S. Leonardo di Noblat - S. Dorotea

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S. Leonardo Pronao 1938, foto A. Ceccato per la Soprintendenza  San Leonardo di Noblat, nel prònao    San Leonardo di Noblat, a sinistra dell'abside
[S. Leonardo nel pronao, foto del 1938 di A. Ceccato per la Soprintendenza - foto del 2013, nel prònao (cliccando lo si vede ante restauro) e nel tramsetto - foto di Sabino Di Tommaso, 2013]

San Leonardo abate ed eremita [1]

Collocazione:
Il dipinto della foto di sinistra è affrescato sul semipilastro sinistro dell'arco di accesso dal prònao alla navata centrale; quello della foto di destra è affrescato sul pilastro tra l'abside centrale e l'abside della navata sinistra, sotto la Creazione di Eva.

Descrizione:
L'immagine affrescata nel prònao è dipinta su un fondo verde scuro col triplice bordo ocra-bianco-bordeaux, quella presso l'abside, con bordo simile, emerge da uno sfondo rosso nella parte superiore, giallo in quella inferiore.

Così lo descrive Riccardo Ottavio Spagnoletti nell'opuscolo pubblicato nel 1892:

"È un santo, vestito di tonaca bianca, con la testa tutta chiusa in un nero cappuccio, dal quale scende fino ai piedi un largo e nero scapolare. Nella sinistra ha un libro, chiuso da lacci di cuoio e con la destra levata benedice a coloro, ch'entrano nell'oratorio. Benedice con la forma liturgica orientale, protendendo l'indice e il medio e piegando il pollice sull'anulare e il mignolo abbassati. Questa figura si disegna severa e triste, come l'anima dei cenobiti: essa pare, che ti sospinga dalle malinconie del tempo ai terrori dell'eternità."

[tratto da I Lagnoni e Santa Croce - Investigazioni", di R. O. Spagnoletti, Tip.del Meridionale, Bari, 1892, pag. 21]

Il santo, invocato dai prigionieri e dalle puerpere,  veste un mantello scuro su una tunica chiara; con la destra benedice e con la mano sinistra regge un libro ed una catena; tale ultimo elemento iconografico lo fa identificare (per il Molajoli) a San Leonardo eremita francese, vissuto ai tempi di Clodoveo. Fu abate del monastero da lui fondato nel bosco che il re gli aveva donato per aver aiutato la regina Clotilde [affrescata adiacente a San Leonardo] a dare alla luce senza conseguenze il suo bambino. Intorno a tale monastero sorse poi la cittadina che porta il suo nome: San Leonardo di Noblat, nel territorio di Limoges.
Il culto di San Leonardo fu introdotto nel meridione d'Italia dai Normanni (Boemondo d'Altavilla, sepolto a Canosa, era un suo devoto; dal santo, affermava, liberato quando nella 1a crociata era stato catturato) ed era strettamente collegato con le varie crociate e l'afflusso dei pellegrini sulla via Francigena.

Condizioni degli affreschi: ambedue sono piuttosto rovinati nella parte inferiore. Per il San Leonardo affrescato nel prònao si è preferito mostrare anche la foto del 1968 (cliccando sulll'immagine) in quanto, a quel tempo, il dipinto era leggermente meno rovinato.

La figura di San Leonardo in Andria è probabilmente venerata già dal Duecento, se teniamo presente che la chiesetta di S. Giovanni Battista, che sorgeva dove successivamente fu edificata Mater Gratiae, fin dal 1201 era retta e officiata dagli agostiniani di San Leonardo di Siponto. Il Santo lo troviamo poi scolpito nel timpano del portale gotico della bellissima chiesa di Sant'Agostino, originariamente intitolata dapprima al SS. Salvatore, indi a San Leonardo, poi a San Martino quando fu affidata ai Benedettini, e infine a Sant'Agostino allorché la cura passò agli Agostiniani.

