggero e Boemondo — che ottenne le terre del Principato di Taranto — ereditò la Contea di Andria.
Comunque, nient’altro sappiamo di lui ed è un’affermazione del tutto arbitraria e gratuita quella dell’Agresti, che nel I volume del “ Il Capitolo Cattedrale di Andria e i suoi tempi: dall’origine sino all’anno 1911” a pag. 91 così afferma categoricamente: “Ai tempi di questo conte Riccardo cominciamo ad avere notizie precise del nostro Capitolo Cattedrale ecc.”.
Ammessa la sua buona fede nel ritenere “precise” tali notizie contenute nella cosiddetta Bolla del Vescovo Desidio del 1104, un “pubblico istrumento” che — come vedremo a suo tempo — ha tutti i crismi per essere invalidato, è senz’altro una sua illazione arbitraria la determinazione temporale “ai tempi di questo Conte Riccardo”: né la “Bolla”, né alcun altro documento, né una testimonianza storica di qualsivoglia genere offrono a noi e a lui un sia pur minimo appiglio per inferire che nei primi anni del XII secolo il “conte Riccardo” fosse ancora in vita.
La verità è che tra il 1079 e il 1118, cioè tra la definitiva resa di Pietro I al Guiscardo e la tragica fine del barese Argiro di Daniele per mano di Goffredo, uno dei figli di Goffredo di Conversano, non abbiamo documenti o testimonianze storiche affidabili per poter dare un volto, o semplicemente un nome, al “dominator” della Contea di Andria. Morto Pietro II, essa poté esser retta da suo nipote Riccardo oppure essere incamerata nei domini degli Altavilla, duchi di Puglia e Calabria: Roberto il Guiscardo, prima, Ruggero Borsa dopo. Nelle tormentate vicende che videro la Puglia, contesa tra i successori del Guiscardo, Beomondo e Ruggero, ed infine assegnata — tranne il Principato di Taranto — a quest’ultimo, spicca la figura del conte di Conversano, Goffredo IV, che estese i suoi domini, sembra, fin nel nord-barese. Quando e in quali circostanze la Contea di Andria venne nelle mani di Goffredo, uno dei suoi figli, non è dato sapere. Comunque, occorre tener presente, che Goffredo IV di Conversano era figlio di Beatrice, sorella del Guiscardo: ne consegue che il nuovo Conte di Andria, Goffredo, appartiene al casato degli Altavilla.
Intanto c’è da notare che a Trani (22) ad Andria, a Corato (23) e a Barletta — per limitarci alle città di cui erano stati signori i discendenti di Amico — le pergamene, dopo la morte del Guiscardo, sono intestate agl’imperatori d’Oriente non ai normanni duchi di Puglia e Calabria, Ruggero e Guglielmo.
A tal proposito alcuni storici — come il Filangieri di Candida — (24) ritengono che le città pugliesi, pentite di aver accolto i Normanni, rivelatisi più duri e spietati dei Bizantini, tentassero di riattacarsi invano alla più blanda signoria dell’Imperatore greco.
Altri, invece, pensano che s’intestassero gli atti ai Signori di Oriente solo “per lustra” e fanno rilevare che i maggiori centri pugliesi godevano di tale autonomia politico-amministrativa che, se non raggiunse gli aspetti classici del “comune” — come vorrebbe il Carabellese — (25), tuttavia permise loro di non ritrovarsi come puro oggetto di contesa tra Bizantini e Normanni o tra il “dominator” normanno e il Duca di Puglia.
C’era in essi piuttosto la volontà di governarsi secondo leggi e consuetudini proprie che l’aspirazione all’indipendenza politica. Questa del resto dovette presto apparir loro impossibile a realizzarsi, sia perché i loro conquistatori, vecchi e nuovi, avevano eserciti e flotte, a cui si poteva — al massimo — tener fronte e per breve tempo solo in caso di assedio; sia, e specialmente, perché i loro abitanti, diversi di origine, di costume e di religione, eran divisi in fazioni filobizantine o filonormanne.
Persino in Bari le insurrezioni assunsero l’aspetto di “moti di indipendenza” solo nei casi eccezionali di periodi critici della dominazione straniera: con Melo contro i Bizantini e con Grimoaldo Alfaranite durante il debole governo di Costanza, moglie di Boemondo, e di Gugliemo, figlio di Ruggero Borsa.
Il conte Goffredo — stando a quanto afferma il Loffredo (26) — fu signore di Barletta o “per cessione fattagliene da Roberto Vellavalle, che l’aveva in signoria nell’anno 1102, ovvero per morte di costui”.
Tra la fine dell’XI e gli inizi del XII secolo, quindi, la “facies” territoriale della Contea di Andria dovette subire sensibili mutamenti: certamente se n’era distaccata Barletta, venuta in signoria di Roberto Vellavalle, probabilmente in seguito allo sconvolgimento che in Puglia provocò la partecipazione di baroni, cavalieri e guerrieri normanni alla I Crociata “sotto la guida del gigantesco Boemondo il quale aveva al suo seguito non meno di cinque nipoti e due pronipoti del vecchio Tancredi d’Altavilla” (27).
