L'architetto Vincenzo Zito, sintetizzando alcune opere eseguite nella Basilica tra il Settecento e l'Ottocento scrive:
"Verso il 1745 furono collocati gli altari delle cappelle del Crocifisso e di S. Benedetto, opere di un altro marmoraio napoletano, Domenico Troccoli.
Dopo una pausa decennale fu la volta di un intervento di più vasta portata. Le pareti interne della chiesa superiore e di quella inferiore furono rivestite con stucchi e cornici. ... I lavori, e questa è una notizia inedita, furono eseguiti tra il 1753 ed il 1754 dallo stuccatore beneventano Nicolao Galante secondo un “disegno” approvato che si conservava nel monastero e che, probabilmente, è andato perduto insieme all’archivio. ...
La decorazione delle pareti della chiesa superiore era completata, sulle pareti non interessate da altari, da sei cornici identiche, evidentemente destinate ad ospitare altre tele. Ogni cornice delimita una specchiatura che misura cm 155 x 200, con due lobi alle basi, formati da segmenti circolari aventi la base di cm 130 e raggio diverso. Il lobo superiore presenta un’altezza di cm 46 con raggio di cm 70 ed è rivolto all’esterno della specchiatura. Il lobo inferiore ha un’altezza di cm 30 e raggio di cm 80 ed è rivolto all’interno della specchiatura. Le cornici si presentano sotto forma di medaglioni sospesi ad una cornice che delimita la parete di ciascun intercollumnio. L’attacco dei medaglioni alla cornice è identica per cinque di esse, mentre si differenzia quello posto nella prima campata della navata di sinistra."
[la citazione di stralci del testo prosegue nella pagina della navata destra]
Nel vano della navata sinistra adiacente l'abside, sulla parete sinistra è affissa una tela firmata "Sr. M. Rosario Relig. Agostiniana - Milano 1930", raffigurante Sant'Agostino in abiti pontificali.
Il Santo nella mano destra regge il pastorale mentre nella sinistra il simbolico cuore ardente ed il suo libro "De Trinitate".
L'angioletto alla sua destra distende una pergamena con una sua celebre frase tratta dalle "Confessiones" (libro V, v. 7):
"Infelix homo qui scit multa, Te autem nescit; beatus autem qui Te scit, etiam si omnia alia nescit" (La frase originaria recita: "Infelix enim homo qui scit illa omnia, te autem nescit: beatus autem qui te scit, etiam si illa nesciat.")
In basso altri angioletti nella nuvola in cui appare il Santo mostrano altri tre testi:
- "Ama et fac quod vis!... Amando ascende quam plus amaverit tanto plus ascende! - In Ps. LXXXIII. X." Questa frase si rinviene in parte in "In Epistolam Ioannis ad Parthos tractatus decem" di Sant'Agostino, esattamente nel tractatus n.7: "Dilige, et quod vis fac: sive taceas, dilectione taceas; sive clames, dilectione clames; sive emendes, dilectione emendes; sive parcas, dilectione parcas: radix sit intus dilectionis, non potest de ista radice nisi bonum existere."
- "Fecisti non Domine, ad Te, et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in Te". La frase è tratta dalle "Confessiones" (libro 1, v. 1) e, completa, così recita: "Tu excitas, ut laudare te delectet, quia fecisti nos ad Te et inquietum est cor nostrum, donec requiescat in Te."
- "Ante omnia Fratres carissimi, diligatur Deus, Deinde Proximus. - Regula Cap. I." tratto, appunto, dalla regola.
Al termine della navata sinistra, sulla parete destra del vano adiacente l'abside,
è affissa una tela raffigurante in un ambiente georgico Gesù con nimbo crocifero radioso,
che dispensa le sue premure e il suo amore
(evidenziato dal cuore ardente dipinto sul petto) agli umili, qui rappresentati
da famiglie in abbigliamento dimesso, operai dei campi ed artigiani, tutti riverenti e
imploranti aiuto o protezione.