S. Dorotea Pronao 1938, foto A. Ceccato per la Soprintendenza  Santa Dorotea
[S. Dorotea, nel prònao, foto 1938 Soprintendenza - foto Sabino Di Tommaso, 2013
(cliccando la si vede ripresa nel 1968, ante restauro)]

Santa Dorotea [2]

Collocazione:
Il dipinto di Santa Dorotea è affrescato sul semipilastro destro dell'arco di accesso dal prònao alla navata centrale.

Descrizione:
L'immagine, molto deteriorata, è dipinta su un fondo verde scuro col triplice bordo ocra-bianco-bordeaux. Qui si propone la foto del 1968 in quanto più ricca di dettagli rispetto alle condizioni attuali, nonostante il restauro.

La santa veste un abito rosso, con uno scollo elegantemente bordato a geometrie. Ha i capelli biondi che scendono sul collo in ciocche inanellate. In mano sembra portare un cestino di frutta e fiori.
Il suo culto era molto diffuso nel medioevo (ai tempi in cui la nostra cripta fu affrescata), era una delle quattro grandi vergini ausiliatrici, insieme alle sante Margherita, Barbara e Caterina d'Alessandria.

"Dorotea (santa), vergine e martire (+ Cesarea di Cappadocia 310 circa). Secondo una passio leggendaria, fu arrestata durante la persecuzione di Diocleziano, torturata e condannata alla decapitazione. Mentre veniva portata al luogo del supplizio incontrò un giovane di nome Teofilo che, schernendola, le domandò dei fiori e dei frutti del giardino del suo sposo celeste. Dorotea glieli promise e infatti un fanciullo portò un cesto di fiori e di frutti a Teofilo, che si convertì.

     [testo tratto da "Rizzoli - Larousse Enciclopedia Universale" , Rizzoli Ed. - Milano, 1967; ad vocem]

Per una più approfondita lettura inseriamo un'analisi dei due affreschi presenti nel vestibolo, estraendola dal sotto citato testo:

"Proseguendo verso l'interno della chiesa si notano, sui fianchi dell'arco di accesso, due raffigurazioni di santi.
A destra ci appare una santa dai biondi capelli ricadenti in ciocche inanellate ai lati dei volto: porta una veste rossa ampiamente scollata, la parte centrale è gravemente danneggiata per la caduta dell'intonaco, pure sembra che la santa abbia in mano un cestino colmo di fiori e debba identificarsi con S. Dorotea.
Il modellato del volto non è privo di delicatezza, e la figura nel suo insieme, ancora splendente dei vivaci colori di quella veste rossa, di quelle chiome bionde, non manca di una certa grazia. Come la figura che le è di fronte, essa spicca su un fondo verde scuro incorniciato da fasce gialle, bianche e rosse.
Il santo sul pilastro di fronte porta, su una chiara tonaca, il saio nero, benedice con la destra e tiene nella sinistra un libro. Il volto allungato, dagli occhi fissi, dal lungo naso la cui linea si ricongiunge a quella delle arcate sopraccigliari, dalla breve barba, la mancanza di qualsiasi tentativo di rilievo o di plasticità, ricordano schemi bizantini del XIII sec. mentre lo sforzo di modellatura nelle vesti, per quanto rozzo e inefficace, i molti contorni soprattutto delle mani ci fanno ritenere questo, come l'affresco di fronte, che pur rivela uno stadio d'arte più avanzato e più libero da forme tradizionali, non anteriore al XV sec.
"

[tratto da “SANTA CROCE IN ANDRIA - NOTIZIE STORICHE E IPOTESI DI RESTAURO”, di F. Nicolamarino, A. Lambo e A. Giorgio, Tip. D. Guglielmi, Andria, 1981, pagg. 58, 67]