Intanto nel 1111 morirono i due figli del Guiscardo, Boemondo e Ruggero. Essi nella contesa per la successione ereditaria avevano diviso e indebolito il Ducato a tal punto che vari signorotti normanni non solo s’eran proclamati indipendenti, ma — come Enrico, conte di Monte S. Angelo nel 1091 — erano persino ricorsi alla protezione dell’Imperatore di Costantinopoli Alessio Commeno, pur di sottrarsi alla soggezione degli Altavilla.
Quando il figlio del Borsa, Guglielmo, uscito di minorità, fu confermato nel possesso delle terre e dei titoli paterni dal papa Pasquale II, il Ducato — specialmente in Puglia — era in piena anarchia. Dall’Anonimo Barese apprendiamo che a Bari nel 1118 la fazione filobizantina d’Argiro di Daniele e quella indipendentista dell’Arcivescovo Riso giunsero allo scontro armato. L’Arcivescovo per motivi di sicurezza lasciò Bari e si rifugiò a Canosa; Argiro, a sua volta, lo seguì di nascosto con un manipolo di suoi fidi e si fermò a Trani, città ligia a Bisanzio.
Tornata la calma in Bari, l’Arcivescovo si mosse per farvi ritorno. Argiro, tempestivamente informato, gli tese un agguato presso la chiesetta di S. Quirico, tra Canne e Barletta, e lo uccise. Ma, mentre trionfante ritornava a Trani, s’imbatte in una schiera di militi del conte di Andria Goffredo, fautore dell’Arcivescovo. Riconosciuto e preso prigioniero fu condotto a Barletta, dove Goffredo, venuto a conoscenza del misfatto, lo fece impiccare.
Il Conte di Andria, Goffredo — come prima abbiamo accennato — fu uno dei figli di Goffredo (IV) di Conversano, nipote del Guiscardo, che dal 1067 al 1104 almeno, resse varie terre e città del sud e del nord barese (28) e rivendicò sempre la sua autonomia baronale nei confronti dei Duchi di Puglia e di Calabria.
Il Nitti di Vito (29) lo ritiene “una delle figure più importanti del primo trentennio del XII secolo” nella storia dell’Italia Meridionale.
Morto il duca Guglielmo nel 1126, quando Ruggero II di Sicilia ambì a succedergli nel Ducato di Puglia e di Calabria quale presunto erede, Goffredo di Andria con Grimoaldo di Bari, Tancredi di Conversano, Roberto di Capua, Ruggero di Ariano e Rainulfo di Alife — i principali baroni normanni del continente — fece parte della lega, costituita dal Pontefice Onorio II verso la fine del 1127, intesa ad impedire che tutto il Mezzogiorno — Sicilia, Calabria, Puglia e Campania — divenisse un unico “stato normanno” in potere del potente Altavilla.
Ruggero finì con l’aver ragione di una coalizione i cui membri non erano disposti a sacrificare interessi ed ambizioni per la causa comune. Dopo aver costretto il Papa ad abbandonare la lega e ad aprire i negoziati, il 22 agosto 1128 ne ottenne in feudo il Ducato di Sicilia, di Puglia e di Calabria. Quindi si volse contro i baroni ribelli capeggiati da Rainulfo, suo cognato, prese per fame Brindisi e costrinse Bari alla resa, bloccandola con una flotta di sessanta navi, comandata da Giorgio di Antiochia. Grimoaldo Alfaranite, che si era autoeletto “Principe di Bari” dovette cedere le armi e con lui capitolarono gli altri baroni pugliesi, compreso il nostro Goffredo. Solo Troia, abbandonata dal Papa, osò resistergli, essendosi posta sotto la protezione di Rainulfo; ma, quando questi la tradì pur di ottenerla in feudo, l’infelice città fu costretta alla resa e perse la sua indipendenza.
Domata la ribellione nel continente Ruggero non intese serbar rancore verso i Baroni sconfitti, che anzi perdonò e riconfermò nei loro rispettivi domini.
Ma nel settembre del 1129 radunò in Melfi un’assemblea di tutti i vescovi, gli abati e i conti di Puglia e di Calabria e ad ognuno fece prestar giuramento di rimaner fedele a lui e ai suoi figli, di rinunciare al “diritto di feudo” e quindi alla “guerra privata” e di mantener l’ordine e la giustizia nei propri territori consegnando i malfattori alle “corti di giustizia” del Duca (30).
Morto Onorio II, il pontificato fu oggetto di contesa tra Innocenzo II e Anacleto II. Acclamato papa Innocenzo II nel sinodo di Etampes con l’autorevole appoggio di Bernardo di Chiaravalle, l’antipapa Anacleto si rifugiò a Benevento e chiese l’aiuto di Ruggero e dei Normanni: l’ottenne, ma in compenso, con la Bolla del 27 ottobre 1130, concesse a Ruggero la corona regale di Sicilia, Calabria e Puglia “comprese tutte quelle regioni che i Duchi di Puglia avevano avuto in feudo dalla Santa Sede, col Principato di Capua, l’ “onore” di Napoli e l’assistenza della città papale di Benevento in tempo di guerra” (31).