Il dipinto è firmato e datato in basso "Umberto Colonna / Bari 1946"
In una nicchia della parete sinistra è inoltre conservata una statua di S. Agostino,
solennemente esposta al culto davanti al presbiterio nella ricorrenza della sua festa, il 28 agosto
(come nella foto del 28/08/2017).
Il Santo trattiene nel braccio sinistro ripegato il pastorale, mentre con la mano insieme ad un cuore regge
il libro della Regola sulla quale spicca la frase
"Ante omnia Fratres carissimi diligatur Deus, Deinde Proximus. - Regula I. cap.";
nella mano destra impugna la penna con la quale ha vergato il predetto testo.
Sulla parete del 6° intercolumnio della navata sinistra, in una cornice di stucco sagomata in basso diversamente dal quadro, è affissa una tela raffigurante Santa Rita da Cascia e firmata "V. Avellino F. 1899".
Per questo quadro Lo Jodice nel citato “Gli undici beati martiri agostiniani del Giappone”,
oltre a descrivere brevemente la vita della Santa, scrive soltanto:
“[Quadro di] Santa Rita da Cascia. Eseguito a Napoli l’anno 1899 dall’ottogenario Professore Vincenzo Avellino; il compenso è stato di lire duecento.”.
La Santa (1381-1447) in abito di religiosa agostiniana è prona in sofferente meditazione
davanti al "PASSIO DOMINI NOSTRI JESU CRISTI" del vangelo
(poggiato aperto su un teschio e davanti ad un crocifisso),
mentre un angioletto la sorregge dal braccio destro e contemporaneamente
altri due la incoronano con un serto di roselline bianche.
Sulla sua fronte è evidente la cicatrice di uno "στίγμα", una piaga
generata da una spina e formatasi in una delle sue frequenti estasi di
preghiera e contemplazione del mistero della Passione di Cristo.
Nella basilica a lei dedicata a Cascia il suo corpo, conservatosi intatto dalla morte,
è adagiato in un sarcofago, realizzato o commissionato da Cesco Barbari e dipinto nel XV secolo da Antonio da Norcia
(Antonius De Sparapanis de Nursia, 1457,
componente di una famiglia di pittori): Santa Rita appare dipinta
con l'abito di religiosa agostiniana stesa su un lussuoso panno rosso trapuntato di stelle.
Nicola Montepulciano, in un suo studio del 2012, condotto unitamente ad Annalisa Lomuscio, Luigi Renna e Vincenzo Zito, approfondendo egli "Tito Troja, pittore “Agostiniano” in Andria", scrive:
"… … « … Sino ad allora della Figlia di Cascia si possedeva soltanto il ritratto sul sarcofago (1457), al quale s’ispirò liberamente il Troja modernizzando il costume e mutando positura (…). Negli anni seguenti numerose chiese agostiniane ricevettero tele con S. Rita.»