NOTE    _

(1) Secondo il domenicano arcivescovo di Genova Iacopo de Varagine (1230c - 1298) Leonardo etimologicamente significherebbe "Il buon profumo-fama del popolo" oppure "forte come un leone"; egli scrive infatti "Leonardus dicitur odor populi a Leos quod est populus & nardus quod est herba redolens, quia odore bonae famae populum ad se trahebat. Vel ... Leonardus dicitur a Leone. Leo enim ... habet fortitudine ...". Della leggendaria vita dei due santi Leonardo e Dorotea (il cui etimo, da δωρον e θεος, significa dono di Dio) se ne legge un'ampia narrazione, rispettivamente, nel capitolo 150, f. 102r e cap. 213, f.143r, nell'antica edizione del 1546 della "Legenda aurea" del domenicano Jacopo da Varagine (oppure cap. 155 e 210 nell'edizione del 1850).
Qui di seguito dalla sua opera, la "Legenda aurea", si trascrivono quelle parti che descrivono la vita di San Leonardo dall'edizione più antica, del 1546. In grassetto sono evidenziate le locuzioni più rilevanti che giustificano la successiva venerazione-protezione: delle puerpere e dei carcerati .
trascrizione dell'originale in latino traduzione

De sancto Leonardo

… Leonardus fuisse dicitur circa annũ dñi 500. Hic a sactõ Remigio remẽsi archieṕo de sacro fõte levatus & ab ipso salutarib⁹ disciplinis ĩstruct⁹ est. Cuj⁹ parẽtes primi in palatio regis Frãciæ habebãtur. Hic tantã gratiam a rege obtinuit, ȹ oẽs incarcerati, quos iṕe visitabat, ꝓtin⁹ absolvebãtur.
Cũ igitur fama sctĩtatis ejus excresceret, rex multo tքe eũ secũ manere coegit donec opportuno tքe ei eṕatũ donaret. Qđ ille renuit & solitudinẽ desiderãs, relictis oĩbus Aurelianũ ṕædicando cum fratre suo Lifardo devenit. Ubi, postꝗ in quodam cœnobio aliquãdiu vixerunt, dũ Lifardus suք ripã Ligeris solitarius manere vellet, & Leonard⁹ ք sctĩ spũs admonitionem in aquitania disponeret ṕædicare osculantes se abinvicem discesserũt.
Leonardus igitur ubique ṗædicãs, multa miracula exercens in quadã sylva civitati lemovicæ vicina habitavit, ubi erat aula regia causa venationis cõstructa.
Accidit aũt ut quadã die rex ibi venaretur, & regina illuc causa dilectionis egressa partu periclitaretur. Cũ ergo rex & familia ꝓpter reginæ periclitationẽ lugerẽt, & Leonardus per nemus transiret & gementiũ voces audiret pietate cõmotus illuc ꝓperavit, & a rege vocat⁹ ꝓotinus introivit. Cũ igitur a rege interrogatus quis esset se sancti Remigii fuisse discipulum narraret, rex spem bonam cõcipiens, & a bono magistro ipsum bene instructũ existimãs ipsum ad reginã induxit rogãs ut suis precib⁹ de recuperata cõjuge, & edita ꝓle duplex gaudiũ obtineret. Tunc ille oratione fusa qđ petebat, ꝓtinus impetravit.
Cũ autẽ rex multa in auro et argẽto sibi offerret, ille ꝓtin⁹ recusavit admonẽs, ut hæc pauperib⁹ daret dicẽs: «Ego nullis horũ indigeo, sed tantũ in aliqua silvarum contemtis hujus mundi divitiis soli Xṕo famulari desidero.» Cũ autem rex totum illud nemus sibi tradere vellet, ille ait: «Non totũ illud accipio, sed quantũ nocte cũ meo asello circũire potero tḿ mihi concedere exopto.» Quod rex libẽtissime adimplevit.
Cõstructo itaque ibidem monasterio ibi diu cum adjunctis sibi duobus monachis in abstinentia multa degebat. Cũ autẽ aqua uno ab eis miliario distaret, puteũ ibidẽ siccũ pœnitus fodi jussit quem aqua suis orationibus implevit. Locũ autem illũ nobiliacũ appellavit, eo ȹ a rege nobili traditus sibi fuisset.
Ibi tantis miraculis choruscavit ȹ quicũque ejus nomẽ in carcere invocasset mox ruptis vinculis nullo cõtradicẽte liber abiret & suas eidẽ catenas vel cõpedes ṕsentaret. Horũ plures secũ manebant, & ibidẽ dño serviebãt.
Septẽ quoque familiæ (or famulæ) de ejus nobili stirpe venditis oĩbus ad eũ venerũt & distributo singulis nemore ibi cum ipso manẽtes exẽplo suo plurimos attraxerunt.
Denique sanctus vir Leonardus multis clarus virtutib⁹ .8. Idus Novẽbris ad dñm migravit, ubi, postꝗ multa fecisset miracula clericis illius ecclesiæ est revelatũ, ut, quia locus ille propter multitudinis frequentiã arctus erat, alibi ecclesiã fabricarẽt et illuc corpus sctĩ Lconardi honorifice trãsportarẽt.
… … …