Intanto i re di Francia e d’Inghilterra con i loro popoli, e il clero e il popolo del Centro e Nord Italia riconoscevano come papa legittimo Innocenzo II. Anche il tedesco Lotario di Suplimburgo — cui Innocenzo offrì di restituire e di estendere la supremazia degli Alemanni in Italia e a Roma — si schierò dalla sua parte.
Anacleto fu dichiarato “scismatico” e i suoi atti pontificali, come le sue investiture non ebbero alcun valore per la Santa Sede, così come per la cristianità, che riconosceva per legittimo suo pontefice Innocenzo II.
Di conseguenza i Baroni normanni del continente, che già a Salerno avevano riconosciuto come loro re Ruggero di Sicilia, colsero un nuovo pretesto per ribellarglisi.
La risposta dell’Altavilla fu pronta e decisa e la ribellione fu stroncata in sul nascere. Sbarcato a Taranto nel 1132, convinse delle sue colpe il conte Goffredo di Andria, che fece ammenda cedendogli parte delle sue terre. Quindi dopo tre settimane di assedio ebbe Bari in suo potere, inviò prigioniero in Sicilia Grimoaldo e ridusse a mal partito Tancredi di Conversano, sì da costringerlo a cedere ogni suo dominio per 20 solidi aurei costantiniani scifati (32). Ma, sconfitto Ruggero a Nocera dai Baroni campani guidati da Roberto e da Rainulfo, Tancredi di Conversano occupò Acerenza e, alleatosi con Alessandro di Matera e Goffredo di Andria, mandò ambasciatori a Roberto principe di Capua.
Mentre in Sicilia Ruggero prepara un nuovo esercito, la discesa di Lotario II in Italia rianima i Conti normanni ribelli. Tancredi provoca insurrezioni in varie città della Puglia; ma Ruggero, forte di un numeroso contingente di fanti e di arcieri saraceni, investe la Puglia, prende e saccheggia Nardò e Venosa e affronta Goffredo di Andria e Alessandro di Matera: cadono in suo potere Acquabella, Corato, Barletta, Minervino e Grottole.
Recatosi Alessandro a Roma per chiedere aiuti a Roberto ed a Rainulfo, Ruggero costringe alla capitolazione Matera e invia prigionieri in Sicilia Riccardo e Roberto, i figli del conte di Matera. Quindi, assalita e presa Anzi, cattura Goffredo di Andria che vi si era rifugiato, lo priva dei suoi possedimenti e delle sue ricchezze e lo invia prigioniero con la moglie in Sicilia. Di lì a poco la stessa sorte tocca a Tancredi di Conversano, mentre Alessandro si salva fuggendo in Dalmazia. È l’anno 1133.
L’Anonimo Cassinese all’anno 1132 annota: “Rogerius comites Conversanenses et Andriensem exheredavit”. Alessandro di Telese, nell’opera citata e Falcone Beneventano, nella sua “Cronaca”, all’anno 1133 spiegano “exheredavit” con “ruina, exilio, morte”. Fu questa la triste fine di Goffredo e di “tutta l’eroica prole” del conte Goffredo di Conversano (33).
Di Goffredo conte di Andria e della sua rilevante partecipazione alle drammatiche vicende che sconvolsero la Puglia nel primo trentennio e passa del XII secolo ci parlano sia i “cronisti sincroni” antichi, sia gli storici moderni. Si rimane, perciò, interdetti di fronte all’assoluto silenzio del Coniglio, che nell’ “Introduzione” al XX volume del Codice Diplomatico Pugliese (34) non solo non nomina Goffredo di Andria tra i figli di Goffredo di Conversano, ma negli accenni alle ribellioni dei baroni pugliesi contro Ruggero II, lo ignora completamente, anche se si richiama al “Chronicon” di Falcone Beneventano (35).
Data la serietà dello studioso, è escluso che gli si debba addebitare una svista così macroscopica.
Sono piuttosto propenso a credere che il Coniglio — contrariamente a quanto asseriscono
il Tarsia Morisco e il Morea — abbia sue particolari ragioni per ritenere che tra i figli
di Goffredo, conte di Conversano, non debba annoverarsi Goffredo, conte di Andria.
A pag. XLV della citata “Introduzione”, infatti, così egli si esprime:
“Si hanno poche tracce dei figli di Goffredo di Conversano e non si può affermare che, dopo la sua morte,
Tancredi sia rimasto a Brindisi. Roberto è ricordato in due documenti, Alessandro più frequentemente,
e non è possibile dare dati certi per tutto il periodo. Si hanno soltanto alcune indicazioni
che permettono di affermare che essi succedettero realmente al padre”.
A pag. XLI, poi dice:
“Pare inoltre che i tre figli di Goffredo, Roberto, Tancredi ed Alessandro di Conversano nel 1127
abbiano risposto agli appelli del papa e si siano schierati contro Ruggero”.