Sin qui il Bruzzone, che ci ha spiegato come il Troja potesse essere stato imitato da altri pittori. Infatti, nel nostro Santuario v’è una tela dedicata a S. Rita, dipinta nel 1899 a Napoli dal pittore, allora ottantenne, Vincenzo Avellino, quindi undici anni dopo il prototipo ritiano di Tito Troja. Le scarne notizie relative a questa tela, stranamente mai presa in considerazione dagli studiosi locali, sono di Padre Cosma Lo Jodice, Priore del Santuario dal 1898 al 1908. La tela arrivò ad Andria nell’ottobre del 1899, qualche mese prima della canonizzazione della Santa, avvenuta il 24 maggio 1900, e costò 200 lire, pari a 807 euro circa. E’ probabile che padre Lo Jodice si sia rivolto al pittore Tito Troja per la tela di S. Rita, forse perché sapeva della sua imminente canonizzazione, ma il pittore, essendo impegnato nella preparazione degli arazzi da esporre in Piazza San Pietro per la canonizzazione della Santa, non potè soddisfare la richiesta; oppure, non volle ulteriormente replicare la “sua” tela di S. Rita. Allora P. Lo Jodice si rivolse al pittore napoletano Vincenzo Avellino. Osservando la tela del pittore campano e tenendo presente quanto ci dice il Bruzzone sul prototipo e su altre tele dedicata alla Santa da Tito Troja, possiamo fare un confronto. La Santa nella tela napoletana è vestita da monaca con abiti modernizzati, appare in estasi mistica mentre riceve le stigmate nella fronte, su un piccolo altare vi sono il Passio, il crocifisso, un candeliere. Sono le stesse caratteristiche che ci descrive il Bruzzone quando analizza la tela di S. Rita del Troja. Non solo. Anche l’ambiente qui dipinto può riferirsi ad una cella, il pavimento è di mattoni, in alto si vedono le nubi che sovrastano la Santa e due angeli nell’atto di posare sul capo una corona di rose bianche. A differenza della tela del Troja qui vi è un angelo nell’atto di sorreggere la Santa per un braccio mentre riceve sulla fronte una spina della corona di Gesù, ciò che le procura tanta sofferenza. Come si può notare, nella tela campana ci sono molte caratteristiche della tela ritiana del Troja descritta dal Bruzzone. È molto probabile che il pittore Avellino abbia avuto modo di vedere qualche tela sulla Santa realizzata dal Troja, oppure che ne abbia preso visione da qualche immaginetta che riproduceva una tela ritiana del Troja. Almeno per questo, dunque, Tito Troja può essere definito “inventore iconografico”, che con un termine, forse, più appropriato si potrebbe dire “caposcuola iconografico”."
Per la descrizione della tela riporto quanto scrive Annalisa Lomuscio nel testo sotto citato "Tito Troja, un pittore al 'servizio' della fede":
"Il dipinto, firmato e datato Roma 1904, si trova nella navata sinistra, all’altezza del quinto intercolumnio, esattamente di fronte a quello dei Beati Clemente e Agostino Novello; anch’esso non appare perfettamente corrispondente alla cornice in stucco, che lo ospita.
In primo piano, a terra, fra vegetazione e pozze di sangue, sono accatastati l’uno sull’altro, i corpi con le mani legate di tre Martiri; le teste mozzate giacciono poco distante. Dietro di loro, altri tre confratelli inginocchiati attendono l’esecuzione, in atteggiamento di preghiera e di composta rassegnazione; accanto a loro, ritti e in abiti sontuosi, tre dignitari imperiali -uno armato a destra dello spettatore e altri due alla sua sinistra- e il boia con la scimitarra sguainata. Spostati al margine sinistro del dipinto, in posizione più defilata altri esponenti della corte osservano da lontano la scena; uno di essi in sella ha alle spalle un servo che gli protegge il capo con un ombrellino. Sullo sfondo, una catena di monti, ai piedi dei quali un folto gruppo composto di monaci che attendono il supplizio, mentre dei servi alimentano il fuoco acceso in una grande catasta di legna dalla quale si leva una scia di fumo bianco e denso. Dalla destra in alto scendono su di loro, sospesi su una nuvola, quattro figure angeliche: quella più grande, vestita di rosa stringe nella mano sinistra la palma del martirio mentre con la mano destra indica il Cielo; dei tre cherubini, due hanno fra le manine altrettante corone ed uno una piccola palma nella destra. La scena drammatica e composta al tempo stesso, è resa con grande realismo e ricchezza di dettagli: in particolare l’autore si sofferma sulle vesti, sulle calzature, sui copricapo orientali dei carnefici e della folla astante."