[tratto da: Jacobus, de Voragine (Genova) “ Legenda opus aureum quod legenda sanctorum vulgo inscribitur …”, Rothomagensi impressum, An.D.M.quin.quad.sexto., apud Petrum regnaud, 1546, f.102 cap.150.]

San Leonardo

Si racconta che Leonardo sia nato circa l’anno 500 [intorno al 496]. Fu battezzato da S. Remigio, arcivescovo di Reims e dallo stesso edotto nelle sacre discipline. I suoi genitori vivevano nel palazzo del re di Francia [di Clodoveo (481-511)]. Ivi entrò in tali grazie presso il Re da ottenere la liberazione di tutti i carcerati ch’egli visitava.
La fama della sua santità crebbe tanto che il Re lo invitò a permanere a lungo presso di sé, finché al momento giusto gli avrebbe conferito il titolo di vescovo. Egli rifiutò l’offerta e desiderando la solitudine, abbandonata ogni cosa, col fratello Lifardo si recò ad Aureliano dove poi vissero per qualche tempo in un certo monastero, finché Lifardo decise di restare solitario sulla riva della Loira e Leonardo su ispirazione dello Spirito Santo volle recarsi a predicare in Aquitania; così baciandosi si separarono.
Leonardo quindi predicando per ogni dove e facendo molti miracoli risiedette in una certa foresta presso Limoges, dove c’era una residenza reale edificata per la caccia.
Accadde poi che un giorno il Re era lì per la caccia e la regina [Clotilde] ivi uscita per una passeggiata fu presa dalle doglie del parto. Mentre il Re e la servitù si preoccupavano per il travaglio della Regina, Leonardo attraversava il bosco e, sentiti i lamenti, mosso a pietà si avvicinò e, chiamato dal Re, subito entrò. Avendo Leonardo detto al Re, su sua richiesta, chi fosse e che era stato un discepolo di San Remigio, quegli, pieno di fiduciosa speranza e stimandolo ben edotto da quel buon maestro, lo supplicò che con le sue preci ottenesse la doppia gioia della salvezza della moglie e la nascita del figlio. Egli immediatamente fatta la preghiera subito ottenne quanto chiedeva.
Quando allora il Re gli offrì una lauta ricompensa in oro e argento, egli subito rifiutò, esortandolo che fosse data ai poveri, dicendo: «Io non ho bisogno di essa, ma, abbandonate le ricchezze di questo mondo, desidero soltanto servire Cristo in una parte di foresta.» Poiché il Re intendeva donargli tutto quel bosco, egli disse: «Non lo prendo tutto, ma desidero che mi sia concesso solo quanto in una notte potrò racchiudere in un percorso col mio asinello.» Il Re glielo accordò molto volentieri.
Così costruito in quel luogo un monastero, seguito da due monaci vi condusse lungamente la propria esistenza in grande astinenza. Poiché l’acqua era lontana da loro un miglio, comandò di scavare più profondamente un pozzo in secca, il quale si riempì grazie alle sue preghiere. Chiamò quel luogo Nob[i]lac perché gli era stato donato da un nobile re.
Ivi brillò per i numerosi miracoli: chiunque in carcere lo invocasse, immediatamente, spezzate le catene senza ostacoli andava via libero e gli portava le sue catene o i ceppi. Molti di essi restavano con lui ed ivi servivano il Signore.
Anche sette famigli della sua nobile stirpe, venduto ogni avere si recarono da lui e con lui restando solitari nel bosco richiamarono molti altri con il loro esempio.
Infine il sant’uomo Leonardo, illustre per le tante virtù rese l’anima a Dio il sei novembre. Indi, facendo egli molti miracoli, poiché l’attuale luogo era stretto per la moltitudine di gente frequentante, i chierici di quella chiesa compresero che servisse fabbricarne altrove un’altra e ivi trasportare il corpo di San Leonardo.
… … …
(2) Pur esistendo il “Martyrologium Hieronymianumun” scritto da San Girolamo (347-420), nonché il testo redatto negli “ Acta Sanctorum” di sintesi dei vari antichi codici, si è scelto il testo di Jacopo da Voragine (1230c-1298) nell’edizione più antica disponibile (del 1546), perché la “storia-legenda”, non ancora inficiata dalle iperboliche aggiunte (anche apocrife) delle edizioni successive, fosse quanto più simile a quella esistente e raccontata ai tempi in cui le nostre cripte furono affrescate.
Qui di seguito da detta opera di Jacopo da Voragine, la "Legenda aurea", si trascrivono quelle parti che descrivono la “vita-legenda” di Santa Dorothea, tratta dall'edizione più antica, del 1546. In grassetto sono evidenziate le locuzioni più rilevanti che giustificano anche per questa santa la successiva venerazione-protezione delle puerpere.
trascrizione dell'originale in latino traduzione