E continua indicando, sulla scorta del Carabellese, del Casper e della Jamison, in quali circostanze Tancredi
ed Alessandro parteciparono alle due ribellioni di “un gruppo di feudatari normanni”
e in quale fine deplorevole essi incorsero.
Sorge così la questione se i figli di Goffredo di Conversano siano stati solo i tre ammessi dal Coniglio
o anche altri, fra cui Goffredo di Andria. Parlando di lui il Tarsia Marisco
(36)
afferma:
“questo Goffredo, figlio di Goffredo IV di Conversano, fu conte di Andria”.
E altrettanto sostiene il Morea
(37):
“questo è pure l’Alessandro il quale, col proprio figlio Goffredo e co’ valorosi fratelli,
Goffredo conte di Andria e Tancredi, detto di Conversano, col Principe di Bari, Grimoaldo Alfaranite,
con Ruggero conte di Ariano e con parecchi altri conti pugliesi, per due volte tentò di arrestare nelle Puglie
la strapotente grandezza di Ruggero II, con quella miserrima fine che tutti sanno”.
Se per il Coniglio tale questione non è neppure supposta, tuttavia essa rimase e non tanto perché riguardi un personaggio della storia della nostra città, che per il dotto storico e studioso di paleografia e diplomatica F. Nitti di Vito “è certamente una delle figure più importanti del primo trentennio del XII secolo” fra i conti normanni di Puglia (38); quanto perché se Goffredo di Andria fosse fratello di Alessandro di Matera e di Tancredi di Conversano, troverebbero una più agevole spiegazione sia la sua riottosità ad assoggettarsi a Ruggero II, sia la punizione esemplare che subì: nipote del Guiscardo qual era non aveva inteso rassegnarsi ad esser vassallo di colui che ai suoi occhi era un “usurpatore”.
Tra il 1133 e il 1153, negli intricati eventi che si succedono nei domini continentali di Ruggero II, le città pugliesi verso la fine degli anni trenta si lasciarono nuovamente coinvolgere nelle lotte politico-religiose che videro schierati il papa Innocenzo II e l’Imperatore Lotario II contro l’antipapa Clemente e il “suo” Re di Sicilia e d’Italia, Ruggero II.
Il 1137 sembrò che Innocenzo e Lotario, incontratisi a Bari, fossero riusciti ad avere ragione dei Normanni e degli “scismatici”. Ruggero s’era ridotto in Sicilia e lo scismatico Arcivescovo di Bari era stato deposto, mentre il clero veniva riordinato e le chiese ritornavano all’obbedienza del legittimo successore di S. Pietro. Duca di Puglia divenne il conte Rainulfo.
Ma, partiti dall’Italia i Tedeschi di Lotario, Ruggero ricompare nel porto di Salerno, rioccupa Nocera, Capua, Avellino, Monte Sarchio, Ariano e Benevento e, poiché Rainulfo gli oppone resistenza in Puglia, la nostra regione diviene ancora una volta campo di battaglia tra i due fieri contendenti normanni, finché, nel 1139, con l’improvvisa morte di Rainulfo, Ruggero II non riprende definitivamente in suo potere l’Italia Meridionale.
Nell’autunno del 1140 ad Ariano signori feudali e vescovi, convocati in assemblea come vassalli, prestarono omaggio a Ruggero II — ormai legittimo “Re di Sicilia e d’Italia” per l’investitura concessagli l’anno precedente da Innocenzo II — e gli riconobbero la supremazia, promettendo obbedienza alle leggi ch’egli promulgò in un vero e proprio “corpus”: le Assise.
Non si tratta di una semplice associazione di idee se questa iscrizione ci richiama alla mente quella che si legge sulla colonna della nostra Cattedrale e di cui abbiamo precedentemente parlato. Non è improbabile che in entrambe le iscrizioni compaia lo stesso Riccardo — marito della “comitissa” Emma — la cui “pietas” ebbe modo di esercitarsi nel sovvenzionare la costruzione di chiese sia in Andria che in Barletta, a quell’epoca compresa di nuovo nella contea di Andria.
L’intitolazione comitale, “regia gratia comes” non lascia alcun dubbio sull’epoca a cui risale il “bollo di piombo”: siamo nella seconda metà del XII secolo, quando il Regno di Sicilia e d’Italia, costituito da Ruggero II, è solo ormai uno stato unitario e i conti, vincolati al sovrano col giuramento di fedeltà, non sono più tali se non per volere del Re; perciò non possono considerarsi ed intitolarsi “conti per grazia di Dio”, come — per esempio — i figli di Pietro di Trani, Goffredo e Pietro nella donazione alla SS. Trinità di Venosa: “Ego Goffredus dei gratia comes” … “Ego Petrus providentia dei inclitus comes”.
Sulla fine di questo Riccardo, conte di Andria, lo Spagnoletti (41) riporta due versioni nettamente contrastanti: quella del Petroni (42) — ed io aggiungo del Gabrieli — (43), la cui fonte è il Cinnamo (44), e quella che fu sua, ritenendo più attendibile la “Cronaca” dell’Anonimo Cassinese.