[estratto da “Tito Troja: un pittore al “servizio” della fede” in “Le tele di Tito Troja nel Santuario della Madonna dei Miracoli d’Andria” di Annalisa Lomuscio, Nicola Montepulciano, Luigi Renna, Vincenzo Zito, estratto dalla "Rivista Diocesana Andriese" Anno LVI - n. 1 - Gennaio/Aprile 2013, pag. 170-171]
Alcune notizie storiche ce le fornisce Nicola Montepulciano:
"Nel 1614 iniziò in Giappone una persecuzione contro i cristiani che coinvolse non solo religiosi ma anche laici cattolici giapponesi di qualsiasi ceto, sesso ed età, con esilio e spogliazione dei loro beni. Il 22 maggio 1617 ebbe inizio l’era dei martirii che terminò il 3 settembre 1632. In questo lasso di tempo ci furono trentadue esecuzioni e 205 Martiri (pagg.7-13). I religiosi martirizzati appartenevano a quattro ordini: Francescano, Agostiniano, Domenicano, Compagnia di Gesù. Nella sua monografia P. Lo Jodice riporta brevi notizie dei soli martiri del sacro Ordine Agostiniano (pagg.14-39). L’episodio illustrato sulla tela è narrato a pag. 27. “Prima di dar fuoco alla catasta per ardere vivi quei tre beati servi di Dio, gli fecero assistere, legati ai pali, alla morte dei dodici avventurosi compagni. Questi decapitati, non si tardò un momento per dar fuoco alle cataste. Se la legna ardeva troppo, i carnefici con i forconi toglievano un po’ di legna per farla ardere a fuoco lento e far durare di più le già atroci sofferenze. Fecero durare il fuoco per due ore circa”. Queste due tele [questa con quella del Beato Agostino Novello], scrive il Priore Lo Jodice, furono pagate 200 lire ciascuna, pari a euro 807. Le due tele misurano m 1,55 x 2,15 circa in quanto non comprendono la parte che contiene il lobo inferiore rivolto verso l’interno della specchiatura. La tela è collocata sul confessionale della Navata sinistra, di fronte a quella del B. Agostino Novello."
[estratto da “ Tito Troja, pittore “Agostiniano” in Andria” in “Le tele di Tito Troja nel Santuario della Madonna dei Miracoli d’Andria” di Annalisa Lomuscio, Nicola Montepulciano, Luigi Renna, Vincenzo Zito, estratto dalla "Rivista Diocesana Andriese" Anno LV - n. 3 - Settembre/Dicembre 2012, pag. 169-170]
Sulla parete del 4° intercolumnio, nella dossale dell'altare in marmi policromi
di Giuseppe Bastelli è incastonata una tela raffigurante il martirio di San Placido,
monaco di San Benedetto; è un dipinto attribuito dalla critica ad Alessio D'Elia
(1718 - dopo il 1770, data della sua ultima opera).
Infatti la Prof. Domenica Pasculli Ferrara nel "Dizionario Biografico degli Italiani (Volume 36)",
nella
pagina pubblicata online da Treccani su "D'Elia, Alessio",
così scrive:
"Delle numerose opere di questa chiesa, tradizionalmente assegnate al D'Elia, sono da ascriversi sicuramente a lui, oltre a quelle firmate e datate 1755 - [S. Nicola di Myra,] la Natività di Gesù, Natività di Maria, Incontro fra la regina di Saba e Salomone -, anche S. Michele arcangelo, il Martirio di s. Placido e S. Mauro e gli appestati."
In merito alla leggenda del martirio di San Placido riporto quanto scrive Domenico Di Leo in "Le fonti letterarie", capitolo della sua "Ricerca sulle origini di Andria" del 1971:
"Il d’Urso seguito dall’Agresti, Morgigni e Mucci, afferma che Andria esisteva già nel 536 perché è nominata in una lettera inviata a S. Benedetto da S. Placido durante il suo presunto viaggio in Sicilia.
Alla base di questo documento vi è ancora una volta la leggenda agiografica il cui primo nucleo è in un passo del Chronicon di Leone Marsicano in cui l’autore riporta un’opinione che circolava allora nel suo ambiente: “Beatum etiam Placidum opinio est quod vir Domini Benedictus tunc ad Siciliam miserit, ubi pater eiusdem Placidi Tertullus patricius decem et octo patrimonii sui curtes eidem viro Dei concesserat”
Da qui si sviluppò la leggenda di S. Placido monaco Benedettino e martire di Messina, mentre in realtà il monaco va distinto dall’ononimo martire Siciliano.
