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Ogni edilizio aveva a que’ tempi il medesimo tipo, e così fosse egli a villa,
o a monastero converso, manifestava la diffidenza nella quale principi, privati o monaci
vivevano in tanto bollore di fazioni e di parti, e in un secolo in cui la potenza
della parola e della penna essendo pressochè nulla, e assai manchevole l’amministrazione
della giustizia, facea d’uopo troncar le contese, e proteggere i propri diritti
dagli assalti della frode e dalla violenza colla suprema ragione delle armi.
Or discutasi pure quanto ne piace se il palazzo del Monte prossimo ad Andria al sud di Barletta nella provincia di Terra di Bari sia stato, ovver no, fabbricato dallo svevo Federico, ma certo egli è che dalle semplicissime forme esteriori della sua architettura mal può definirsi se prima o dopo fosse innalzato.
Che veramente dominando Longobardi, Greci e Normanni il castello di Monte fosse occupato da un fortilizio, variando nome secondo l’epoche e gli autori, ne abbiamo luminose testimonianze per non dubitarne; trovandosi anche menzione di esso in una cronaca del 1009 citata dal Pratilli [1].
Ma è ugualmente certo che dell’antico castello appellato Castrum Nuctii o Nuctium (chè Andria non fu chiamata la città prima del longobardo Rachi [2]) non esisteva ai tempi di Roberto Guiscardo che una torre longobarda che questo principe fece distruggere per innalzare in suo luogo un vasto castello, al di cui compimento diede opera il suo figliuolo Ruggero. E volendo il cronista dare a questa fondazione un aspetto alquanto specioso, aggiunge che l’ingente spesa per edificarla fu sostenuta mediante la scoperta di un ricco tesoro ritrovato sotto una statua, la cui iscrizione indicava, che alle calende di maggio quando il sole sorgerebbe, il suo capo diverrebbe d’oro; secondo la spiegazione che ne diede un Arabo nel 1075, significava che aspettare si dovesse il primo dì di maggio a osservare dove l’ombra della testa della statua toccasse, che ivi si sarebbe rinvenuto il tesoro [3]. Ma come siasi dell’avvenimento, che di siffatte speciosità sono copiose le antiche cronache, non si potrebbe giammai sentenziare con fondamento se gli avanzi esteriori di questo castello all’epoca normanna o sveva appartengano. Niuno però ha mai dubitato che soggiornandovi l’Imperatore non lo abbellisse dei più squisiti ornamenti, e non vi spandesse tutto quel maggior lusso di cui eran atti que’ tempi. Imperocchè, tenendo conto di quanto scrive il Troyli nella sua storia del regno di Napoli [4], presentava questo castello ancora nella metà del secolo scorso la forma ottaedra, e ciascun angolo aveva una torre esagona. I muri eran larghi due metri e sessantacinque centimetri, interamente di pietre da taglio, e tanto regolarmente fra loro connesse, che sembrava un solo getto; e la sua muratura interna gareggiava in precisione coll’esterna in modo che non si sapeva scorgere quella differenza di epoche che, privi di documenti, non possiamo affermare se esista o no. Diciotto spalti precedono il muro delle torri. L’unica porta d’ingresso, ornata di colonne e sculture con due leoni di bello stile di breccia rossa del paese, vedesi volta ad oriente. La corte ottangolare, nella quale prima si penetra, ha nel mezzo una cisterna, la quale sopperir doveva a tutti i bisogni, che per essere il castello fondato sul monte non pativa nè fontane, nè altri gettiti d’acqua. Ad ognun dei lati della corte si presenta una sala della figura d’un regolare trapezio, poichè il muro, che corrisponde alla parte esteriore ottaedra, è più lungo dell’altro che chiude la parte interna. Sono esse tutte egualmente ornate di quattro colonne di breccia rossa, disposte in rettangoli in guisa che ognuna è aderente al muro, e s’innalza sopra basi che formano un semiottagono. Le pareti sono tutte coperte di marmo rosso.
Scorgesi tuttavia che queste sale erano a volta, e che da ciascuna colonna si spiccano tre zone di pietra liscia che formano l’arco , due al disopra dei muri laterali per sostenere la volta, e tre per figurare una croce fermata in mezzo da una rosa di pietra. Questa specie di voltare dà chiaramente a conoscere che l’epoca della costruzione di queste sale riguarda i primi anni del secolo XIII, ignorandosene quasi l’uso prima di quest’epoca. Niuna comunicazione esiste fra una sala e l’altra, e solo per tre porte aperte sulla corte se ne ha l’ingresso. Lo che può manifestarne l’officio distinto, a cui era ciascuna di quelle stanze destinata; e può anche fornire argomento a conchiudere per nulla consistere nell’ampiezza e dovizia dei privati compartimenti, secondo l’uso moderno, il lusso e la magnificenza degli edificii di quell’età, ma tutto concentrarsi nelle aule comuni; onde facilmente si spiega il difetto di reciproca comunicazione fra stanza e stanza.