Secondo il Petroni e il Gabrieli Riccardo di Andria prese parte alla guerra civile che tra il 1155 e il 1156 funestò il regno di Guglielmo I il Malo, schierandosi dalla parte del re normanno e dell’ammiraglio Maione, il suo potente cancelliere barese. Pare che Guglielmo I, aizzato da Maione, si fosse inimicato col patriziato del Regno e col suo stesso parentato. Particolarmente bersagliato dagli atti ostili del Re fu Roberto di Bassavilla, suo cugino e cognato e conte di Loretello e di Conversano, perché correva voce che Ruggero II nel testamento lo avesse designato come erede al trono nel caso che Guglielmo si fosse dimostrato inetto a regnare. Il Conte di Loretello, stanco delle vessazioni, insorse contro Guglielmo e riuscì a trascinarsi seco molti dei baroni pugliesi, anche per gli aiuti fornitigli dall’Imperatore d’Oriente, che lo soccorse con l’oro e con la flotta armata, e per l’appoggio prestatogli da papa Adriano IV, che già nel 1154 aveva scomunicato Guglielmo.
Lascio la parola al Gabrieli che così ci descrive i drammatici avvenimenti, in seguito ai quali
il nostro Conte andò incontro ad una fine, a dir poco raccapricciante.
“La sollevazione fu generale in tutto il regno, ma infierì principalmente nella Puglia.
La guidavano per l’Impero Michele Paleologo (…), Costantino Ducas, Giovanni l’Angelo, e più tardi
Alessio Comneno, cugino dell’imperatore Manuello; e pei Baroni Roberto di Bassavilla.
Il regio esercito era capitanato dal cancelliere Asclettino; e tra i pochi signori feudali rimasti fedeli,
si segnalò Riccardo Conte di Andria, strenuo soldato, ma ferocissimo coi vinti e nelle vendette atroce (…).
Da Bari il Paleologo recossi a Trani e a Giovinazzo, che gli aprirono le porte. Scendeva frattanto
col numeroso esercito regio il cancelliere Asclettino, che si congiungeva con le genti di Riccardo
di Andria, e insieme si diressero a Trani alla testa di duemila cavalli e d’innumerevoli fanti.
Vi accorre chiamato dai Tranesi il Ducas; muove contro Riccardo che era a Barletta, e lo batte,
costringendolo a raggiungere in Andria il grosso dell’esercito regio. Il Ducas lo insegue.
Divide la sua gente in tre corpi: sulla fronte gli Sciti e gli arcieri, nel centro il conte
Roberto Loretello con buona parte della cavalleria, ed egli in fondo col resto della cavalleria,
in riserva. Riccardo, ardente di pugna e sicuro della vittoria, non divide i suoi.
Affronta impetuosamente il nemico, sbaraglia il primo e il secondo corpo e volge in fuga il Loretello.
Già gridava vittoria, quando si vide disperatamente assalito dalla cavalleria del Ducas.
Ne seguì una vicendevole strage. La gente greca si dette alla fuga. Il Ducas ferito si salvò fra i rottami
di alcuni muri cadenti, di dove difendevasi come poteva meglio. Gli si avventò dalle spalle Riccardo,
e avrebbelo certo avuto nelle mani, se un prete tranese non gli avesse rotta con un sasso la tibia.
Cadde Riccardo di cavallo; gli fu sopra il prete furibondo e lo finì a sassate. Quando lo vide agli estremi,
gli spaccò il ventre, ne strappò le interiora e gliele mise in bocca per fargli soffrire
tra gli spasmi ciò che il truce Conte aveva tante volte fatto soffrire alle sue vittime”.
(43)
(44).
L’insurrezione, avviata da Roberto di Loretello, forte di questi primi successi in Puglia, presto si estese in tutto il regno; ma fronteggiata con determinazione dal Re in persona, vittorioso nella battaglia di Brindisi del 28 maggio 1156 sui Greci del Ducas e del Comneno, subì un duro colpo con la distruzione di Bari, seguita a distanza di pochi giorni, e dalla cattura e dura punizione dei Baroni ribelli: solo il Loretello con pochi altri, abbandonati i Greci, sfuggì alle ire del Re e riparò a Benevento, prima, negli Abruzzi poi. Infine, stipulato il concordato tra Guglielmo I e Adriano IV, “l’intervento del pontefice salvava il conte di Loretello e Andrea di Rupecanina, che esulavano” (45).