Chi conferì a questa leggenda un’apparente giustificazione storica fu Pietro Diacono, bibliotecario e archivista di Montecassino, deciso ricercatore di nuovi titoli di gloria per l’Abbazia cassinese.
A lui si deve una triplice redazione della vita di S. Placido, una delle quali attribuì ad un immaginario Gordiano e i cui fatti sono stati inventati per assicurare la gloria del martirio all’umile figlio di S. Benedetto. Secondo il racconto di Gordiano, infatti, dopo un viaggio ricco di prodigi e di incontri con personaggi celebri, tra cui il nostro Mucci ha inserito S. Riccardo, Placido avrebbe fondato un monastero a Messina e ivi sarebbe martirizzato dai Saraceni nell’anno 541 insieme con molti compagni.
Anche qui quindi nulla di preciso, ma anzi molto è stato inventato; basti pensare che nella “vita” scritta da Pietro Diacono, S. Benedetto avrebbe ricevuto le 18 proprietà in donazione da Tertullo, quando questi si recò a Montecassino nel 532 accompagnato, sempre secondo Pietro Diacono, da Simmaco e Boezio, che invece in qull’anno erano già morti.
Inoltre ci si può chiedere, come mai Placido per recarsi da Montecassino in Sicilia si sarebbe recato in Puglia e in Andria. È troppo affermare, come il Mucci e il Morgigni, che avrebbe visitato il nostro presunto vescovo Riccardo del V sec., quando non è dimostrata, né si può, la sua esistenza in quell’epoca."
Che questa tela posta sulla parete del 2° intercolumnio sia attribuita dalla Pasculli ad Alessio D'Elia ne abbiamo fatto parola prima, illustrando il dipinto di San Placido.
Di San Mauro ne parla per primo Gregorio Magno (540-604) nel 2° libro dei suoi "Dialoghi", raccontando la vita di San Benedetto (480-547). Egli scrive (1):
"Nella sua solitudine Benedetto progrediva senza interruzione sulla via della virtù e compiva miracoli. Attorno a sè aveva radunati molti al servizio di Dio onnopotente ...
Anche alcuni nobili e religiosi romani cominciarono ad accorrere a lui per affidargli i propri figli, perché li educasse al servizio di Dio onnipotente. Tra questi Eutichio gli affidò il suo Mauro e il patrizio Tertullo il suo Placido: due figliuoli veramente di belle speranze.
Mauro, essendo già adolescente e dotato di sante abitudini, divenne subito l'aiutante del maestro. Placido invece era ancora un bambino, con tutte le caratteristiche proprie di quell'età.
... ... ...
Un giorno mentre il venerabile Benedetto sedeva nella sua stanza, il piccolo Placido, già altre volte nominato, usci ad attingere l'acqua nel lago. Immergendo sbadatamente il secchiello che reggeva per mano, trascinato dalla corrente cadde anche lui nell'acqua e l'onda lo travolse trasportandolo lontano da terra, quasi quanto un tiro di freccia. L'uomo di Dio benché fosse dentro la cella si accorse immediatamente del fatto. Chiamò in gran fretta Mauro e gli gridò: "Corri, fratello Mauro, corri, perché Placido, che è andato a prender l'acqua, è cascato nel lago, e le onde già se lo stanno trascinando via!". Avvenne allora un prodigio meraviglioso, che dopo Pietro apostolo non era successo mai più. Chiesta e ricevuta la benedizione, Mauro si precipitò volando ad eseguire il comando che il Padre gli aveva espresso e convinto di camminare ancora sulla terra, corse sulle acque fin là dove si trovava il fanciullo, trascinato dall'onda, lo acciuffò pei capelli e poi, a corsa veloce, ritornò indietro. Non appena toccata terra, rientrato in sé, si volse, vide e capi di aver camminato sull'acqua. Sbalordito di aver fatto una cosa che non avrebbe mai presunto di poter fare, fu preso da spavento e si affrettò a raccontare ogni cosa al Padre. Benedetto attribuì subito il prodigio alla pronta obbedienza di lui, Mauro invece insisteva che tutto era potuto accadere soltanto per il comando di lui, e che egli non era affatto responsabile di quel miracolo in cui era stato protagonista senza neanche accorgersi. In questa amichevole gara di umiltà si frappose arbitro il fanciullo che era stato salvato: "Mentre venivo salvato dall'acqua - disse - io vedevo sopra il mio capo il mantello dell'abate e sentivo che era proprio lui stesso che mi tirava fuori.""