Al piano superiore si sale per l’interno delle torri angolari mediante una scala a chiocciola. Ed il piano si compone di otto sale eguali alle inferiori, oltre a quattro minori ambienti di forma esagona praticabili dall’interno delle torri anzidette. Invece delle volte a crocera vanno coperte da una specie di bacino alquanto piatto che colle bisantine costruzioni collegasi, e se nelle sale inferiori suffolgono la volta le colonne, quivi sono colonnette aggruppate che posano sopra unica base, e sovrasta un solo capitello. Tre di queste sale hanno porte e finestre, che corrispondono nella corte, mentre le altre circolarmente si connettono. Queste finestre sono ornate di colonnette di marmo rosso, e riconducono a mente le antiche rimembranze dell’eclettica architettura siciliana. Non mancano due camini aderenti al muro nel piano inferiore, che però è molto probabile che ad epoca più recente appartengano, non avendosi che di poi notizia di loro origine, come a suo luogo diremo.
Nè va tralasciato che nel 1743, quando il Troyli visitò questo castello, eravi una specie di armario di forma oblunga annesso al muro, tutto di porfido come pure di porfido era il camino. Tutte le pareti delle sale le trovò coperte di marmi rossi e bianchi, dei quali non esistono che pochissimi frammenti, e le volte decorate di mosaici, dei quali non rimangono pure che pochissimi avanzi che danno una languida idea del lavoro. Intorno a ciascuna sala ricorreva un sedile di marmo che sopperiva all’ufficio dei banchi e delle seggiole, conciossiachè gli uomini d’allora sentissero assai meno di noi certi fittizii bisogni, onde ai soffici origlieri e ai persiani tappeti preferivano la pietra ed il marmo, e per riparare poi al freddo dei piedi stendevasi sul suolo la paglia, e quella che, in questo secolo decimoterzo e nei due successivi, dagli appartamenti del Louvre toglievasi, veniva impiegata a rendere soffici i sedili dell’Università parigina. Le attuali stuoie, avvegnachè intrecciate e screziate a più colori, discendono da tal costume modificato e migliorato.
Il castello del Monte invece di tetto è coperto interamente da una specie di terrazza che quasi corrisponde al costume orientale, e designa l’analogia fra il clima mitissimo del regno di Napoli e quello dell’Asia dove è possibile di usare i coperti piani, non opponendovisi il sopraggiungere delle nevi e de’ ghiacci. E ad impedire che le acque si soffermassero in guisa da recar danno all’edifizio, si eseguivano degli acroterii mediante i quali esse colano nella gran cisterna della corte: e nei lati esteriori di essa ci sono dei serbatoi costruiti superiormente alle sale esagone. E sono essi fatti con tanta cura che tuttavia, dopo sei secoli, esistono e tengono perfettamente le acque. E per trarle dai recipienti si praticò un tubo nel muro, che distribuisce l’acqua tanto al piano superiore, quanto alle inferiori officine.
La mancanza d’ogni iscrizione, o segno cronologico qualunque, nel castello del Monte, fu mai sempre cagione che molto si disputasse fra gli eruditi sull’età di questo e di altri pochi monumenti che lo somigliano. Conciossiachè assai mal si apporrebbe chi pretendesse inferire l’epoca in cui questo castello fu edificato, prendendo a considerare l’arte scultoria di una statua di donna supplicante innanzi al suo Signore la quale vi si ammira, mentre tutto induce a credere che a caso piuttosto che a disegno là si trovi, e ad ogni modo nella sua isolata postura non mostra avere nessunissima colleganza col concetto primitivo dell’edifizio. Ma se incerta è l’epoca nella quale il castello si edificò, è peraltro verissimo ch’egli fu tra i reali soggiorni uno de’ più favoriti da Federico, e che ivi passava a diporto ed a caccia alcuni mesi dell’anno.
Che se il castello d’Andria col solo lume della storia e coi pochi suoi frammenti c’indica
quanto partecipasse alla sua costruzione e ai suoi abbellimenti l’Imperatore Federico,
all’opposto a Foggia, dove sedotto il medesimo Principe dall’amena postura e bellezza
del paese aveva fatto innalzare un magnifico edilizio per alternativamente soggiornarvi,
non esiste che un’iscrizione, dalla quale apprendiamo che questo palazzo fu innalzato
nel mese di giugno del 1225, e l’opera fu diretta da un ufficiale imperiale di nome Bartolommeo.