Lo Spagnoletti, invece, sostiene che secondo il “Chronicon” dell’Anonimo Cassinese — un lavoro di diversi monaci — il Conte di Andria non fu soltanto dei ribelli, ma dei principali capitani dell’insurrezione. All’anno 1156 vi si dice che, seguita la pace tra re Guglielmo e il pontefice, questi gli chiese grazia pei due conti, di Loretello e di Andria e pei loro compagni. Domandò che la loro pena non si estendesse oltre l’esilio. E re Guglielmo “secure permisit exire regnum comitem Loritelli et comitem Andriæ et alios socios eorum prece papæ”. Ma non pare che il Conte di Andria si fosse perciò rassegnato a prendere la via dell’esilio. Di fatto all’anno seguente si trova ancora in Terra di Lavoro e in armi. Nel novembre giunse ad espugnare Aquino e Comino e ad insignorirsi delle terre di Fondi e di quelle di proprietà benedettina. “A. 1157 Mense novembri comes Andri cepit terram fundanam et Aquinum et terram s. Benedicti; deinde cepit Cominum”. E al gennaio seguente si riversò su S. Germano: l’abate Romualdo, che aveva ottenuto la grazia del Re, dovè fuggire su Monte Cassino con l’Arcivescovo Alfano di Capua ed altri. “A. 1158 — Comes Andriæ VI die mense Iannuario cepit S. Germanum et Romualdus abbas et Alfanus Capuanus Archiepiscopus et quampluares alii Cassinum conscenderunt”. Frattanto le campagne benedettine si ridettero al Conte e questi al domani salì su Monte Cassino ove “acriter pugnavit sed nihil profecit”.
E allora giudicò meglio per lui andarsene in esilio: “exit de regno”. “Questi sono i fatti che si desumono dalla Cronaca Cassinese — conclude lo Spagnoletti —. Finchè il Chiarissimo Petroni non li sbugiarda con documenti più gravi, mi permetterà di credere l’opposto di ciò ch’egli narra nella Storia di Bari” (46).
Ma né lo Spagnoletti né il Petroni (che perciò non poté “sbugiardare” i fatti narrati dall’Anonimo Cassinese) erano a conoscenza di una contesa, insorta intorno alla metà del secolo XII tra il potente barone Riccardo Turgisio, e sua moglie Sibilia da una parte e l’abate Nicola, rettore del Monastero d’Ognissanti di Cuti dall’altra, per il possesso della Chiesa di S. Nicola de Paleariis con tutti i suoi beni presso il castello di Gioia. La solenne sentenza del regio protogiudice della Curia barese, sire Leone de Reyza, con cui si restituivano i possedimenti usurpati da Turgisio all’abate non era stata eseguita; perciò questi si era rivolto al re Guglielmo perché sollecitasse l’esecuzione della sentenza a suo tempo emessa. Ma le lettere regie risultarono vane, perché il Turgisio si rifiutò d’intervenire alla Regia Curia, che a tal fine era stata convocata a Barletta alla presenza del vice-cancelliere Aschettino, di Riccardo conte di Andria, di Gilberto di Balbano, regio maestro comestabile e di altri baroni e militi.
Di questa vicenda si parla in un documento del Codice Diplomatico Barese, del 5 aprile 1155 (47). È l’anno in cui ha inizio l’insurrezione dei baroni pugliesi contro re Guglielmo e l’ammiraglio Maione di Bari, capeggiata da Roberto di Loretello. Giustamente il Carabellese (48) fa rilevare che Riccardo Turgisio “era uno dei malcontenti che si erano schierati dalla parte del Conte di Loretello”. Entrambi covavano un sordo rancore contro l’ammiraglio Maione: il Loretello perché il potente ministro barese gli aveva reso il Re ostile, il Turgisio perché autore della sentenza a lui sfavorevole era stato il protogiudice Leone de Ryza, padre di Maione.
“La parte più fedele al nuovo re normanno” — osserva con-seguentemente lo storico molfettese — era quella che partecipava alle convocazioni della regia Curia nell’amministrazione della giustizia.
Riccardo, conte di Andria, che fu convocato alla Regia Curia in Barletta, presieduta dal regio vice-cancelliere Aschettino — “l’arcidiacono catanese al quale il Re con Maione aveva dato ad amministrare la Puglia” — non poté, per ciò stesso, essere “non soltanto dei ribelli, ma dei principali capitani dell’insurrezione”, come sostiene lo Spagnoletti.
Del resto i cronisti dell’epoca, raccontando le vicende dell’insurrezione antiguglielmina,
non fanno alcuna menzione di Riccardo di Andria; tranne il Cinnamo, come si è già detto.
Lo stesso Anonimo Cassinese ne parla ad insurrezione domata, mai però, chiamandolo a nome,
ma servendosi dell’appellativo “Comes Andriæ”.
Ora se si tiene presente che il D’Alessandro (49), sulla scorta dello Chalendon e del Siragusa, sostiene che per l’intervento del Papa furon graziati il Conte di Loritello e Andrea di Rupecanina, ai quali il Re “permisit exire de regno”, risulta chiaro che, dove lo Spagnoletti leggeva “Andriæ”, gli storici moderni leggono “Andrea”; sicchè i vani tentativi di impossessarsi di Aquino, di Fondi e dei possedimenti dei Bendettini furono, in realtà, opera di uno dei più ostinati baroni ribelli di Terra di Lavoro: Andrea di Rupecanina, alleato del principe di Capua Roberto II, su cui il Re aveva preso aspra vendetta accecandolo.