[tratto da "Vita di S. Benedetto e la sua Regola" di Gregorio Magno, ed. Città Nuova, Roma, 1995, pagg. 64-65, 67-68]
Null'altro scrive su Mauro, discepolo di Benedetto, Gregorio Magno (suo contemporaneo), tranne un cenno in un altro episodio, nel quale Mauro pedina un monaco dissipato che si allontana sempre durante la preghiera e smaschera il diavoletto che lo insidia tirandolo per la tonaca. Del miracolo di Mauro che cammina sull'acqua esiste un interessante affresco nel vestibolo della chiesa inferiore.
Annalisa Lomuscio ci descrive dettagliatamente questa tela posta sulla parete del 1° intercolumnio:
"La tela è collocata nel primo intercolumnio della navata sinistra, specularmente a quella della Beata Giuseppa Maria di Sant’Agnese, con cui ha in comune dimensioni, datazione e modalità di acquisizione, oltre al fatto che entrambe rappresentano due esponenti dell’ordine agostiniano di origine spagnola . Il Beato Alfonso, lo sguardo devotamente rivolto alla Vergine, è in ginocchio dinanzi a lei, ritta su una nuvola bianca. Attorno a lei cinque Angeli: delle tre figure più grandi, vestite rispettivamente di rosso, di verde e di bianco, una, a sinistra in basso di chi guarda, è impegnata a respingere il serpente con una lancia, un’altra, al centro del dipinto fra la Madonna e il Beato, porge a quest’ultimo una piuma d’oca, la terza infine ha le mani giunte e lo sguardo adorante rivolto verso Maria; delle due più piccole la prima, al centro in basso, regge un libro aperto, la seconda, ai piedi della SS. Vergine, le offre dei gigli. Il libro e la penna potrebbero alludere alla fama di Alfonso quale scrittore e abile predicatore. La Madonna ha lunghi capelli biondi, coronati da un’aureola di piccole stelle; indossa una tunica bianca ed un manto celeste, il braccio destro è sollevato e portato in avanti ad indicare il Beato, il sinistro è ripiegato sul petto. Sullo sfondo della composizione principale, avvolti in un’aura dorata, schiere di Angeli, alcuni dei quali appena accennati, contemplano la scena. Si noti il contrasto tra la parte destra del dipinto, ove prevalgono le tinte scure e quella sinistra, avvolta in una vivida luce che entra dall’alto, ove vi è grande varietà di colori."