Questo frammento annesso ora alla parete superiore alla porta della casa
d’un privato cittadino fu, non si saprebbe come, sottratto alla distruzione alla quale
soggiacque l’intera città ai tempi di Carlo I d’Angiò pel suo parteggiare per l’infelice Corradino
[5].
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Veggiam chiaro in quest’epoca [metà Ottocento] esercitarsi dai laici certi uffici da prima esclusivamente in mano de’ chierici, e accingersi a fondazioni semireligiose, ma che nulla avevano d’identico coi monasteri. Vo’ parlare degli ospedali, di cui abbiamo i primi esempi di qua dal Faro [“di qua dal Faro” era il Regno di Napoli, così detto perchè si trovava al di qua del faro della Sicilia; quest'ultima invece era detta “di là dal Faro”], istituiti d’origine assolutamente laicale, quantunque attigui e comunicanti a monasteri. Ed è molto a dolersi che quello di Tripergola fra Pozzuoli e Napoli, celebratissimo anche per le sue terme, fondato dallo svevo Imperatore sia scomparso nell’eruzione che fece il Vesuvio nel 1538 [6]. Non avvenne però egualmente dell’altro di Andria, il quale, se non appartiene precisamente all’epoca di Federico, fu però compiuto da Manfredi nel 1266. Lo fondò egli nel luogo medesimo, dove si alloggiavano i pellegrini che, percorsa la Via Appia, entravano in Andria per una porta, che appellavasi Santa dall’antica tradizione che per questa fosse entrato San Pietro. E collegato a questo ne fu fondato un secondo da un cittadino nel 1267 e l’anno dopo, presi que’ del paese da nobile e generosa gara, altri quattro spedali si videro sorgere.
E imperocchè al primo che si appellava della Misericordia vedesi tuttavia attiguo un piccolo palazzo, così lo storico dei monumenti svevi nella Sicilia argomenta che l’architettura di questo consuoni coll’epoca della fondazione di quell’ospizio, e dice d’ignorarsi di chi sia l’effigie di quella donna che vedesi al di sopra della finestra del primo piano [7]. Ma se la storia monumentale della Sicilia ci descrive copiosamente gli edifizii civili, che si andavano erigendo sotto il dominio de’ Svevi, non poteva adoprar il medesimo trattandosi delle chiese che di lunga mano di frequenza e sontuosità la cedettero agli edificii profani, dacchè cessarono di regnare i Normanni.
Le chiese non ebbero in quest’epoca ventura molto diversa dai castelli dei feudatari che Federico andò distruggendo non tanto per far luogo a suoi, quanto per cavarsi dagli occhi una spina che il molestava. Egli era in discordia col Papa, e poco perciò favoriva quanto al Papa si riferisce, e in quell’epoca, qual ne fosse la cagione, poco o nulla progredivano quelle opere e quegli istituti, cui il principe stesso non promovesse.
Egli È perciò che al genio poco cattolico di Federico si deve la scarsezza e povertà
degli edificii religiosi di qua e di là dello stretto durante il suo regno.
Troviamo infatti nella storia che a que’ Teutonici che vivevano allora nel regno,
e sembra formassero una casta religiosa, Federico diede chiese e conventi, che avevano
già appartenuto ai Cavalieri Templari che, soppressi, aveva esiliati dai suoi domimi.
Così avvenne dei monasteri di Trapani, di Siponto, di Terlizzi (appellato ora la Madonna di Severito),
e di un terzo prossimo ad Andria, tutti nella Puglia. Fra questi Leandro Alberti
fa solamente parola della chiesa di San Leonardo lontana quattro miglia da Ascoli
nella Capitanata, la quale chiesa trovò nell’anno 1525 quasi cadente
[8].
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Nè diversamente scorgesi che volgesse l’architettura anche alcuni anni dopo la morte di Federico, che la chiesa di Portasanta di Andria, la quale fu compiuta da Manfredi nel 1257, e la cui facciata fu cambiata trasferendovi però gli stemmi ed alcuni ritratti che erano nell’antica, manifesta che punto gli architetti dal precedente loro stile non eransi dilungati [9].
[testo tratto da "Storia dell’Architettura in Italia dal secolo IV al XVIII" del Marchese Amico Ricci, Tipi Regio - Ducal Camera, Modena, 1858, Vol. II, pagg.18-22, 27,31, 144]