D’altronde, se è comprensibile che il Rupecanina non si rassegnasse ad andare in esilio e si ostinasse a sollevar città e a combattere in Terra di Lavoro, dove era feudatario di “una forte e popolosa contrada”; non si vede da chi avrebbe potuto ricevere aiuto in danaro armi e soldati Riccardo di Andria: certamente non dai Bizantini, che dopo la grave disfatta di Brindisi erano stati ridotti all’impotenza; né dalle città e dai Baroni pugliesi, che dopo la distruzione di Bari si erano arresi a discrezione del Re; e neppure da Adriano IV che, dopo il concordato aveva solo potuto intercedere per il Loritello e — dato e non concesso — per lui.
Né si può supporre, infine, che il conte di Andria possedesse feudi in Terra di Lavoro, da cui trar denaro o far leva di soldati: dal “Catalogo dei Baroni”, di alcuni anni più tardi, risulta, infatti, che Berteraimo, il nuovo Conte di Andria, aveva in feudo oltre al territorio della Contea solo Minervino, S. Arcangelo, Policoro, Colobrara e Rocca (50). (pare che si tratti di Rocca Sant’Agata).
Nessun’altra notizia della Contea di Andria si ha fino alla morte di Guglielmo I, avvenuta nel 1166. Morto Riccardo,
Andria ridivenne “feudo regio”, come lo era stata dopo l’ingloriosa fine di Goffredo, probabilmente perché
il di lui figlio Ruggero era ancora minorenne. L’esilio, che per lui suppone lo Spagnoletti, è da escludersi dal momento
che suo padre Riccardo rimase fedele alla causa del Re e morì combattendo per essa.
Si spiega anche così il fatto che i documenti dell’epoca non parlino di una confisca di beni ai danni di Ruggero.
Diversamente, invece, le cose andarono durante la reggenza di Margherita di Navarra (1166-1171), Costei, infatti,
nel 1167 diede in feudo la Contea di Andria ad un suo nipote venuto di Spagna, Berteraimo (o Bertrando),
figlio di Gilberto che nel 1156 Guglielmo I aveva fatto Conte di Gravina.
Anzi un altro suo cugino, il francese Stefano di Perche, ottenne da lei non solo l’Arcivescovado di Palermo,
ma anche la più importante carica dello Stato, quella di Cancelliere.
Questi “cugini” della Regina — specialmente Stefano — avocarono a sé tal somma di potere che la nobiltà, il clero e “una parte della cittadinanza” dell’isola si allearono contro di loro. Fu allora costituita una “Curia Suprema”, composta di conti e di prelati, che — tra l’altro — ebbe il compito di liberare il Regno dal prepotere dei “cugini”. Stefano di Perche, Gilberto di Gravina e Berteraimo di Andria, suo figlio, nel 1169 furono privati dei loro feudi e destituiti da ogni loro ufficio e spediti in Terra Santa. Nel 1171 Guglielmo II, uscito di minorità, fu incoronato Re di Sicilia e promulgò un’amnistia generale.
Ruggero non ebbe bisogno dell’amnistia per recuperare la Contea di Andria, che gli fu ridata non solo perché era il legittimo erede del Conte Riccardo, ma anche perché era “de sanguine regio”, come c’informa nel suo “Chronicon”, l’arcivescovo di Salerno, Romualdo Guarna. Sua madre, infatti, — l’Emma “nobilis coniunx” di Riccardo dell’epigrafia dursiana — era figlia di Ruggero, conte di Celano, e vantava come nonna materna Mabilia — o Adelivia, secondo il Tarsia Morisco —, figlia del re Ruggero II (51).
Le sue notevoli qualità di uomo d’arme indussero Guglielmo II ad affiancarlo a Tancredi, conte di Lecce, nel comando dell’esercito apulo-siculo, che tenne a bada i Tedeschi del Barbarossa, comandati da Cristiano, arcivescovo di Magonza, e impedì loro di valicare i confini del Regno. In seguito, insieme con Tancredi, divenne “magnus comestabilis et magister iustitiarius Apuliæ e Terre Laboris” (52).
Dopo la disfatta del Barbarossa a Legnano (1176), riunitisi per le trattative diplomatiche i legati dell’Imperatore, dei Comuni lombardi, del Papa e del Re di Sicilia — che nella contesa s’era schierato col Papa e con i Comuni —, Ruggero conte di Andria e l’arcivescovo di Salerno e zio del Re, Romualdo Guarna, furono i plenipotenziari del Re normanno (1177). Essi con il loro contegno “decoroso ed abilmente fiero” condussero in porto le difficili trattative di pace tra il Papa, i Comuni e il Barbarossa a Costanza nel 1183. Furono essi a sottoscrivere il trattato per parte di Guglielmo II e alla loro opera furono rivolte parole di elogio non solo dal loro re, ma anche dal Papa e dai delegati dei Comuni lombardi: tanto si desume dal “Chronicon” di Romualdo Salernitano (53).