De sancta Dorotea virgine & martyre

Gloriosa virgo Dorothea nobili senatorũ sãguine progenita, & secundũ morẽ Xṕianorũ occultè baptizata Sp[irit]ũ S[an]ctõ repleta virtutibus ac Xṕiane religiõis disciplina imbuta formosa valdé suք[er] o[mn]ẽs puellas regiõis illi⁹ fuit:
Q[uod]đ castitatis inimic⁹ diabol⁹ nõ sustinẽs Fabriciũ terræ ṕ[ræ]fectum in amorẽ ṕ[ræ]fate virginis stimulãs, ut ipsã carnali cõcupiscẽtia appeteret, instistigavit ꝗ[ui] promittẽs innumerabilẽ thesaurũ pro dote ipsam à legitimo toro copulandã postulavit.
Hæc audiens sancta Dorothea quasi lutũ terræ despiciẽs terrenas divitias ĩtrepida se Xṕo Jesu despõsatã esse fatebatur. Fabrici⁹ igitur furore succẽsus mox eã in doliũ plenũ fervẽtis olei mitti jussit: Ipsaque adjutorio Dei illæsa manẽs ac si balsamo ungeretur fragrabat & milia paganorũ convertit.
Fabrici⁹ verò credẽs magicis artibus hoc fieri ipsam in carcerem reclusit atque .9. dieb⁹ sine ciborũ alimentis custodi jussit: ȹ[uæ] a s[an]ctĩs angelis nutrita dum ad tribunal duceretur pulchrior quàm unquam visa fuit apparuit: unde cuncti admirabãtur quod tãdiu absque cibo & potu sustenta tã formosa videretur.
Fabrici⁹ verò dixit: nisi deos ĩ ṕ[ræ]senti adores eculei pœnas nõ evades. Dorothea s[an]ctã respondit: Deũ adoro, nõ dæmonẽ; dij enim tui dæmones sũt. Prostrata ĩ terrã elevatisque oculis ĩ cœlũ oravit ad Dñm ut ostenderet potẽtiã suã & quòd ipse sit sol⁹ De⁹ & nõ ali⁹ ṕ[ræ]ter eũ. Et ecce multitudo angelorũ cũ ĩpetu veniẽs cõterit ydolũ quod Fabrici⁹ suք[er] magnã colũnã erexerat: ita qđ nec particula colũnæ inveniretur: & audita est vox dæmonũ ք aëra clamantiũ: Dorothea cur nos devastas [?] multique gẽtiliũ cõversi sũt.
Deĩde Dorothea ĩ eculeo est suspẽsa versis pedib⁹ ĩ altũ, uncis laceratur corp⁹ ej⁹, virgis castigatur, flagellis ceditur: Denique ad mãmillas virgineas faces ardẽtes applicatæ sũt & iṕ[s]a semimortua stat usque ad crastinũ in carcere inclusa.