[estratto da “Tito Troja: un pittore al “servizio” della fede” in “Le tele di Tito Troja nel Santuario della Madonna dei Miracoli d’Andria” di Annalisa Lomuscio, Nicola Montepulciano, Luigi Renna, Vincenzo Zito, estratto dalla "Rivista Diocesana Andriese" Anno LVI - n. 1 - Gennaio/Aprile 2013, pag. 171-172]
Nicola Montepulciano ci fornisce su questa tela alcune interessanti notizie storiche:
"Per quanto riguarda le altre due tele del Troja si sono rinvenute notizie sul n. 13 del periodico La Vergine dei Miracoli pubblicato tra maggio e ottobre 1907, quando le celebrazioni del 50° anniversario della Incoronazione della Immagine della Madonna erano concluse. Scrive il P. Lo Jodice: “Due cornici in stucco aspettano ciascuno una tela. Ambedue saranno lavoro di un distinto pittore della scuola romana, saranno collocate appena pronte”. Siamo nel mese di ottobre 1907, quasi a fine anno, e le tele dovevano ancora arrivare. Non cita l’autore, ma dalla firma che si può leggere in fondo alle tele sappiamo essere di Tito Troja e, dalla lettura della data, dipinte nel 1908. Sono dedicate a due beati Agostiniani spagnoli. Una rappresenta l’allora beato, oggi Santo, Alfonso de Orozco (1500-1591) in ginocchio dinanzi alla SS. Vergine . Questi era un grande devoto della Vergine, con l’intima convinzione di scrivere per suo mandato. Scrisse molte opere in latino ed in lingua castigliana. La tela rappresenta la Madonna che lo invita a scrivere le opere, circondata da vari angeli fra cui uno che gli porge la penna ed un calamaio e, in basso, un altro che gli porge o che gli regge un libro. Di questa tela, dunque,conosciamo il committente (il Santuario), l’anno di esecuzione e arrivo nel Santuario, ma non il costo. Questa tela occupa l’intera specchiatura della cornice e misura quindi m 1,55 x 2,46."
[estratto da “ Tito Troja, pittore “Agostiniano” in Andria” in “Le tele di Tito Troja nel Santuario della Madonna dei Miracoli d’Andria” di Annalisa Lomuscio, Nicola Montepulciano, Luigi Renna, Vincenzo Zito, estratto dalla "Rivista Diocesana Andriese" Anno LV - n. 3 - Settembre/Dicembre 2012, pag. 170-171]
NOTE
"Cum sanctus vir diu in eadem solitudine virtutibus signisque succresceret, multi ab eo in eodem loco ad omnipotentis Dei sunt servitium congregati ... ... ...
Coepere etiam tunc ad eum Romanae urbis nobiles et religiosi concurrere suosque ei filios omnipotenti Deo nutriendos dare. Tunc quoque bonae spei suas soboles, Equitius [Evitius / Euticius] Maurus, Tertullus vero patricius Placidum tradidit;
e quibus Maurus junior cum bonis polleret moribus, magistri adjutor coepit existere; Placidus vero puerilis adhuc indolis gerebat annos.
... ... ...
Quadam vero die dum idem venerabilis Benedictus in cella consisteret, praedictus Placidus puer sancti viri monachus ad hauriendam de lacu aquam egressus est: qui vas quod tenuerat in aquam incaute submittens, ipse quoque cadendo secutus est. Quem mox unda rapuit, et pene ad unius sagittae cursum eum a terra introrsus traxit. Vir autem Dei intra cellam positus, hoc protinus agnovit, et Maurum festine vocavit, dicens: Frater Maure, curre, quia puer ille qui ad hauriendum aquam perrexerat, in lacum cecidit, jamque eum longius unda trahit. Res mira, et post Petrum apostolum inusitata. Benedictione etenim postulata atque percepta, ad Patris sui imperium concitus perrexit Maurus; atque usque ad eum locum quo ab unda deducebatur puer, per terram se ire existimans, super aquam cucurrit, eumque per capillos tenuit, rapido quoque cursu rediit. Qui mox ut terram tetigit, ad se reversus post terga respexit, et quia super aquas cucurrisset agnovit, et quod praesumere non potuisset ut fieret, miratus extremuit [extimuit] factum. Reversus itaque ad Patrem, rem gestam retulit. Vir autem venerabilis Benedictus hoc non suis meritis, sed illius obedientiae deputare coepit. At econtra Maurus pro solo ejus imperio factum dicebat: seque conscium in illa virtute non esse, quam nesciens fecisset. Sed in hac mutuae humilitatis amica contentione accessit arbiter puer qui ereptus est; nam dicebat: Ego cum ex aqua traherer, super caput meum melotem abbatis videbam, atque ipsum me ex aquis educere considerabam."