Nel 1189 moriva Guglielmo II, ma ben pochi tra i grandi feudatari del Regno tennero fede al giuramento che gli avevano prestato a Troia: di riconoscere erede al trono sua zia, Costanza d’Altavilla, figlia postuma di Ruggero II, sposata da poco ad Enrico VI di Svevia.
Ne nacque una guerra civile: tra gli aspiranti alla Corona presto rimasero soli a contendersela i due
“magni comestabiles et magistri iustitiarii Apuliæ et Terre Laboris”: Tancredi, Conte di Lecce,
che vantava i suoi diritti dinastici per essere nipote — sia pure bastardo — di Ruggero II
e Ruggero Conte di Andria, che altrettali diritti reclamava per la sua regale — se pur lontana e indiretta
— discendenza. Il conte di Lecce, per gli intrighi del vice-cancelliere Matteo
e la connivenza della Curia Romana riuscì ad ottenere la Corona regale nel febbraio 1190:
in un diploma del maggio 1191 con cui concedeva ai cittadini di Trani il risarcimento di tutti
i danni sofferti per essersi mantenuti a lui fedeli, a conclusione si legge:
“Datum in urbe felici Panormi per manus Mathei Regii Cancellarii anno dominice Incarnationis millesimo
centesimo nonagesimo primo mese Madii none Indictionis. Regni vero domini nostris Tancredi Dei gratia
illustrissimi et magnifici Regis Sicilie, Ducatus Apulie et Principatus Capue anne secundo feliciter. Amen”
(54).
Ruggero, deluso nelle sue ambiziose speranze e offeso gravemente nel suo amor proprio, perché costretto a divenir suddito di un bastardo del suo parentado, si ribellò. Quando Tancredi, ricorrendo all’oro regio e all’opera corruttrice di Riccardo conte di Acerra, suo cognato, riuscì a farsi riconoscere come leggittimo erede della Terra di Lavoro, dai Principati e da Roffredo, abate di Montecassino, Ruggero fremente e sfiduciato, ricorse ad un espediente estremo: invocò il “giuramento di Troia”, insorse in nome dei diritti di Costanza ed invitò Enrico VI di Hohenstaufen, suo marito, a venire in Puglia, per farli valere, insieme con i suoi interessi, dichiarandosi pronto a raccogliere per lui uomini ed armi. Dopo un certo indugio, che permise al Conte di Acerra di occupare militarmente la Terra di Lavoro, Enrico VI mandò Enrico Testa con un poderoso esercito. Attraversati gli Abruzzi, i Tedeschi si unirono alle forze di Ruggero di Andria e assediarono Ariano e i suoi castelli dove l’esercito regio prudentemente si era fortificato: “ma l’esercito tedesco, saettato dal sole di estate in campo aperto, tribolato da penuria di viveri e fors’anche decimato dal miasma palustre, spazientito, sciolse l’assedio e uscì dal regno” (55).
Rimasto solo Ruggero si chiuse in Ascoli Satriano
(56),
aspettando tempi più propizi. Riccardo di Acerra lo strinse di assedio e l’invitò ad arrendersi,
facendogli larghe promesse; ma, non essendosi Ruggero piegato, ricorse all’inganno e gli propose
un abboccamento per discutere possibili proposte di pace.
Ruggero, fidando nella lealtà cavalleresca dell’Acerra, vi si recò, ma assalito proditoriamente
dai di lui sgherri, fu fatto prigioniero e finì i suoi giorni sul patibolo.
Suo figlio, Roberto di Calagio, si difese strenuamente nel fortilizio di S. Agata ma nel 1193 dovette cedere. Di lui i cronisti non dicono altro, così come nessun cenno fanno di Filippo, fratello di Ruggero, il “regius baro” del “memoratorium” troiano (52).
La grave crisi in cui si dibattè l’Italia Meridionale, dopo la morte di Guglielmo II, fu provocata dalle forti resistenze che l’Imperatore svevo Enrico VI incontrò fra le popolazioni meridionali. “Un eventuale governo tedesco — afferma il Mezzanotte — (57) era, infatti, quanto di peggio (esse) potessero desiderare, data la sostanziale differenza esistente tra le condizioni economiche dell’impero e quelle ben floride del Regno meridionale. Esso non avrebbe potuto dimostrarsi che un governo oppressivo e rapace come in effetti fu: e non era lecito attendersi nulla di buono da uno straniero, che in nome della moglie veniva ad arrogarsi diritti non suoi ed usurpava un regno che non gli apparteneva”.
È lecito, perciò, concludere che Ruggero, conte di Andria — che nelle miniature del manoscritto di Pietro di Eboli è acclamato dai baroni, mentre Tancredi ha il favore del popolo — ebbe il grave torto di essersi schierato così decisamente ed irragionevolmente con lo Svevo. Si alienò in tal modo l’animo di quanti, fra i baroni, parteggiavano per lui e, rimasto solo, fece una fine che per le sue alte doti di uomo d’arme e di governo francamente non meritava.
[da “Andria nel Medioevo”, di P.Barbangelo, tip Guglielmi, 1985, pp.81-110]