De mane verò producta, nec ulla macula neque læsio in suo corpore apparuit. Uñ[de] ṕ[ræ]ses vehemẽter admirans ait: Cõvertere ò amœna puella satis namque castigata es. Tũc vidẽs ṕ[ræ]fect⁹ q[uo]đ nec verberib⁹: nec carceribus: nec minis: neque blanditiis ipsã posset à fidei proposito revocare misit ad eã duas sorores .s[cilicet]. Cristẽ & Calistẽ ꝗ[uæ] metu mortis a Xṕo recesserãt: ut Dorotheã sororẽ suã similiter à Xṕo reverterent. S[an]ctã verò Dorothea suaviter auferens cæcitatem mentis & cordis ab eis ambas ad fidẽ Xṕi reduxit: quas Fabricius dorsotenus colligatas incẽdio tradidit corona martirii laureandas:
Fremens exhinc Fabricius Dorotheæ dixit: Quousque malefica nos protrahis: aut sacrifica ut vivas: aut capitali sententia plecteris. Illa aũt[em] læto vultu respondit: Quicꝗ[uid] vis passura sum pro Xṕo Jesu dño & spõso meo in cuj⁹ horto deliciarum rosas cũ pomis colligavi et lætabor cũ Xṕo in æternũ. Quod audiẽs tyrãn⁹ faciẽ ej⁹ cedi iussit: ita quod nec vestigia faciei ipsius apparerent & in carcerem servari usque in crastinũ.
De mane itaque educta de carcere undique sanata s[e]n[tent]ĩa capitali adjudicatur. Cũque duceretur ad mortẽ Theophil⁹ protonotarius regis quasi illusoriè rosas de viridario sponsi mitti sibi petit, quod illa promisit:
Cum aũt[em] venisset ad locum decollationis rogavit Dñm pro o[mn]ĩb⁹ illã venerantibus ut in o[mn]ĩb⁹ tribulalionib⁹ præcipuè a verecundia: a paupertate; & a falso crimine liberarẽtur: & ĩ fine vitæ cõtritionẽ & remissionẽ o[mn]ĩ[u]m peccatorũ obtinerẽt: mulieres partu laborantes & eam invocantes celerius sentirẽt profectum.
In his verbis inclinans se ad ictum spiculatoris apparuit puer crispo crine purpura stellis aureis inserta indutus ferens in manu sportellam cum tribus rosis & totidem malis. Cui Dorothea: Obsecro Dñe mitte rosas Theophilo scribæ: & statim post decollata est & passa .anno Domini 287. idibus Februarii.
Stans autem Theophilus in palatio præsidis accepit rosas & credidit in Christum: & pro fide sumpsit martyrium.

 

[tratto da: Jacobus, de Voragine (Genova) “ Legenda opus aureum quod legenda sanctorum vulgo inscribitur …”, Rothomagensi impressum, An.D.M.quin.quad.sexto., apud Petrum regnaud, 1546, f.143 cap.213.]

Santa Dorotea vergine e martire

La gloriosa vergine Dorotea, nata da una nobile stirpe di senatori, battezzata di nascosto secondo l’uso cristiano, dallo Spirito Santo ricolma di virtù e formata nella morale cristiana, fu la più avvenente delle ragazze del suo paese [Cesarea, in Cappadocia].
Poiché il nemico diavolo non approvava la sua castità, istillando nel prefetto del territorio Fabrizio l’amore per la predetta vergine acché la prendesse con carnale concupiscenza, lo spinse a chiederle di unirsi in legittimo matrimonio promettendo in dote un grande tesoro.
Sentendo tale proposta santa Dorotea, disprezzando qual fango le terrene ricchezze, tranquilla dichiarò essere sposata con Cristo Gesù. Fabrizio allora, acceso da furore, comandò che subito fosse immersa in una giara colma d’olio bollente. Restando ella illesa con l’aiuto di Dio, profumava come se fosse unta da un balsamo e [così] convertì migliaia di pagani.
Fabrizio in verità credendo che ciò accadesse per magia la chiuse in carcere e comandò fosse tenuta per nove giorni senza cibo. Dorotea, nutrita dai santi Angeli, quando fu portata in tribunale, apparve più bella che mai, onde tutti si meravigliavano come potesse sembrare così bella dopo tanti giorni senza cibo né acqua.
Fabrizio allora disse: «Se ora non adorerai gli dei non potrai evitare la tortura degli eculei.» Rispose santa Dorotea. «Adoro Dio, non il demonio; i tuoi dei sono demoni.» Prostrata in terra e mirando il cielo pregò Dio affinché mostrasse la sua potenza e ch’egli era l’unico Dio e nessun altro. Ed ecco una moltitudine di angeli venendo con impeto distrusse l’idolo che Fabrizio aveva eretto su una grande colonna, così che di essa non se ne rinvenne neppure una particella; nell’aria intanto si udì la voce del demonio che gridava: «Dorotea, perché ci annienti?»; molti pagani si convertirono.
Quindi Dorotea fu sospesa nell’eculeo con i piedi posti in alto, con degli uncini fu lacerato il suo corpo, colpito con verghe, frustato con flagelli; poi furono avvicinate delle torce ardenti alle giovani mammelle così che semimorta fu rinchiusa in carcere fino al giorno dopo.
Al mattino in verità venuta fuori apparve senza alcun livido né ferita sul corpo. Il preside, fortemente arrabbiato disse: «cambia idea, o attraente ragazza, sei stata fin troppo punita.» Ma il prefetto, vedendo che né con le frustate, né col carcere, né con le minacce, né con le lusinghe poteva farle rinnegare la sua fede, mandò a lei due sorelle, cioè, Crista e Callista, che per paura della morte avevano rinnegato Cristo, affinché anche la loro sorella Dorotea rinnegasse Cristo. Ma santa Dorotea soavemente illuminando la mente e il cuore di ambedue le ricondusse alla fede in Cristo; Fabrizio allora legatele insieme per il dorso le uccise con il fuoco, conferendo loro la corona del martirio.
In seguito Fabrizio rabbiosamente disse a Dorotea: «Fino a che punto pensi di propinarci le tue stregonerie: o sacrifichi [agli Dei] per vivere, o sarai condannata alla pena capitale.» Ella di rimando con volto sereno rispose: «Sopporterò qualsiasi pena tu voglia per Gesù Cristo mio signore e sposo, nel cui orto di delizie raccolsi rose e frutti e gioirò con Cristo in eterno.» Ciò sentendo il tiranno comandò di deturparle il viso in modo che non la si riconoscesse più e di custodirla in carcere fino al giorno dopo.
Al mattino pertanto estratta dal carcere del tutto guarita fu condannata alla decapitazione. Mentre era portata alla morte il protonotario regio Teofilo quasi per scherzo le chiese di mandargli le rose del giardino dello sposo; ella glielo promise.
Mentre andava al luogo della decapitazione pregò Dio per tutti quelli che l’avrebbero invocata perché li liberasse da ogni sofferenza, soprattutto dal pudore, dalla povertà, dalla falsa colpevolezza; inoltre che a fine vita ottenessero la remissione di tutti i peccati; le donne che, travagliate dal parto, l’invocassero, celermente dessero alla luce il nascituro.
Ciò detto piegandosi davanti al fendente del boia le apparve un fanciullo coi capelli ricci che indossava una porpora ornata di stelle dorate, recante nelle mani una cesta con tre rose ed altrettante mele. A lui si volse Dorotea: «Ti prego, o Signore, porta le rose allo scriba Teofilo.» e subito, decapitata, morì nell’anno del Signore 287, alle idi (il 13) di febbraio [data ipotizzata da Jacopo da Voragine].
Teofilo poi, mentre era nel palazzo del preside, ricevette le rose e credette in Cristo. Indi per la sua fede subì il martirio.